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Poema o romanzo in versi è Gli Dei clandestini (Aletti, 2019, pp. 62, € 12,00), dove, in un monologante ductus con rari ‘versi sciolti’ e in un esteso reticolo di assonanze, s’avvicendano distici, terzine, rime incrociate, interne o ‘nascoste’. L’autrice, Isabella Horn, d’origine tedesca, è filologa, traduttrice e poetessa in lingua italiana con all’attivo, negli ultimi anni, alcuni libri caratterizzati da una costante coerenza stilistico-tematica. Tra essi: Codice barbaro, 2013; La Stanza della Luce, 2015; Impermanenze, 2016, Lunae Antiquae, 2017; Ballate dei sudditi felici, 2018; Per terre oscure, 2018...
Cosmologia erudito-visionaria e, insieme, narrazione autobiografica vocata a farsi ‘canto generale’, il libro della Horn, svolto in versi che per intrinseca chiarezza costituiscono la propria stessa parafrasi, muove a partire da una franca trasvalutazione delle metafisiche confessionali. Metafisiche o proterve ideologie che, imponendo il monoteismo (il dio ebreo, cristiano, musulmano; con altre fedi conniventi o tra loro avverse), obliterano la Madre Terra nonché lo spinoziano Deus sive Natura (“Dio ossia la Natura”). Un’entità, questa, significante non già l’antropomorfico ‘Dio unico’ del Primo Comandamento, “un dio geloso, / sitibondo d’onnipotenza” e delirante quel “Non avrai altro Dio all’infuori di me” adottato da ogni potere assoluto, ma quanto compendia le origini e la vicenda d’un vivo, mutevole universo di miti o simboli sciolto da vincoli superstiziosi e relativamente sacrale.
È un universo sincretico che, scevro da dogmi, discopre la propria particolare religiosità in un Immaginario non teologico né, tanto meno, oscurantista e idolatrico. Magari perché il sentimento religioso, che secondo Leonardo Sciascia si può esprimere anche prescindendo da schemi confessionali, può essere uno stato d’animo bisognevole di poesia – d’una poesia desiderante, sorta da un pensiero collettivo che non disgiunge la propria spiritualità dalla materia del mondo – piuttosto che di una divinità monocola e inquisitrice: d’un inesorabile dio/Minòs che “essamina le colpe ne l’intrata;” e tutto “giudica e manda secondo ch’avvingha” (Dante, Inferno, canto V).
Scacciati dalle religioni monoteiste nemiche del desiderio e della libertà di pensiero, gli Dei pagani, metamorfici numi dell’intelligenza creatrice sparsa nell’infinito quotidiano, “fuggirono in punta di piedi oppure volando; / invisibili, in silenzio; e s’incupì il bosco, / ammutolì la radura, / perse il ruscello il gusto di scorrere saltellando, […]. Calarono ombre di gelo sul mondo mutilato / di presenze vivificanti, / compagne dell’uomo mortale e del suo destino”… Irriducibili ai ciarlataneschi commerci di certa New Age, erano mitologie terragne o pagane prodotte dell’immune fantasia poetante, personificazioni degli elementi naturali e degli impulsi di origine psichica delle comunità umane. Circoscritte, ridotte a detriti dell’umana emozione o condannate dai teologi patriarcali, sfuggirono comunque al controllo diffondendosi capillarmente dentro un fertile flusso di analogie irraggianti e assimilatrici. Erano epifanie atemporali di fecondi numi boschivi, ninfe iperboree, selvatici satiri, sileni e centauri, elfi e folletti dispettosi, genietti alati, gnomi, erinni e moire, nereidi e menadi, voluttuose sirene, muse pagane. Demoni e coboldi burloni erano, negromanti benèfici, maghe, fate o streghe d’una matriarcalità conculcata, divinità lunari e angeli astrali sottratti alla presa dell’arcigno Dio monoteistico ancorché paradossalmente trino, “Vecchio Tiranno” che paventa “numi altri, numi diversi da lui, tutti rei” di misconoscerne l’onnipotenza e taccia di eresia il furore dell’immaginazione.
Sono poi loro, i “clandestini, messi al bando”, allegorie delle piccole deità esiliate, che accompagnano la vicenda biografica dell’autrice; di una ‘favola della vita’ con le sue erranze dal nord dell’Europa ai luoghi della Magna Grecia e della Sicilia greca e latina, della Spagna e, infine, della Toscana e di Firenze, segnatamente la Firenze, precedente il turismo selvaggio, della grande cultura europea.
Poema pagano in lucida sintassi e dall’ampio lessico, questo dell’autrice; con alternanze di versi ipotattici, lunghi e melodiosi, e paratattici, brevi e ritmati. Poema che in svariate cadenze di suoni e sottigliezze di senso si confronta con le leggende non meno che con le ‘cose’: con il paesaggio, gli animali e le piante in una peregrinazione nel non-tempo negato dalla storia ufficiale, nei luoghi svanenti del ricordo e della ricerca d’armonia tra il mito, il sogno immemore, i nomi reconditi e intangibili delle ‘presenze nascoste’ nelle stanze della poesia… Da tale coscienza – e da germinanti richiami ai “libri cari dell’infanzia”, “alle storie antiche delle veglie d’inverno”, a una “natura naturans” generosa di “boschi fitti di mirtilli e more” avvolti nell’“aroma dei pini” e in fragranze di tigli, festevolmente pervasa da “un corteo cinguettante / di merli e pettirossi” – spicca senza infingimenti un frontale, ardito contrasto della poetessa nei confronti d’un sistema di cose ipertrofico e da “Basso Impero” declinante/decadente, dedito all’avere senza l’Essere.
Slegato da un mero naturalismo panico, il poema privilegiatamente esistenzialistico-sapienziale della Horn, non avulso dalla tradizione letteraria novecentesca, aperto alla ricerca del nuovo e all’impegno, resta alfine una testimonianza delle possibilità anche critiche della poesia, certo “la sfida d’amore d’uno scrivere sempre incompiuto” quantunque severamente incentrato sull’accorata stigmatizzazione di un’umanità la cui “malinconia / irredenta, insonne è l’indelebile segno / dell’essere inadeguati alla nostra sostanza”.
(Firenze, 30 novembre 2019)
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