| D’ in sulla vetta d’ una torretta
Visionario, solitario stai
Passero che sogni ben altra vetta
Passero che non ti passerà mai
Di lì vedi dentro una toletta
Una donna che con gesti gai
E’ più di mezz’ ora che si umetta
Mentre in cucina il forno fa guai
Vedi ragazzi andare di fretta
Chissà dove, verso quali viavai
Dalla toletta spunta una tetta
Ma tu te la sei persa. Ahi
Tutto il mondo non è che disdetta
Canti e trapassi questo lo sai
E sempre è la parola non detta
Quella che in punta di lingua hai
Dovremmo fondarla questa setta
Di disperati! Che società! I
Membri saremmo io te chi è in bolletta
Leopardi, e quant’ altri. Dai
Figurati che mi innamorai
E lei era talmente abietta
Che quando una volta mi ammalai
Si rifiutò di farmi la peretta
Passero, questa vita va stretta
A te come a me, vita di guai
Senza donne o qualcuno che ammetta
di amarci con l’ anima; in mezzo a vespai
E a libri buoni solo a far cassetta
Senza più editori buongustai
…No, pur senza l’ alloro che ti spetta
Tu del tuo costum non ti dorrai
Né io cercherò una mia vendetta
Io scriverò e tu il volo prenderai
Quando l’ uomo che tra sé balbetta
La sua noia più non capirai.
*****
La bocca a forma di chiglia vichinga
si aggirava come sempre ubriaca
tra i divani, con le mani da zingara
esperta in amore ed il cuore staka-
novista, vuoto come una siringa
Girava col suo umore di lumaca
si fermava preparando un’ arringa
Ma appena apriva bocca… una cloaca
Voleva le provassimo il respiro
perché il suo uomo lui l’ avrebbe uccisa
se la scopriva. E se gli davi retta
appena gli giungevi sotto tiro
crollava come una torre di Pisa
con quella sua bocca a forma sospetta
Io in genere non mi trovavo il naso
quando passava lei: me lo schiacciavo
per renderlo meno ovvio e, nel caso
me lo scopriva, agghiacciato gridavo
di non averlo, che ero tutto raso
da quando ero finito accanto, a tavola
a un noto assaggiatore sadomaso
smorsato prima e quindi fatto incavo
Mi risparmiò sempre, per tenerezza
forse. E fu una fortuna tutta mia
che quella strana vita sia passata
Solo a distanza colsi la sua brezza
Ma oggi, forse, dalla nostalgia
mi ci sottoporrei, alla fiatata
Giuro che sembrava di stare dentro
un racconto di Poe: proprio nel centro.
Poesie tratte da “Perché ho smesso di scriverti versi”, Aletti 2009.
[Prefazione di Stefano Petrocchi -Ho iniziato a leggere i versi di Simone fra una lezione e l’altra, all’università. Di tanto in tanto mi passava qualche foglio scritto con la stampante ad aghi, che io mettevo via quasi subito. Non c’era molto da dire: quelle poesie mi sembravano, e ancora oggi mi sembrano, bellissime. La ragazza che camminando diceva con le anche cose tutt’altro che fatue, il passero la cui solitudine non passerà, ma anche la principessissima che in questo libro non figura, prendevano posto senza fatica nel mio immaginario accanto a Bocca di Rosa, Valmont e Toto le héros.
Dei versi e dei libri degli altri si parlava invece parecchio. Non c’è voluto molto a scoprire in Simone una versione aggiornata del lettore totale di cui scrive Mallarmé – nel suo pantheon di riferimento si indovinavano, tanto per cominciare, Catullo, Leopardi, Gozzano, Fred Buscaglione, De André, Woody Allen… Tuttavia lo stato di malinconico esaurimento che avrebbe dovuto conseguirne, sembrava produrre in lui non tanto tristezza quanto un’euforica tensione creativa. Guardate le rime. In alternanza a quelle più facilmente cantabili prende vita nelle poesie di Consorti un campionario inopinato di parole spezzate o agglutinate alla fine del verso: reci (/ Ta davanti…) in rima con preci (/ Pizio– versicolo non ha in sé alcun significato ma a sua volta fa eco con Vizio), artisticon Lizst, i (/ Concerti), staka- (/ novista) con lumaca. Quest’ultimo esempio, per altro, compare in un testo che è un autentico tour de forcestilistico, con versi ipermetri, rime per l’occhio e così via (La bocca a forma di chiglia vichinga).
L’uso a tutto campo della rima a me pare la cifra della scrittura in versi di Consorti, insieme con la tendenza al recupero di strofe e metri tradizionalmente strutturati: non proprio di canzoni, sonetti o sestine è fatto il suo canzoniere, ma a queste forme si pensa inevitabilmente in quanto alluse e talvolta garbatamente parodizzate. Se metto l’accento su questi aspetti tecnici è anche per provare a suggerirne una lettura di senso che vada oltre la predominante componente ludica. Forse non è del tutto azzardato intravedere, nelle fratture e ricomponimenti tra parole o nel ritorno percussivo delle rime, l’immagine sensibile di un’esperienza di separazione (patita, deprecata, esorcizzata) e ricongiungimento (instancabilmente sognato) con il destinatario di questi versi.
L’autore racconta soprattutto il momento dell’apparizione numinosa dell’oggetto del desiderio, l’accelerazione del battito cardiaco e l’appannamento della vista, e poi il momento dell’abbandono bruciante in cui il tempo con-vissuto con la donna amata ritorna come rimorso, recriminazione, rimpianto. In questo senso il titolo della raccolta, Perché ho smesso di scriverti versi, sembra indicare lo spazio strettamente delimitato tra amore e disamore in cui può accadere la poesia: nonostante lo sconfinamento verso temi ulteriori e perfino qualche accenno "civile" nella sezione centrale del libro (complessivamente più "libera" nell’orchestrazione formale), scrivere per Consorti presuppone sempre un dialogo privilegiato con un "tu" femminile assente.
Ricordo che Simone, alle mie insistenze perché raccogliesse in volume i suoi versi, rispondeva che si proponeva di farlo dopo essersi impegnato nello scrivere un certo numero di romanzi. Il fatto che intendesse ascendere una sua stravagante scala di rispettabilità nelle occupazioni letterarie, conoscendolo, non mi sorprendeva. Avendo avuto ripetute prove del suo talento sapevo che era soltanto questione di tempo. ]
http://www.nazioneindiana.com/2009/12/23/perche-non-ho-smesso-di-scriverti-versi/
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