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Opere pubblicate: 19994
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FINE DI ANTIGONE.
AJACE PERSONAGGI PALLADE. ULISSE. AJACE. CORO DI SALAMINII. TECMESSA. TEUCRO. MENELAO. AGAMENNONE. UN NUNZIO. (EURISACE - UN AIO - UN BANDITORE, che non parlano). Scene, spiaggia di mare presso Troja, con navi e tende de' Greci. Poi altra spiaggia solitaria con bosco. AJACE PALLADE su machina in alto e ULISSE. PALLADE. Sempre te, o figlio di Läerte, io vidi Ire in caccia appostando il dove e il come Preda far d'inimici; ed or ti veggo Ronzar da lungo invêr l'estremo corno Dell'Argivo navile,(29) ove le tende Son d'Ajace, e adocchiar le più recenti Orme sue, per saper se dentro ei sia, O se n'uscì. Ben qui ti porta il tuo, Qual di cagna spartana, olfatto acuto.(30) L'uom poc'anzi v'entrò, tutto grondante Sudor la fronte, e sanguinante il braccio. Più non t'è d'uopo sospinger lo sguardo Quivi entro; di' perchè tal cura prendi, E da chi ben sa il vero, il ver saprai. ULISSE. Oh di Pallade voce, a me de' numi La più diletta diva, io riconosco, Benchè lungi ne sii, la tua parola, E la comprendo, e in me sonar la sento, Siccome squillo di tirrena tromba.(31) A te conto egli è già, che d'uom nimico Le tracce io spio, del clipeato Ajace:(32) Quello, non altri, ormando io vo; chè fatta N'ha in questa notte un'incredibil cosa; - Se n'è desso l'autor; poi che di certo No 'l sappiam tuttavolta, e dubii siamo. - Spontaneamente io mi sopposi al carco Di ciò far chiaro. Sgominate, uccise Tutte trovammo le predate greggie Con pur essi i custodi. A lui la colpa Ne dan tutti, e talun v'ha che m'accerta Visto averlo, lui sol, correre a salti Per la campagna col ferro grondante Di fresco sangue. Onde i vestigi suoi Sollecito ne cerco; e parte ho d'onde Far concetto del ver, parte sospeso Stommi, nè so che argomentarne. Ad uopo Tu vieni, o dea. Già tutto, e inanzi e poi, Alla tua guida io mi governo e reggo. PALLADE. M'è noto, e quindi a vigilarti or vengo Nella tua caccia. ULISSE. O amica dea, ben presa Ho io l'inchiesta? PALLADE. Opra di lui fu quella. ULISSE. Qual mai cagione all'insensato eccesso La man gli spinse? PALLADE. Alto rancor per l'armi, A lui tolte, d'Achille. ULISSE. E a che furente Piombò sovra gli armenti? PALLADE. In voi credendo Con ampia strage insanguinar le mani. ULISSE. Ciò degli Achei far divisava? PALLADE. E fatto, S'io non era, l'avrebbe. ULISSE. In qual di mente Venne audace delirio? PALLADE. All'äer bujo Solo su voi correa di furto. ULISSE. E presso N'era egli già? PALLADE. Già presso era alle stanze De' due sommi imperanti. ULISSE. E come il braccio Desïoso di strage indi ritenne? PALLADE. Io l'effetto impedii di quell'atroce Imaginata gioja, agli occhi suoi Parando inanzi ingannatrici larve, E su le torme de' predati armenti Il furor ne devolsi. Ond'egli in mezzo Vi si gettando, e trucidando a cerco, Ne fe' molto macello; ed ora entrambo Tener gli Atridi, e ucciderli credea, Ed or su l'uno or su l'altro avventarsi De' capitani. In cotal rete io spinsi Quel furibondo di delira febre; E poichè dallo scempio faticoso Posò, quanti ancor vivi eran giovenchi, E del gregge i restanti avvinti insieme, Come d'uomini preda, e non di bruti, Li trasse dentro alla sua tenda, e quivi Ne li vien flagellando. Or vo' mostrarti Qual manía lo travaglia, a fin che poi Tu il narri a tutto degli Achivi il campo. Qui sta', nè dubitar che da quest'uomo Danno ti venga: io svïerò sue luci Sì da te, che vederti a lui sia tolto. O tu, che in lacci a' prigionieri tuoi Tieni strette le mani, esci; io ti chiamo: Fuor di tua stanza or qui ne vieni, Ajace. ULISSE. Deh no! che fai? deh non chiamarlo, o diva! PALLADE. Taci; non aver tema. ULISSE. Oh per gli dei Lascia ch'entro ei rimanga. PALLADE. E che paventi? Non è desso quel ch'era? ULISSE. A me nimico, Ed or vie più. PALLADE. Non dolce cosa è il riso Che si fa de' nimici? ULISSE. A me ciò basta, Ch'entro ei stia. PALLADE. Veder temi un forsennato? ULISSE. Ove in senno egli fosse, io di vederlo Non temerei. PALLADE. Ma, ben che a lui sii presso, Non ti vedrà. ULISSE. Com'esser può, se gli occhi Ha pur veggenti? PALLADE. Offuscherogli il guardo. ULISSE. Tutto esser può ciò che un iddio far vuole. PALLADE. Costà dunque, ove sei, tacito resta. ULISSE. Resterò, - ben che altrove esser vorrei. PALLADE. - Te chiamo, Ajace, un'altra volta. Or donde La protettrice tua curi sì poco? AJACE, PALLADE e ULISSE. AJACE. Salve, o Pallade, o figlia alma di Giove! Come vieni a buon punto! Io d'auree spoglie Vo' per questa mia preda a te far dono. PALLADE. Bene sta; ma rispondi: hai tu la spada Tinta e ritinta degli Achei nel sangue? AJACE. Non che no'l nieghi, io me ne vanto. PALLADE. Ed anco Battagliasti col braccio ambo gli Atridi? AJACE. Tal che più sprezzo non faran d'Ajace. PALLADE. Morti dunque son essi, a quel che intendo. AJACE. Sì. L'arme mie mi tolgan essi ormai. PALLADE. E che fa, dimmi, di Läerte il figlio? Quale in tue mani ebbe ventura? O forse Ch'ei ti fuggì? AJACE. Di quella trista volpe Mi chiedi? PALLADE. Sì; del tuo nimico Ulisse. AJACE. In lacci sta, gran gioja mia, là dentro. Non vo' che muoja ancora. PALLADE. E che di lui Farne vuoi pria? che più ne brami? AJACE. Avvinto A una colonna entro mia tenda.... PALLADE. Al misero Qual castigo dar vuoi? AJACE. Vo' che le terga Pria flagellato e insanguinato muoja. PALLADE. Deh non trattar di sì spietato modo Quell'infelice! AJACE. Ogni altra cosa, o Pallade, A piacer tuo; ma quel castiigo al certo S'avrà colui. PALLADE. Se di ciò godi, or bene, Usa del braccio a tuo talento, e tutto Fa' pur ciò che disegni. AJACE. All'opra io corro. Sempre così mi sii tu fausta, o dea! (parte) PALLADE. La possanza de' numi or vedi, Ulisse, Quanta è? Qual uom che di migliore avviso Trovato fosse, o più valente all'opre? ULISSE. Io nessun ne conobbi; ed or di lui, Ben che avverso ei mi sia, sento pietade Per cotanta sventura. E non più a lui, Che a me stesso mirando, a ciò m'induco; Però che noi, quanti viviam, non altro Esser veggio che larve od ombra lieve. PALLADE. Poi che ciò vedi, una parola insana Contro agli dei non pronunziar giammai, Nè superbir se di potente mano O di molta dovizia un altro avanzi. Un giorno sol tutte le umane cose Abbassa, ed anco le rialza. I numi Amano i buoni, ed hanno in odio i rei. (partono Pallade ed Ulisse) CORO. O Telamonia prole, Che in Salamina all'onde in mezzo hai sede, Lieto son io se tu felice sei; Ma se l'ira ti fiede Di Giove, o con maligne aspre parole T'insultano gli Achei, N'ho gran duolo, e per tema A guisa di colomba il cuor mi trema. Ed or voce ne turba ingiurïosa, Che il prato, ove ritratta Sta degli armenti l'indivisa preda, Questa notte invadesti, e sanguinosa Una strage n'hai fatta. Tal fola ordisce Ulisse, e la bisbiglia Nell'orecchio di tutti, e persuasi Li fa che tutto in onta tua si creda; E diletto ne piglia Più ancor di lui chi l'ode, E a' tuoi sinistri casi Anco insultar malignamente gode. Chi ne' grandi a ferir drizza lo strale, Fallir non suole il segno. Ciò di me non creduto Saría, chè invidia i più prestanti assale. Pur se da' grandi ajuto I piccioli non han, debil sostegno Questi son dello stato: ov'è congiunto L'umíl co' grandi, e con gli umíli il grande, L'un dell'altro si giova e s'avvalora. Ma non puossi agli stolti Queste insegnar vere sentenze; ed ora Tal da loro in mal punto Falso rumor si spande; E propulsarlo noi Non possiam senza te. Come di molti Augei garrulo stormo, ei van gridando Fuori degli occhi tuoi; Ma se apparisci poi, Da súbito terror tutti abbattuti, Qual di grande sparviero trepidando, Stan d'ogni voce muti. Strofe. Forse la diva Artémide, Figlia di Giove (oh infausto, oh doloroso Grido per noi di vergognosa taccia!), Te spingea furïoso Su'l commun gregge o per negato onore In tue vittorie, o per fraudata parte Delle primizie di selvaggia caccia. O il loricato Marte Forse ti trasse in quel notturno errore, Per punir di prestata e vilipesa Aïta sua l'offesa. Antistrofe. Pensatamente, o figlio Di Telamon, trascorso a tal non sei Da piombiar su gli armenti: ira ti spinse Certo d'avversi dei. Ma Giove e Febo dalla fama obliqua Fra gli Achivi diffusa or te difenda. Che se l'invidia de' gran re ciò finse, O di quel dell'iniqua Sisífide semenza,(33) entro la tenda Più, signor, non celarti, e non più l'onta Soffrir, che in te s'impronta. Epodo. Sorgi dunque, mio re, sorgi da questo Lungo ozio, onde l'infesto Grido fai che in maggior fiamma divampi. Già de' nimici tuoi va l'insolenza Franca d'ogni temenza Scorrendo in lati campi, E fan tutti di te con lingue prave Ludibrio acerbo; ed io dolor n'ho grave. TECMESSA e CORO. TECMES. Della nave d'Ajace o voi compagni, Stirpe degli Erettídi,(34) or ben ragione Di far gemiti e lagni Abbiam quanti la casa anco da lunge Amiam di Telamone. Il grande, il prode, il sì prestante Ajace Da tempestoso Turbo sbattuto or giace. CORO. Qual questa notte Tristo caso apportò? Narralo, o figlia Del frigio Teleutante,(35) Tu cui sua prigioniera e in un consorte Si. tien diletta il forte Ajace; onde ben puoi Esserne instrutta, e riferirlo a noi. TECMES. Come ridir cosa nefanda io posso? Udrai doler che a paro È della morte amaro. Da manía preso il grande Ajace, orrenda In questa notte indegnità commise: Tal vedresti nel sangue Gran numero giacer là nella tenda D'agni e di buoi che la sua mano uccise. Strofe. CORO. Qual d'uom furente oh quale Tu ne chiaristi atroce, Intolerando male, Cui già l'invida voce De' primeggianti degli Achei promulga, E vie più si divulga! Ohimè! quel ch'indi seguirà, pavento. Certo anch'egli morrà, però, che insano Con la crüenta mano Strage fe' de' pastori e dell'armento. TECMES. Lassa! da' campi strascinando venne Que' greggi in lacci entro la tenda, e quivi Parte sgozzò, di parte Sparò le coste in mezzo; Indi due bianchi arïeti afferrando, E la lingua all'un d'essi E la testa troncando, Via la scaglia e su ritto a una colonna Lega quell'altro, ed una lunga in mano Redina presa, i due capi n'accoppia, E sì 'l batte con doppia Fischiante sferza, e con parole il carca Di dure atroci offese, Ch'uomo non già, ma un rio demón gli apprese. Antistrofe. CORO. Dunque ora noi, la testa Entro nel pallio involti, Volsi furtivi a presta Fuga andarne, o raccolti Sovra il banco de' remi arcando il dorso, Spinger la nave al corso. Tali faranno ambo gli Atridi insieme A noi minacce, e dalle pietre oppresso Giacer temo con esso, Cui feroce furore incalza e preme. TECMES. No 'l preme or più: qual buffa impetuosa D'austro che vien senza fulgor di lampi, Passò in lui quel furore, ed ora ha posa. Ma tornato a ragione, Nuova ha di duol cagione; Chè l'effetto mirar de' proprii falli, Nè alcun fuor che lui solo esserne autore, Stringe d'alto dolore. CORO. Pur, se in calma tornò, penso poterne Anch'io goder; chè di passato male Minor conto si fa. TECMES. Ma se a te dato Fosse a scerre, o gli amici contristando, Esser tu lieto, o duolo aver con essi, Di', che scerresti? CORO. Il doppio male, o donna, È mal maggiore. TECMES. Ed ambo or noi, cessato Quel furor, di dolore afflitti siamo. CORO. Come ciò? Non intendo. TECMES. Allor che insano Egli era, in pezzo a' proprii guai godea, Di sè non consapevole, e attristava Noi che in senno eravamo. Or poi che posa Racquistò dal delirio, oppresso è tutto Da una cupa tristezza, e noi del paro Afflitti siam non men di prima. Or questo Doppio male non è? CORO. Sì certo; e temo Sia castigo divin: se ciò non fosse, Come, or pacato, ei non è più sereno Di, pria, furente? TECMES. E avvien così, t'accerta. CORO. Ma d'onde il male ebbe principio? Il narra A noi che nel dolor ti siam compagni. TECMES. Tutto udrai; chè tua pure è la sventura. Ei, poi ch'alta la notte, e non più accese Eran le faci vespertine,(36) afferra Brando affilato, e a vani armeggiamenti Uscir s'appresta. Io lo garrisco: Ajace, Che fai? che tenti? A qual cimento corri, Non chiamato, nè araldi, nè di tromba Invito udendo? Or tutto dorme il campo. Egli allor quella breve e ad ogni tempo Ricantata sentenza a me risponde: Donna, il silenzio è bel decoro a donne. Tacqui; ei fuor si slanciò solo, nè i guasti So dir di quivi: entro tornò träendo Legati insieme e tori e cani e molta Cornuta greggia; e troncò il capo agli uni, Fiaccò agli altri le reni; ad altri il muso Insù torcendo, ne segò la gola, E su 'l resto del gregge che legato Tenea, gittossi, e il flagellò siccome D'uomini fosse. Indi fuor corso a un tratto, Favellò con jattanza e non so quale Ombra,(37) e d'ambo gli Atridi e in un d'Ulisse Con un molto dicea riso beffardo, Come ontoso lor diede aspro castigo. Entro alfin si ritrasse, e a poco a poco In sè rivenne; e veggendo ogni cosa Pien di sangue e di strage, urlò, la fronte Si percosse, nel mezzo a quel carname Prostratosi a giacer, con l'ugne acute Ad ambe mani e si stracciò la chioma. E là stette gran tempo taciturno; Poi, vôlto a me, terribili minacce Mi fa se appieno ogni avvenuta cosa Non gli fo manifesta, e domandommi Di sè che fosse. Io späurita, o amici, Quel che sapea, tutto gli dissi. Ei tosto Proruppe allora in dolorosi gemiti, Quali da lui mai non udii; chè sempre Esser di vile e pusillanim'uomo Dicea questi lamenti; ed ei per duolo Grida non mettea mai, ma cupamente, Come tauro, mugghiando in sè fremea. Ora, in tanta sventura ei colà giace, Senza cibo pigliar mai nè bevanda, Immobile nel mezzo a quelle tronche Membra d'armenti; e ben si par che intenda In funesto disegno; il parlar suo, Il suo gemer n'è prova. Amici, or voi (Per ciò appunto qui mossi) a confortarlo, Se il potete venite! Anime tali Vinte si danno a ragionar d'amici. CORO. Trista cosa, o Tecmessa, a noi tu narri, Da tanta insania il tuo consorte invaso. AJACE. (dentro) Ohimè, me lasso! TECMES. Ecco, più forte ancora Par che si dolga. Udiste Ajace, udiste Com'ei grida? AJACE. (dentro) Ohimè lasso! CORO. O ch'ei s'affanna Di duol ch'or sente, o del furor cessato L'idea lo crucia. AJACE. (dentro) Oh figlio, figlio! TECMES. Ahi misera! Eurísace, te chiama. - Oh che mai volge Nel torbo cuor?... Figlio, ove sei?... Me misera! AJACE. (dentro) Teucro io chiamo; ov'è Teucro? Intorno sempre Va depredando? - ed io fra tanto, io moro! CORO. Par che in senno egli sia. Schiudi la tenda. Forse in vederne prenderà contegno Più temperato. TECMES. Ecco, la schiudo. Or vedi Che fatto egli ha; qual tristo stato è il suo. AJACE, TECMESSA e CORO. Strofe I. AJACE. Oh miei compagni, oh amici miei che state Soli a me ancor con integra Fè congiunti, mirate Quale or qui mi circonda Fluttüante di sangue orribil onda. CORO. Ohimè! pur troppo il ver dicesti, o donna. Mostra il fatto, non sano esser di mente. Antistrofe I. AJACE. Oh voi ch'esperti del naval remeggio Meco le vie del pelago Solcaste, e soli or veggio Che a me propizii siete, Deh porgete favor, deh m'uccidete! CORO. Non dir così; rimedio al mal ponendo Con altro mal, non far maggiore il danno. Strofe II. AJACE. Vedete il prode, il forte, Quel nelle pugne intrepido guerriero, Manse greggie or con fiero Impeto porre iinsanamente a morte? Oh scherno! Ohimè, per sì spregevol'opre Quale obbrobrio mi copre! TECMES. Deh non dir questo, o mio signor; te n' prego! AJACE. Tu qui? non esci? Il piè non porti altrove? Ahi ahi! CORO. Pace, deh pace, e in te ritorna! Strofe III. AJACE. O me infelice, che fuggir di mano Mi lasciai que' perversi, E su giovenchi e agnei belanti insano Scagliandomi, di lurido Sangue il terrea cospersi! CORO. Ma cruciarti del fatto or che ti giova? Esser non può che quel che fu, non sia. Antistrofe II. AJACE. - Oh spïator di tutto, Oh sempre autor d'ogni più reo consiglio, Tu, di Läerte figlio, L'uom di nequizia sin fra gli Achei più brutto, Certo di me, per lo piacer che n'hai, Un gran riso or tu fai! CORO. De' numi a grado e ride ogni uomo, e piange. AJACE. Oh il vedessi colui, benchè fiaccato Io sia, lasso, così! CORO. Non dir superbe Cose: lo stato, in che pur sei, non vedi? Antistrofe III. AJACE. Deh Giove, padre de' maggiori miei,(38) Dato mi sia quel mio Avversario impostore, e degli Achei Ambo i gran regi uccidere, Indi morire anch'io! TECMES. Se ciò preghi per te, prega ch'io teco Muoja. Te morto, a che più val ch'io viva? Strofe IV. AJACE. Ahi ahi! Oh bujo, oh tenebre Che di fulgida luce a me splendete, Me abitator dell'Erebo Laggiù fra voi prendete! Di numi io più, nè d'uomini Favor non merto conseguir: di Giove Me la figlia tremenda Persegue a morte. Or dove Fuggir poss'io, dove sostar, se tolto Emmi ogni onore. e fra una stolta, orrenda Strage qui stommi avvolto, E su me correrà tutto con l'armi Il campo a trucidarmi? TECMES. Oh me lassa, tal uom tali dir cose, Che dette inanzi non avría giammai! Antistrofe IV. AJACE. Oh marini antri, oh pascoli, Oh del mar contro al lido onde sonanti, Già tempo è assai che ad Ilio Me riteneste inanti; Or non più, mentre l'anima (Il sappian tutti) in queste membra vive. Oh degli Argivi amico Scamandro, alle tue rive Più tal uom non vedrai, di cui veduto Troja non ha (gran cosa in vero io dico) Pari guerrier venuto Da suol di Grecia. E giacio or qui da tanto Sprezzo e vergogna affranto! CORO. Nè so come impedir, nè come io lasci Aver libero sfogo i lagni tuoi, Te caduto veggendo in sì rea sorte. AJACE. Ahi! chi pensato avrebbe che il mio nome Tanto a' miei casi convenir dovesse? Ahi ahi sclamare(39) e replicar ben posso In sì orribili mali. Il padre mio, Pur guerreggiando in questa terra Idea,(40) Fe' ritorno a sue case, i premii primi Riportando del campo, e gloria somma; Ed io, suo figlio, a questo suol di Troja Venuto anch'io, non con minor possanza, Non minori di mano opre compiendo, Io dagli Argivi in nullo onor tenuto Così mi perdo! E sì certo esser parmi Che, se Achille egli stesso l'armi sue Premio ad alcuno aggiudicate avesse, Altri che me non le ottenea persona; Ed or gli Atridi a un ciurmador le diero, Sprezzando me. Se questi occhi, se questo Mio sconvolto cerébro forvïati Non vi fosser nell'opra, altra costoro Non più per altri porterían sentenza; Ma la tremenda inoppugnabil figlia Di Giove, mentre io su coloro il braccio Già già stendea, m'illuse, mi comprese Di sì stolto furor, che in questi bruti, Di quelli in vece, insanguinai le inani. Quei di me intanto ridono, scampati Mal mio grado; ma che? Se s'inframette Un qualche dio, scampa anche il vil dal prode. Or che far deggio? In ira apertamente Sono agli dei; m'odia de' Greci il campo; Me Troja tutta e questo suolo aborre. Forse l'armata abbandonando, e soli Qua lasciati gli Atridi, alle mie case Per l'alto Egeo rivarcherò? Ma come, Con qual fronte mostrarmi al padre mio, A Telamone? E sosterrà vedermi Tornar nudo d'onor, privo di quelle Spoglie illustri, onde adorno e glorïoso Ei ritornava? - È insopportabil cosa. O nel vallo de' Troi forse irrompendo Sol contra tutti un qualche fatto egregio Farò d'ardire, e cadrò morto alfine? Troppo di ciò farei giöir gli Atridi. No, no. - Ma pure è da tentar qualch'opra, Tal che al vecchio mio padre m'appresenti Non degenere figlio. Ad uom che a' mali Più sottrarsi non può, turpe è il desío Di viver lungo. E qual diletto ha un giorno Aggiunto a giorno a differir la morte? Pregio alcuno io non fo di chi s'accalda Sol di vuote speranze. Ad uom bennato O un viver bello o un bel morir conviene. Tutto dissi. CORO. Nè fia chi nieghi, Ajace, Esser questi tuoi veri e proprii sensi. Ma cálmati, e agli amici a guidar dona L'animo tuo, posta ogni cura in bando. TECMES. Mio sire Ajace, altro non v'ha per l'uomo Male maggior di servitude. Io nata Fui di libero padre e di ricchezze, S'altri v'ebbe tra' Frigi, un dì possente. Or serva io son, siccome piaque a' numi, E al braccio tuo principalmente; ed io, Poi che teco nel tuo letto m'accolsi, Te sol amo, e te curo. Or per lo nostro Famigliar Giove, e per quel letto istesso Che con me dividesti, io te ne prego! Non patir che ludibrio doloroso De' tuoi nimici ìo sia, preda lasciandomi A qualcuno di lor; chè se tu muori, Se m'abbandoni, in quello stesso giorno, Pensa ch'io dagli Argivi, e il figliuol tuo, Ambo a forza rapiti, ambo verremo Sotto giogo servile; e alcun pur anco Di que' nuovi signori amaramente Mi schernirà, dicendo: Ecco, mirate La consorte d'Ajace, di, quel tanto Forte e grande nel campo, da qual alto Splendido stato in che vil sorte or giace. Tali cose udrò dirmi; e me di duolo Crucerà il mio destino, e a te que' detti Di vergogna saranno, e a tutti i tuoi. Abbi rispetto al padre tuo che lasci Nella trista vecchiaja; abbi rispetto Alla madre che grave di molti anni, Gli dei prega e riprega che tu vivo Le torni a casa: abbi, o signor, pietade Del figliuol tuo che di te privo in sua Fanciulla età, mal si verrà crescendo Sotto tutori ah non amici! Oh quanto Rechi a lui danno, ed anco a me, se muori! A me non resta in chi volger lo sguardo, Altri che tu. La patria mia con l'armi Tu mi struggesti; altro destin la madre Giù spinse e il padre, ad abitar nell'Orco. Or qual patria in tua vece, e quale stato V'avrà per me? Tutta in te solo io vivo. Serba memoria anche di me. Dee l'uomo Ricordar se talor qualche diletto Ebbe, favor sempre favor produce. Chi di goduto ben la rimembranza Lascia sfuggir, non è gentil persona. CORO. Sire Ajace, io vorrei che tu, com'io, Pietà sentissi in cuore, e le parole Di costei loderesti. AJACE. Ella assai lode Avrà da me, sol che di far non nieghi Quant'io le impongo. TECMES. Oh amato Ajace, io tutto Farò. AJACE. Qua il figlio adducimi, ch'io 'l vegga. TECMES. Di qua per tema io 'l sottraea. AJACE. Per tema Di cotesta sventura, o ch'altro intendi? TECMES. Non forse in te scontrandosi, la morte Il misero trovasse. AJACE. Ed era il caso Convenïente al mio tristo furore. TECMES. Quindi fui cauta in preservarlo. AJACE. Io lodo La tua provvida cura. TECMES. E che far dunque Degg'io per te? AJACE. Fa' che a me inanzi il figlio Vegga, e a lui parli. TECMES. Egli è qua presso a fidi Sergenti in guardia. AJACE. Onde a venir che tarda? TECMES. Figlio, il padre ti chiama. - O tu, custode Che lo reggi per mano, or qua ne 'l mena. AJACE. Vien egli, o parli a chi non ode? TECMES. Ei viene; Già l'adduce il famiglio a te dappresso. (viene un servo col picciolo Eurisace) AJACE. Qua il guida, qua. Non prenderà timore In veder questa strage ancor fumante, S'egli è vero mio figlio; anzi per tempo Ne' fieri studii esercitarlo è d'uopo Del genitore, e di natura a lui Farlo conforme. - O figlio mio, felice Sii più del padre; a lui simíl nel resto; E trist'uom non sarai. Te avventurato Dire or poss'io, chè di sì gravi mali Nulla ancor senti; e il sentir nulla è vita La più dolce di tutte, in fin che poi Abbi a giöire, abbi a dolerti appresso. Giunto a quegli anni, in fra' nimici è d'uopo Qual sei mostrarti, e di qual padre: intanto Pasci pur di söavi aurette lievi L'anima giovinetta, e sii delizia Di questa madre tua. Niun degli Achei Ti farà, ne son certo, onta nè danno, Benchè privo di me: tale un attento Custode, e forte educator ti lascio: Teucro. - A far caccia d'inimici or lunge Ei s'aggira di qua; ma presto a voi Chieggo favor, marine genti, e d'arme Compagni miei: fate palese a Teucro Il mio voler, che alle paterne case Questo mio figlio, e a Telamon l'adduca, E alla madre Eribéa, fido sostegno Di lor vecchiezza ognor, fin che alle case Scendano poi del sotterraneo nume. E l'arme mie, nè d'agonal certame Sieno premio agli Achei, nè arbitrio n'abbia Quel tristo mio persecutor. Tu, figlio, Prendi, Eurísace, tu, nelle addoppiate Guigge il braccio inserendo, il mio di sette Compatti cuoi grande, infrangibil scudo; E sien l'altr'arme in un con me sepolte. Donna, or tieni con te questo fanciullo. Serra le porte, e non far pianti e gemiti Presso alle tende. È piagnolosa cosa Per natura la donna. Orsù t'affretta. Medico saggio a susurrare incanti Non sta su l'egro, ov'è mestier del ferro. CORO. Temo in udir sì risoluti sensi. Quest'asprezza di detti a me non piace. TECMES. O mio signor, che far disegni in mente? AJACE. Non dimandar, non ricercarne. È bello Il temprarsi a modestia. TECMES. Ah ch'io pavento! Deh non lasciarne in abbandon: te n' prego Per questo figlio e per gli dei! AJACE. Già troppo Tu m'attedii. Non sai ch'io più non debbo Nulla agli dei? TECMES. Non dir parole infauste! AJACE. E tu parla a chi t'oda. TECMES. Udirmi dunque Non vorrai tu? AJACE. Troppo garristi ormai. TECMES. Sire, io tremo... AJACE. - Là dentro, olà, col figlio Adducetela tosto. TECMES. Ah per gli dei Ammollisci il cuor tuo! AJACE. Stolta mi sembri, Se mia natura oggi educar tu pensi. (entra nella tenda con Tecmessa e col figlio) CORO. Strofe I. Inclita Salamina, Tu beata e fra tutte isole illustre Siedi nella marina; Ma nell'Idéa palustre Erbosa spiaggia a stanza Gran tempo è già che i dì logrando io vivo, D'ogni onoranza privo; E sol trista speranza Ho di scendere alfin nelle aborrite Case dall'atro Dite. Antistrofe I. Ed anco, ohimè! qui giace Di funesta insanabile manía Tutto comprese Ajace. Quel che di Marte pria Grande campion qua venne, Or (gran duolo agli amici) è fatto insano; Chè dell'invitta mano L'alto valor solenne Cadde, ahi! cadde sprezzato appo gl'infidi, Disconsigliati Atridi. Strofe II. Certo, la madre antica, Bianca il crine, e per molti anni di vita D'ogni vigore attrita, Quando udrà quale insania or sì l'implíca, Non di temprato duolo Metterà lai la misera, siccome Gemebondo usignolo, Ma grida acute, e battere Vedrassi il petto, e lacerar le chiome. Antistrofe II. Meglio è nel bujo Averno Giacer, che fuor del senno ir delirante Uom per virtù prestante Tra i forti Achivi, e per onor paterno. Misero padre, oh quale Del figlio tuo grave sventura udrai! Grave così, che tale Della prosapia Eácide Niun altro colse in altra età giammai. AJACE, TECMESSA e CORO. AJACE. Tutto rimuta in sua vicenda il tempo Cose occulte appalesa, e le palesi Torna a celar; nè disperar di nulla Si debbe: anco il tremendo giuramento, Anco il più fermo e saldo cor si frange. L'animo mio che ad inflessibil tempra, Come iil ferro in fredd'aqua, era indurato, Molle è fatto al pregar di questa donna; Ed ho pietà di lasciare a' nimici Lei senza sposo, e senza padre il figlio. Or su queste maremme andar vo' in cerca D'alcun lavacro, ove purgar mi possa Ogni sozzura, indi da me la grave Ira cessar di Pallade. Venuto Ove l'arena umano piè non stampi, Là questo brando mio, questa d'ogni arme Arme a me più odïosa, entro la terra Profonderò, chè più no 'l vegga alcuno. La Notte e l'Orco il custodiscan quivi. Da quel dì che in mia man da quell'acerbo Nimicissimo Ettorre in dono il presi,(41) Nulla più dagli Argivi ebbi di bene, Nè d'onor più. Vera sentenza è quella: Doni non son dell'inimico i doni. Quindi ceder noi pure apprenderemo Ai numi sempre, e venerar gli Atridi. Imperanti son essi; al lor commando Vuolsi obedire. E come no, se tutte Pur le più forti e più potenti cose Cedon alle più degne? I nevicosi Verni dan loco all'ubertosa estate: Si ritrae l'atra notte al dì che tratto Da candidi corsieri a splender viene: Lascia il soffio de' venti al mar fremente Tornar la calma; ed il possente sonno A chi i sensi legò poi li discioglie. E noi perchè d'esser prudenti e saggi Imparar non vorremo? Ormai comprendo Che il nimico odïar sol si dee quanto Uom ch'indi amar ne possa; e vo' l'amico Di mie cure giovar qual se costante Amico mio non debba durar sempre; Chè a' più mal fido è d'amistade il porto. Ma tutto a bene andrà. Donna, tu dentro Torna, e prega gli dei devotamente Che, quanto io bramo, alfin si compia. - E voi Favore egual rendetemi, o compagni; E dite a Teucro, se verrà, che assuma Di noi cura, e di voi. Là intanto io vado, Ove per me si dee. Ciò che v'impongo, Oprate voi. Forse che in breve udrete Me d'ogni mal ch'or mi travaglia, in salvo. (parte) CORO. Strofe. Fremo di gioia,(42) e in petto il cuor mi sento Balzar contento. O Pane, o Pan marívago, Che guidator pur sei De' balli degli dei, Vien' dal petroso vertice Del nevato Cillene, or vien' la lieta Meco a danzar Nisíaca Danza, e di Creta. Danzar vogl'io. D'insù l'Icario flutto Anco a noi manifesto or qua venire Degnisi Apollo, e tutto Suo favor ne conceda il Delio sire! Antistrofe. Marte l'orrore, onde i nostri occhi avvolse, Ecco, disciolse.(43) Or fausta, o Giove, or candida Luce per noi raggiorna, E alle navi ne torna, Però che Ajace, immemore De' proprii mali, i riti sacri ancora Compie, e gli dei con fervido Pio zelo onora. Tutto il tempo consuma, e nullo io dico Non possibile evento or quando Ajace Vêr gli Atridi il nimico Furor compose, e la gran lite, in pace. Un NUNZIO e CORO. NUNZIO. Amici, a voi questa novella io prima Arrecar vo': Teucro poc'anzi è giunto Da' Misii monti. Appena il piè nel campo Ei ponea, dagli Achei d'onte e di spregi Fu carco a un tempo. Il suo venir da lungi Scòrsero, e tosto ad accerchiarlo, e tutti Di qua, di là d'oltraggi strazïarlo, Chiamandolo fratel del forsennato Che far macello degli Achei volea; E minacciâr che senza scampo ei stesso Dovrà, pesto da sassi, andarne a morte. E giunti a tale erano già, che i brandi Uscian delle guäíne; ma racqueto Dal süasivo ragionar de' vecchi Fu quel furor che scorso era tant'oltre. Dite: Ajace or dov'è? chè dar gli possa Di ciò contezza. A chi di genti è capo, Ogni cosa si dee far manifesta. CORO. Entro non è. Dianzi n'uscía, volgendo Nuovi pensier nella mutata mente. NUNZIO. Ah! chi a lui mi mandò troppo fu tardo A qua mandarmi, o troppo tardo io venni. CORO. Qual può questa tardanza aver difetto? NUNZIO. Teucro ad esso ingiungea che dalla tenda Fuor non uscisse anzi che giunto ei fosse. CORO. Con ottimo consiglio ito è lo sdegno A placar degli dei. NUNZIO. Stolte parole, Se Calcante indovino è pur del vero! CORO. Che di ciò presagir seppe il profeta? NUNZIO. Tutto dirò quant'io presente intesi. Nel consesso de' re solo ei si trasse Dagli Atridi in disparte, e la sua destra Nella destra di Teucro amicamente Ponendo, disse ed inculcò che tutto Questo presente dì con tutti modi Chiuso contenga entro la tenda Aiace, Nè fuor lasci che n'esca, se vederlo Ancor vivo pur vuol; chè in tutto ancora Questo sol giorno della dea Minerva L'ira lo incalza. E quelle vane (aggiunse) Altere moli che persona han d'uomo, Non d'uom saggezza, per divin volere Vanno in gravi sventure a cader poi. E già quando a partir s'accinse Ajace Dalle case paterne, apparve insano Esser di mente. Il saggio padre a lui Dicea: Va', figlio, a far battaglie, e vinci. Ma vinci sempre col favor de' numi. Ed ei superbo e sconsigliatamente: Padre, co' numi anco il dappoco e il vile Fa di vittoria acquisto; io pur senz'essi Gloria ottener di vincitor m'affido. Così allor millantava; e quando poi A forte oprar contra i nimici il braccio Pallade l'incitò, questa ei le fece Rea nefanda risposta: Al fianco, o diva, Statti pur tu degli altri Achei; le squadre Ove siam noi non romperà la guerra. Con tal parlar, col sentimento suo Trascendente l'umano, ei l'acerba ira S'acquistò della dea; ma se può illeso Oggi scampar, forse che a lui potremo, Concedenti gli dei, recar salute. Così l'augure disse: e me spedía Sollecita qua Teucro a riferirvi Questo commando. Ah se a ciò vengo indarno, Se Calcante ben vede, ei più non vive! CORO. - Esci, o Tecmessa, o sventurata donna: Vieni a udir ciò che a noi questi racconta. Che qualcun non gioïsca, è gran periglio. TECMESSA col figliuolo, il NUNZIO e CORO. TECMES. Perchè fuor novamente uscir mi fate, Mentre, misera! appena avea riposo Da' miei tanti travagli! CORO. Odi qual cosa Vien quest'uom per Ajace ad annunziarne, Ond'io m'attristo. TECMES. Ohimè! che fia? Perduti Siam forse noi? NUNZIO. Di te non so; d'Ajace, Se di sua stanza uscì, non m'assecuro. TECMES. Uscito egli è, sì che il tuo dir m'accora. NUNZIO. Teucro impon contenerlo entro la tenda, Nè si lasci star solo. TECMES. E dov'è Teucro? Perchè ciò ne commanda? NUNZIO. Or or qui giunge. Ei d'Ajace l'uscir teme funesto. TECMES. Ohimè lassa! e da chi, da chi ciò seppe? NUNZIO. Dal Testóreo profeta(44) udì che a lui Dee portar questo dì salvezza o morte. TECMES. Ohimè!... Deh voi, deh soccorrete, amici, A sì grand'uopo! Altri qui Teucro affretti: Altri a' monti vêr l'Orto, altri all'Occaso, Ite cercando ove in mal punto Ajace Or s'aggiri. - Ben io, ben io m'accorgo Che m'ingannò; che dal suo primo affetto Rejetta io sono. - Ah che far deggio, o figlio? Non è da starsi. Andar vo' anch'io per quanto Ho di forza. Su via, moviam, corriamo! Non fa luogo indugiar, se vogliam salvo Uom che a morir bramosamente intende. CORO. Presto son io, nè solo al dir; veloce L'opra de' piè verrà co' detti a paro. (parte con Tecmessa) Spiaggia solitaria con bosco. AJACE. Ecco, il brando omicida è posto in atto Per ben ferire; e proprio a ciò (se tempo Di ragionarne or fosse) è questo brando, Dono d'Ettore a me, del più di tutti Aborrito nimico. Nell'ostile Trojana terra infisso sta: la punta N'aguzzai dianzi alla rodente cote; E sì fermo il piantai, ch'esser mi possa Faustissimo strumento a presta morte. Bene sta l'apparecchio. - Or primamente Tu, com'è dritto, a me sovvieni, o Giove. Gran favor non ti chieggo: alcun sol manda Che di me annunzii il tristo caso a Teucro, Sì che primo egli accorra a rilevarmi Dalla spada crüenta anzi che visto Da' miei nimici, esca ad augelli e cani Gittato io sia. Di ciò ti prego, o Giove; E degli estinti il sotterraneo duce Mercurio invoco ad assopirmi in placido Sonno appena m'avrò, su questo ferro Slanciatomi d'un tratto, aperto il fianco. E le vergini sempre e de' mortali Sempre ogni opra spïanti, il piè veloci, Tremende Erinni io chiamo a mirar come Io per gli Atridi or muojo; e me veggendo Qui cader di mia mano, atrocemente Perseguano que' tristi, e sì per mano De' lor più cari abbiano morte anch'essi! Ite veloci, o punitrici Erinni, Ite in campo a gustar senza riserbo Dell'esercito tutto! - E tu che il cielo Carreggi, o Sole, allor che giunto sei Sovra la patria mia, stringi le aurate Briglie, e le mie sventure e il morir mio Al vecchio padre annunzia, all'infelice Madre.... Oh misera madre! ella in udendo Il tristo caso, un gran gemito in tutta Spargerà la città. - Ma di lamenti Tempo questo non è; tempo è che l'opra Tostamente si compia. - Oh Morte, Morte, Qua vieni a me.... Se ben, che dico? io stesso Or verrò teco a conversar sotterra. O tu, di questo dì splendida luce, E tu, Sole aurigante, io vi saluto Or per l'ultima volta. - Oh sacra terra Della natal mia Salamina! oh mio Paterno focolare! Oh illustre Atene, E popol suo col mio congiunto! - E voi, O di Troja fontane e fiumi e campi Che mi nudriste, addio. Queste parole L'ultime sono a voi d'Ajace: il resto Vo con gli estinti a ragionar nell'Orco. (entra nel bosco, e si uccide. Sopragiunge il Coro diviso in due Semicori, l'uno da una parte, poi l'altro dall'altra) CORO. SEMIC. I Il molto faticar molto affatica. Ove ove mai, Qual parte io non cercai? Nè loco è alcun che dove ei sia mi dica.... Ma ecco, sento un calpestío. SEMIC. II Siam noi, Siamo i compagni tuoi. SEMIC. I Or bene? SEMIC. II Ho tutto da ponente il lato Delle navi esplorato. SEMIC. I E n'hai?... SEMIC. II Travaglio molto, E nulla più raccolto. SEMIC. I La via che volge all'orïente io tenni, Nè quivi a lui m'avvenni. Strofe. CORO. Or chi fia mai, chi fia O degl'insonni pescatori intenti A far lor prede, o degli Olimpii numi, O qual sarà de' fiumi Al Bosforo correnti, Che di quel fiero a me novella or dia? Duro m'è in ver di faticosa e lunga Via fra gli errori avvolgermi, Senza che alfine a rincontrarlo io giunga. TECMES. (dentro) Ahi ahi! CORO. Qual grido esce dal bosco? TECMES. (dentro) Ahi misera! CORO. Veggo d'Aiace l'infelice sposa; Tecmessa ell'è, che in questi lai prorompe. TECMESSA e CORO. TECMES. Ita, perduta, estinta io sono, amici! CORO. Che avvenne? TECMES. Ajace, Ajace mio qua morto Sta su la spada infissa or or nel petto. CORO. Oh tristo caso! Oh del ritorno a noi Tolte speranze! Ah, sire, Morti hai col tuo morire Questi compagni tuoi! Oh noi miseri! Oh tua pur dolorosa Sorte, o misera sposa! TECMES. Ahi ahi sclamar ben ne si addice in tanta Sventura nostra! CORO. E da qual man fu morto? TECMES. Da sè s'uccise. Il brando in terra fitto, Su cui gittossi, il suicidio accusa. CORO. Oh me deserto! o duolo! Incustodito e solo Dagli amici tu dunque insanguinato Hai di tue vene il suolo? E stolto io troppo, attonito, Non ho su te vegliato! Dove quel fiero giace, D'infausto nome, Ajace?(45) TECMES. Non è dato vederlo. Io tutto il voglio Con questo pallio ricoprir. Nessuno Pur degli amici mirar lo potrebbe Fuor soffiar per le nari e dall'aperta Propria ferita il nereggiante sangue. Lassa me, che farò? Chi degli amici Ti asporterà? Teucro dov'è? Deh come Opportuno or verrebbe a compor meco Questo estinto fratello entro la tomba! Oh Ajace, oh Ajace misero, qual fosti, E quale or sei! Tale or tu sei da trarre Anco dagli occhi de' nimici il pianto. Antistrofe. CORO. Volea, lasso! volea Il duro adunque animo tuo l'atroce Così finir de' mali tuoi dolore: Sì con mortal rancore Notte e giorno il feroce Tuo cuor contra gli Atridi alto gemea. E fu primo di guai tristo argomento Quel di merto per l'inclite Armi d'Achille fra gli eroi cimento. TECMES. Ohimè, misera me! CORO. Ti fiede il cuore Aspro duolo, ben veggo. TECMES. Ohimè! CORO. Pur troppo Ragione, o donna, hai d'iterar lamenti, Orba rimasa di cotanto amico. TECMES. Tu il mio danno non fai che imaginarlo; Io sentirlo altamente. CORO. Assai te 'l credo. TECMES. O me misera, oh figlio, a qual mai giogo Incontro andiam di servitude! Oh quali Sovrasteran duri signori a noi! CORO. Tu fai pianto e querele Di quel che degli Atridi or già presumi Governo aspro e crudele: Deh no 'l permetta il buon voler de' numi! TECMES. Senza il voler de' numi or non sarebbe Nè pur questo avvenuto. CORO. In ver composto Troppo han essi di mali un grave carco. TECMES. Opra quest'è di Pallade, tremenda Figlia di Giove, a pro d'Ulisse ordita. CORO. Certo, colui che tutto osar non teme, In sua fosc'alma or questi Furenti atti funesti Ingiurïoso irride, E, nell'udirli, insieme Riso ne fanno e l'uno e l'altro Atride. TECMES. E ridan pur, godano pur costoro De' guai che oppresso han questo eroe. Se vivo No 'l desiâr, rimpiangeranlo estinto Forse all'uopo dell'asta. In man gli stolti Hanno il lor bene, e non lo san, se pria Via gittato non l'hanno. Il morir suo Amaro è a me ben più che dolce a questi; Ma grato è a lui, poi che tal morte ottenne, Qual bramava ottenerla. Or di che dunque Rider posson coloro? Ei non per opra D'essi, no, non moría, ma degli dei. Prorompa Ulisse in vani oltraggi: Ajace Non hanno più. Ben egli a me, morendo, Lasciò gemiti e angosce.... TEUCRO. (dentro) Ahi, ahi! CORO. - T'accheta. Parmi voce lugùbre udir di Teucro Che il duol già senta dell'orribil caso. (Tecmessa parte col figliuolo) TEUCRO e CORO. TEUCRO. Oh amato Ajace! oh fratel mio, tu dunque Fatto hai ciò che la fama intorno grida? CORO. Non vive ei più; sappilo, o Teucro. TEUCRO. Oh sorte, Mia trista sorte! CORO. In così ria vicenda.... TEUCRO. Misero me! CORO. Ben ti si addice il pianto. TEUCRO. Oh dolor fiero! CORO. Ah sì, purtroppo, o Teucro! TEUCRO. Lasso! e il figliuolo suo dove, in qual parte Della Tröade sta? CORO. Solo, qua presso Alle tende. TEUCRO. (ad un sergente) Su via, tosto a me dunque Adducilo; chè forse alcun nimico, Qual leoncin di vedovata madre, No 'l rapisca. Va', corri. Insulto e scorno Soglion far tutti ad uom che giace estinto. CORO. Ei di questo suo figlio, ei stesso, o Teucro, Vivente ancor, t'accomandò la cura Che spontaneo già prendi. TEUCRO. - Oh più di tutti Spettacol di dolore agli occhi miei! Oh per l'animo mio più assai di tutti Doloroso cammin questo ch'or feci, O carissimo Ajace, a rintracciarti, Tosto che udii nuova sì rea! chè celere Di te, qual d'un iddio, corse la fama Fra gli Achei tutti a divulgar tua morte. Ciò udendo io sospirai, misero, ed ora Al vederlo mi muojo. Orsù scopritelo; Chè tutto io miri il tristo caso. - Oh orribile Vista! oh fiero ardimento! Quante pene Tu nell'animo mio disseminasti Col tuo morire! Or dove, a chi poss'io Volgere il passo, io che d'äita alcuna Non ti sovvenni nelle tue sventure! Senza te ritornando, oh sì benigno Accoglierammi, e con sereno aspetto Telamon, di noi padre; ei che nè manco Nella prospera sorte su le labra Un sorriso non ha! Che vorrà mai Dissimular? che non dirà d'acerbo Di quel bastardo di captiva donna, Che per vile e infingarda alma tradiva Te, amato Ajace, o per malvagio intento D'usurparsi, te morto, il tuo retaggio E il poter tuo? Così dirà l'iroso, Aspro già per vecchiezza, e prono sempre Per rissar per un nulla: alfin cacciato Dalla patria n'andrò, non liber'uomo Apparendo, ma servo. In casa questo; Assai nimici e favor poco in campo; Dal morir tuo traggo tal frutto. Ahi lasso! Or che fo? Come, o misero, strapparti Fuor da questo potrò ferro omicida, Su cui l'alma spirasti? Oh! presentito Hai tu, ch'Ettore un dì morto t'avrebbe, Morto ei stesso già pria? - Deh ripensate Di questi due la sorte! Ettore avvinto D'Achille al carro con quel cinto istesso Ch'ebbe in dono d'Ajace, strascinato Intorno fu sin ch'esalò lo spirto(46) Questi su 'l brando che donógli Ettorre, Slanciandosi, si uccide. Or questo brando No 'l temprava un'Erinne? e non dell'Orco, Artefice funesto, opra è quel cinto? Io di questa e di tutte altre sventure Fabri a' mortali ognor dirò gli dei; E a cui questo pensier non attalenta, Altro n'abbia a suo grado; io così penso. CORO. Cessa gl'indugi, e tosto avvisa il come Comporrai nella tomba il morto corpo, E che dire or dovrai; poi ch'uom nimico Veggo, che forse riderà protervo De' nostri mali. TEUCRO. E chi è costui che vedi? CORO. Menelao, quel per cui venimmo a Troja. TEUCRO. Veggo; già presso è sì che ben si scerne. MENELAO, TEUCRO e CORO. MENELAO. Olà! t'impongo a quell'estinto corpo Non dar sepolcro; ove si sta, si lasci. TEUCRO. Perchè getti tu all'äer queste parole? MENELAO. Ciò piace a me, piace al signor del campo. TEUCRO. Nè di ciò la cagion dirne vorrai? MENELAO. Costui sperammo e federato e amico Degli Achei da sue case addurre a Troja; E trovato l'abbiam nimico a noi Più ancor de' Frigi. Ei machinando morte All'esercito tutto, in questa notte, Per farne strage, s'aggirò nel campo, E se alcun degli dei l'empio attentato Non rendea vano, or tutti noi percossi Giaceremmo di morte obbrobrïosa, Ed ei vivrebbe. Un qualche dio detorse La costui rabbia, e sovra greggi e mandre Piombar la fece; onde or non fia chi tanto Possa, che in tomba il suo corpo componga; Su l'arene gittato, ei sarà pasto Agli augelli del lido. E tu per lui Vampo superbo non menar: se vivo Moderar no 'l potemmo, in nostra forza Spento il terremo, ancor che tu no 'l vogli. Mai non diè ascolto a' detti miei. Pur tristo Egli è l'uom che, privato, a chi sta in alto Piegar non degna. Ove non v'ha timore, Sono indarno le leggi, e ben non puossi Esercito guidar, che di temenza Nullo, nè di rispetto abbia contegno. L'uom, benchè di persona e grande e forte, Pensar dee che si cade anco talora Per lieve inciampo; e chi pudor, chi tema Ha di cui debbe, in suo cammin va salvo. Ove far tutto e soprafar si puote Ciò che si vuole, ivi lo stato corre Di gran corso a rüina. Un opportuno Saggio timor sempre in me sia, nè stima Da noi si faccia, che a talento oprando, Il piacer col dolor poi non si paghi: Vicenda usata. Ardea da pria costui Di fiero orgoglio; or io grandeggio, e questo Corpo ti vieto sepellir, se in tomba Cader non vuoi, nel darla a lui, tu stesso. CORO. Menelao, poi che detto hai sagge cose, Or poi non farti insultator de' morti. TEUCRO. Non più stupor fia che mi prenda, amici, Ch'uom d'ignobil natale errando parli, Quando color che più d'illustri han pregio, Da ragion, favellando, erran poi tanto. Via, ricomincia. Aver tu dici a Troja Degli Achei federato addotto Ajace? Non ei dunque in sue navi ad Ilio venne, Signor proprio di sè? Quando mai duce Di lui tu fosti? E quando e d'onde impero Su quelle genti hai tu, ch'ei di sua terra Qua conducea? Di Sparta re, non sire Di noi venisti; e non a te su lui Di commando ragion mai si pertenne Più che a lui sovra te. Qua veleggiasti Commandante sott'altri, e non supremo Imperador, sì che soggetto Ajace A te pur fosse. Or dunque va': commanda A cui commandi, e de' tuoi detti alteri Tremar li fa'; ben che tu il vieti, e l'altro Gran duce ancora, io questo corpo in tomba, Com'è dritto, porrò, non paventando Le tue minacce. Ei per la donna tua Non campeggiò qual facendier di guerre, Ma per quel giuramento, onde sua fede Legata avea; non già per te; chè nulla Esso i nulli estimava. Or ben, qui torna Pur con molti seguaci e con lo stesso Sommo imperante. Io de' scalpori tuoi, Mentre sei quel che sei, punto non curo. CORO. Tal favella io non amo in sorte avversa. Giustissimi pur anco, i duri detti Mordono sempre. MENELAO. Il sagittier non mostra Umil senso di sè.(47) TEUCRO. Poi ch'arte vile Non è la mia. MENELAO. Qual meneresti orgoglio, Se tu scudo portassi! TEUCRO. Anco se inerme, Contra te cinto di tutt'arme io basto. MENELAO. Che superbo ardimento ha la tua lingua! TEUCRO. In causa giusta alto sentir s'addice. MENELAO. Giusto sarà ch'abbia da me favore L'uccisor mio? TEUCRO. L'uccisor tuo? Gran cosa Dici in ver, s'ei t'uccise, e ancor tu vivi. MENELAO. Morto ei mi volle; un dio m'ha salvo. TEUCRO. Or dunque Non far, salvo da' numi, a' numi oltraggio. MENELAO. Ch'io mai gli dei sprezzar potessi? TEUCRO. Il fai, Se non concedi a sepellir gli estinti. MENELAO. Non gl'inimici miei: ciò non conviene. TEUCRO. Forse che a te fu mai nimico Ajace? MENELAO. Odio ei rendea per odio, e ben t'è noto. TEUCRO. Poi che i suffragi a lui furasti. MENELAO. Avvenne Che per, fatto de' giudici, non mio, Perdente ei fu. TEUCRO. Tu se' pur destro assai A tessere d'ascoso inique frodi. MENELAO. Un siffatto parlar certo a qualcuno Dolor darà. TEUCRO. Non più di quel che ad altri Daremo noi. MENELAO. Ciò sol ti dico in somma Tomba quest'uomo aver non dee. TEUCRO. Ciò solo N'udrai tu di rincontro: egli avrà tomba. MENELAO. Io già vidi un di lingua ardito e bravo, Che il nochiero compulse a sciorre il legno Sotto torbido ciel; ma in lui più voce Non trovavi di poi quando fu côlto Dalla tempesta, e dentro al pallio ascoso, Sotto i piè si mettea d'ognun che voglia Di conculcarlo avesse. Or similmente Da poca nube scoppiando un gran turbine, Te insieme, e di tua bocca invereconda Ammorzerà le fragorose grida. TEUCRO. Ed io vidi uno stolto, un mentecatto, Altri insultar nella sventura; ed uomo Che d'aspetto e di sensi era a me pari, Gli disse: O tu, non mal trattar gli estinti; Sappi, se il fai, ti costerà dolore. Così quel tristo egli ammonía. Quel tristo Io 'l veggo ancora, e non è desso, parmi, Altri che tu. - Forse che oscuro io parlo? MENELAO. Io di qua mi ritraggo. È turpe cosa A risaper che di parole attenda Contrasto a far chi vincer può di forze. TEUCRO. Va'. Più turpe è per me di stolid'uomo Starmi ad udir le petulanti ciance. (Menelao parte) CORO. Gran lite al certo or seguirà. - Su via, Teucro, il più ratto che per te si possa, Va' una cava ampia fossa A procacciar, che sia A lui sepolcro, e in avvenir perenne Monumento alle genti ognor solenne. TECMESSA col figliuolo, TEUCRO e CORO. TEUCRO. Ecco venirne a un tempo stesso il figlio E la moglie di lui presti a dar mano Meco all'opra funèbre. - Or qua, fanciullo, Vieni, e supplice tocca il padre tuo, Lui che te generò: siedigli a canto, In man tenendo un supplice tributo De' miei capelli, e di cotesta donna, E di quei di te pure. E se taluno Dell'esercito acheo strapparti a forza Vorrà da questo estinto, infamemente Fuor della patria sua giacia l'infame Insepolto, e sia tutta la sua stirpe Rasa dalla radice, com'io rado Questo mio crine. - Eccolo, o figlio, il serba; Nè ti rimuova alcun dal morto corpo: Tienti fermo sovr'esso. - E voi non siate Donne, d'uomini in vece, e gli assistete Mentre io son lungi ad apprestar la tomba Al fratel mio, s'anco ciascun me 'l vieta. TECMESSA col figliuolo presso al corpo di Ajace e CORO su 'l dinanzi della scena. Strofe I. CORO. Quando sarà, qual l'ultimo Di sì lungo sarà novero d'anni, Che incessante m'adducono Di marzïali affanni Vicenda ognor molesta Appo le mura Ilïache, Onta agli Elleni infesta? Antistrofe I. Oh pria nel profondo äere Dileguato si fosse, o dentro a Dite, Chi l'uso a' Greci apprendere Fe' dell'armi aborrite! Ahi fonte rea di mali! Colui, colui fu esizio De' miseri mortali. Strofe II. Non più per lui di floride Ghirlande io m'incorono, Nè cupi nappi, ahi lasso me! vuotar, Nè delle dolci tibie Goder m'è dato il suono, Nè gioconda gustar Notturna gioja. Da' delitti amorosi, ohimè! qua in bando, Fuor delle amiche menti, Sempre sto il crin bagnando Alle rugiade algenti, Infelici memorie a me di Troja. Antistrofe II. Da tenebrose insidie Già il bellicoso Ajace, E dall'arte difesa ognor mi fu; Or da nimico démone Poi che prosteso giace, Qual per me, qual v'è più Senso di bene? Deh là passando ove selvoso sorge, E dentro il mar dal lido Il Sunio alto si porge, Deh ch'io con fausto grido Salutar possa la divina Atene!(48) TEUCRO, CORO, TECMESSA col figliuolo e poi AGAMENNONE. TEUCRO. Ratto io ritorno, Agamennón qua visto Spinger celeri i passi; e certo a sciorre Dalle labra verrà sinistri accenti. AGAMEN. Tu contra noi, tu impunemente osasti Sì atroci detti schiamazzar? tu, dico, Nato di schiava?(49) Oh se d'ingenua madre Fossi tu, quali altissime parole Tonar faresti, e come eretto andarne Ti vedremmo per via, quand'uom da nulla Per tal ch'è nulla, ti dibatti, e giuri Dell'oste noi, nè del naviglio acheo, Nè di te duci esser venuti a Troja. Signor di sè, come tu vanti, Ajace Qua navigava. E ciò da servi udire Non è grand'onta? E di chi poi proclami Sì gran cose? Ove quegli o venne o stette, Che non pur io? Non han gli Argivi, altr'uomo Non han che questo? Un mal consiglio il nostro Fu in ver, di porre a guiderdon di merto L'armi d'Achille fra gli Achei se ingiusti Parer n'è forza in qual sia modo a Teucro; Nè vi piace, perdenti, alla sentenza Acquetarvi de' più, ma ognor, per ira Dell'avverso giudizio, o ne ferite D'aperti oltraggi o con insidie occulte. Mai di leggi, a tal modo, ordine alcuno Star non potrà, se trabalziam di seggio Chi a ragion vinse, e sospingiamo inanzi Quei che addietro restâr. Tanta licenza Vuolsi impedir Non prevalente è l'uomo Per gran persona e late spalle: i saggi Soli vincono in tutto Ha vasta mole Di membra il bove, e camminar diritto Lo fa picciola verga; e tal pur veggo Rimedio a te venir se a buon avviso Non t'addurrai; tu che per uom ch'è nulla Più ch'ombra ormai, sfrenar dal labro ardisci Villani oltraggi. Or non farai tu senno? Perchè, pensando il nascer tuo, qualch'altro Liber'uomo qui a noi non appresenti, Che tua ragion per te ne dica? Indarno A tue parole io porgerei l'orecchio La tua barbara lingua io non intendo. CORO. Deh saggia moderanza in mente fosse D'ambo voi due! Nulla ho di meglio a dirvi. TEUCRO. Oh come tosto per chi muor dileguasi Gratiitudin ne' vivi, e sconoscenza Sottentrar vi si vede! Ecco, or costui Più non serba di te memoria alcuna, Di te, Ajace, di te che incontro a morte Tante volte per lui l'anima hai posta! Ecco perduto, ecco gittato indarno Ogni tuo beneficio. - O tu, che tante Insensate parole or or dicevi, Non ti ricorda più quando voi tutti Vôlti in fuga e rinchiusi entro del vallo, Egli sol vi salvò, mentre la fiamma Già gli aplustri alle navi e i banchi ardea, E il fosso già sopravarcato, Ettorre Su' navigli balzava? Chi riparo Vi fe'? Non forse quest'uom cui tu dici Mai non venuto a marzïal cimento? Ciò non fe' veramente? E quando ei stette Sol contr'Ettore sol, non commandato, Ma sortendo le sorti, e con le altrui Non mescendo la sua composta ad arte Di molle limo che piombasse al fondo,(50) Ma tal che lieve dal crinito elmetto Fuor balzasse la prima? Ei pur fe' questo; E presente anch'io v'era, io servo, io figlio D'una barbara madre. Oh sciagurato! E con qual fronte osi di ciò tacciarmi? Ma che? Non sai che del tuo padre il padre Pelope fu, barbaro Frigio? e l'empio Tuo genitor, lo scellerato Atreo, Non sai che al fratel suo diè cena orrenda De' figliuoli di lui? Nato tu stesso Sei di donna cretense, cui sorpresa Con adultero drudo, il padre tuo Esca gittarla a' muti pesci impose.(51) Tal tu nascendo, il nascimento mio Rinfacci a me che Telamone ho padre, Telamon che dell'oste i più prestanti Premii ottenne pugnando, ed ebbe a sposa La madre mia, nata regina, e figlia Del re Läomedonte, eletto dono, Onde il gran figlio l'onorò d'Alcmena. E di due tanto illustri io nobil prole Sfregio far posso a' consanguinei miei, Cui tu, percossi da sì rea sventura, Dalla tomba respingi? E non vergogni Pur ciò dicendo? Or se quest'uom (ben sappi) Gitterete insepolto, in un con esso Ne gitterete anco noi tre. Morire, Contendendo per esso, onor solenne Mi fa ben più che non morir per quella Tua donna, o donna del fratello tuo. Però più bada a te che a me. Se offesa Tu recarmi ardirai, stato esser meco Anzi codardo bramerai, che ardito. ULISSE, TEUCRO, AGAMENNONE, TECMESSA col figliuolo e CORO. CORO. Sire Ulisse, opportuno or qui tu vieni, Se già non vieni a rinfocar la lite, A disciorla bensì. ULISSE. Che fia? Da lunge Udii gli Atridi alto gridar su questo Uom prode estinto. AGAMEN. E non udimmo noi Dirne costui turpissime parole?<
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