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VII PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE AL FEMMINILE

MARIA CUMANI QUASIMODO

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28 APRILE 2023

 

 



 

 

 

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Info sull'Opera
Autore:
Sofocle
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

FINE DI ANTIGONE.

di Sofocle

FINE DI ANTIGONE.
AJACE
PERSONAGGI

PALLADE.
ULISSE.
AJACE.
CORO DI SALAMINII.
TECMESSA.
TEUCRO.
MENELAO.
AGAMENNONE.
UN NUNZIO.

(EURISACE - UN AIO - UN BANDITORE, che non parlano).


Scene, spiaggia di mare presso Troja, con navi e tende de' Greci.
Poi altra spiaggia solitaria con bosco.
AJACE

PALLADE su machina in alto e ULISSE.

PALLADE.
Sempre te, o figlio di Läerte, io vidi
Ire in caccia appostando il dove e il come
Preda far d'inimici; ed or ti veggo
Ronzar da lungo invêr l'estremo corno
Dell'Argivo navile,(29) ove le tende
Son d'Ajace, e adocchiar le più recenti
Orme sue, per saper se dentro ei sia,
O se n'uscì. Ben qui ti porta il tuo,
Qual di cagna spartana, olfatto acuto.(30)
L'uom poc'anzi v'entrò, tutto grondante
Sudor la fronte, e sanguinante il braccio.
Più non t'è d'uopo sospinger lo sguardo
Quivi entro; di' perchè tal cura prendi,
E da chi ben sa il vero, il ver saprai.
ULISSE.
Oh di Pallade voce, a me de' numi
La più diletta diva, io riconosco,
Benchè lungi ne sii, la tua parola,
E la comprendo, e in me sonar la sento,
Siccome squillo di tirrena tromba.(31)
A te conto egli è già, che d'uom nimico
Le tracce io spio, del clipeato Ajace:(32)
Quello, non altri, ormando io vo; chè fatta
N'ha in questa notte un'incredibil cosa; -
Se n'è desso l'autor; poi che di certo
No 'l sappiam tuttavolta, e dubii siamo. -
Spontaneamente io mi sopposi al carco
Di ciò far chiaro. Sgominate, uccise
Tutte trovammo le predate greggie
Con pur essi i custodi. A lui la colpa
Ne dan tutti, e talun v'ha che m'accerta
Visto averlo, lui sol, correre a salti
Per la campagna col ferro grondante
Di fresco sangue. Onde i vestigi suoi
Sollecito ne cerco; e parte ho d'onde
Far concetto del ver, parte sospeso
Stommi, nè so che argomentarne. Ad uopo
Tu vieni, o dea. Già tutto, e inanzi e poi,
Alla tua guida io mi governo e reggo.
PALLADE.
M'è noto, e quindi a vigilarti or vengo
Nella tua caccia.
ULISSE.
O amica dea, ben presa
Ho io l'inchiesta?
PALLADE.
Opra di lui fu quella.
ULISSE.
Qual mai cagione all'insensato eccesso
La man gli spinse?
PALLADE.
Alto rancor per l'armi,
A lui tolte, d'Achille.
ULISSE.
E a che furente
Piombò sovra gli armenti?
PALLADE.
In voi credendo
Con ampia strage insanguinar le mani.
ULISSE.
Ciò degli Achei far divisava?
PALLADE.
E fatto,
S'io non era, l'avrebbe.
ULISSE.
In qual di mente
Venne audace delirio?
PALLADE.
All'äer bujo
Solo su voi correa di furto.
ULISSE.
E presso
N'era egli già?
PALLADE.
Già presso era alle stanze
De' due sommi imperanti.
ULISSE.
E come il braccio
Desïoso di strage indi ritenne?
PALLADE.
Io l'effetto impedii di quell'atroce
Imaginata gioja, agli occhi suoi
Parando inanzi ingannatrici larve,
E su le torme de' predati armenti
Il furor ne devolsi. Ond'egli in mezzo
Vi si gettando, e trucidando a cerco,
Ne fe' molto macello; ed ora entrambo
Tener gli Atridi, e ucciderli credea,
Ed or su l'uno or su l'altro avventarsi
De' capitani. In cotal rete io spinsi
Quel furibondo di delira febre;
E poichè dallo scempio faticoso
Posò, quanti ancor vivi eran giovenchi,
E del gregge i restanti avvinti insieme,
Come d'uomini preda, e non di bruti,
Li trasse dentro alla sua tenda, e quivi
Ne li vien flagellando. Or vo' mostrarti
Qual manía lo travaglia, a fin che poi
Tu il narri a tutto degli Achivi il campo.
Qui sta', nè dubitar che da quest'uomo
Danno ti venga: io svïerò sue luci
Sì da te, che vederti a lui sia tolto.
O tu, che in lacci a' prigionieri tuoi
Tieni strette le mani, esci; io ti chiamo:
Fuor di tua stanza or qui ne vieni, Ajace.
ULISSE.
Deh no! che fai? deh non chiamarlo, o diva!
PALLADE.
Taci; non aver tema.
ULISSE.
Oh per gli dei
Lascia ch'entro ei rimanga.
PALLADE.
E che paventi?
Non è desso quel ch'era?
ULISSE.
A me nimico,
Ed or vie più.
PALLADE.
Non dolce cosa è il riso
Che si fa de' nimici?
ULISSE.
A me ciò basta,
Ch'entro ei stia.
PALLADE.
Veder temi un forsennato?
ULISSE.
Ove in senno egli fosse, io di vederlo
Non temerei.
PALLADE.
Ma, ben che a lui sii presso,
Non ti vedrà.
ULISSE.
Com'esser può, se gli occhi
Ha pur veggenti?
PALLADE.
Offuscherogli il guardo.
ULISSE.
Tutto esser può ciò che un iddio far vuole.
PALLADE.
Costà dunque, ove sei, tacito resta.
ULISSE.
Resterò, - ben che altrove esser vorrei.
PALLADE.
- Te chiamo, Ajace, un'altra volta. Or donde
La protettrice tua curi sì poco?

AJACE, PALLADE e ULISSE.

AJACE.
Salve, o Pallade, o figlia alma di Giove!
Come vieni a buon punto! Io d'auree spoglie
Vo' per questa mia preda a te far dono.
PALLADE.
Bene sta; ma rispondi: hai tu la spada
Tinta e ritinta degli Achei nel sangue?
AJACE.
Non che no'l nieghi, io me ne vanto.
PALLADE.
Ed anco
Battagliasti col braccio ambo gli Atridi?
AJACE.
Tal che più sprezzo non faran d'Ajace.
PALLADE.
Morti dunque son essi, a quel che intendo.
AJACE.
Sì. L'arme mie mi tolgan essi ormai.
PALLADE.
E che fa, dimmi, di Läerte il figlio?
Quale in tue mani ebbe ventura? O forse
Ch'ei ti fuggì?
AJACE.
Di quella trista volpe
Mi chiedi?
PALLADE.
Sì; del tuo nimico Ulisse.
AJACE.
In lacci sta, gran gioja mia, là dentro.
Non vo' che muoja ancora.
PALLADE.
E che di lui
Farne vuoi pria? che più ne brami?
AJACE.
Avvinto
A una colonna entro mia tenda....
PALLADE.
Al misero
Qual castigo dar vuoi?
AJACE.
Vo' che le terga
Pria flagellato e insanguinato muoja.
PALLADE.
Deh non trattar di sì spietato modo
Quell'infelice!
AJACE.
Ogni altra cosa, o Pallade,
A piacer tuo; ma quel castiigo al certo
S'avrà colui.
PALLADE.
Se di ciò godi, or bene,
Usa del braccio a tuo talento, e tutto
Fa' pur ciò che disegni.
AJACE.
All'opra io corro.
Sempre così mi sii tu fausta, o dea! (parte)
PALLADE.
La possanza de' numi or vedi, Ulisse,
Quanta è? Qual uom che di migliore avviso
Trovato fosse, o più valente all'opre?
ULISSE.
Io nessun ne conobbi; ed or di lui,
Ben che avverso ei mi sia, sento pietade
Per cotanta sventura. E non più a lui,
Che a me stesso mirando, a ciò m'induco;
Però che noi, quanti viviam, non altro
Esser veggio che larve od ombra lieve.
PALLADE.
Poi che ciò vedi, una parola insana
Contro agli dei non pronunziar giammai,
Nè superbir se di potente mano
O di molta dovizia un altro avanzi.
Un giorno sol tutte le umane cose
Abbassa, ed anco le rialza. I numi
Amano i buoni, ed hanno in odio i rei.
(partono Pallade ed Ulisse)

CORO.


O Telamonia prole,
Che in Salamina all'onde in mezzo hai sede,
Lieto son io se tu felice sei;
Ma se l'ira ti fiede
Di Giove, o con maligne aspre parole
T'insultano gli Achei,
N'ho gran duolo, e per tema
A guisa di colomba il cuor mi trema.
Ed or voce ne turba ingiurïosa,
Che il prato, ove ritratta
Sta degli armenti l'indivisa preda,
Questa notte invadesti, e sanguinosa
Una strage n'hai fatta.
Tal fola ordisce Ulisse, e la bisbiglia
Nell'orecchio di tutti, e persuasi
Li fa che tutto in onta tua si creda;
E diletto ne piglia
Più ancor di lui chi l'ode,
E a' tuoi sinistri casi
Anco insultar malignamente gode.
Chi ne' grandi a ferir drizza lo strale,
Fallir non suole il segno.
Ciò di me non creduto
Saría, chè invidia i più prestanti assale.
Pur se da' grandi ajuto
I piccioli non han, debil sostegno
Questi son dello stato: ov'è congiunto
L'umíl co' grandi, e con gli umíli il grande,
L'un dell'altro si giova e s'avvalora.
Ma non puossi agli stolti
Queste insegnar vere sentenze; ed ora
Tal da loro in mal punto
Falso rumor si spande;
E propulsarlo noi
Non possiam senza te. Come di molti
Augei garrulo stormo, ei van gridando
Fuori degli occhi tuoi;
Ma se apparisci poi,
Da súbito terror tutti abbattuti,
Qual di grande sparviero trepidando,
Stan d'ogni voce muti.

Strofe.


Forse la diva Artémide,
Figlia di Giove (oh infausto, oh doloroso
Grido per noi di vergognosa taccia!),
Te spingea furïoso
Su'l commun gregge o per negato onore
In tue vittorie, o per fraudata parte
Delle primizie di selvaggia caccia.
O il loricato Marte
Forse ti trasse in quel notturno errore,
Per punir di prestata e vilipesa
Aïta sua l'offesa.

Antistrofe.


Pensatamente, o figlio
Di Telamon, trascorso a tal non sei
Da piombiar su gli armenti: ira ti spinse
Certo d'avversi dei.
Ma Giove e Febo dalla fama obliqua
Fra gli Achivi diffusa or te difenda.
Che se l'invidia de' gran re ciò finse,
O di quel dell'iniqua
Sisífide semenza,(33) entro la tenda
Più, signor, non celarti, e non più l'onta
Soffrir, che in te s'impronta.

Epodo.


Sorgi dunque, mio re, sorgi da questo
Lungo ozio, onde l'infesto
Grido fai che in maggior fiamma divampi.
Già de' nimici tuoi va l'insolenza
Franca d'ogni temenza
Scorrendo in lati campi,
E fan tutti di te con lingue prave
Ludibrio acerbo; ed io dolor n'ho grave.

TECMESSA e CORO.

TECMES.
Della nave d'Ajace o voi compagni,
Stirpe degli Erettídi,(34) or ben ragione
Di far gemiti e lagni
Abbiam quanti la casa anco da lunge
Amiam di Telamone.
Il grande, il prode, il sì prestante Ajace
Da tempestoso
Turbo sbattuto or giace.
CORO.
Qual questa notte
Tristo caso apportò? Narralo, o figlia
Del frigio Teleutante,(35)
Tu cui sua prigioniera e in un consorte
Si. tien diletta il forte
Ajace; onde ben puoi
Esserne instrutta, e riferirlo a noi.
TECMES.
Come ridir cosa nefanda io posso?
Udrai doler che a paro
È della morte amaro.
Da manía preso il grande Ajace, orrenda
In questa notte indegnità commise:
Tal vedresti nel sangue
Gran numero giacer là nella tenda
D'agni e di buoi che la sua mano uccise.

Strofe.

CORO.
Qual d'uom furente oh quale
Tu ne chiaristi atroce,
Intolerando male,
Cui già l'invida voce
De' primeggianti degli Achei promulga,
E vie più si divulga!
Ohimè! quel ch'indi seguirà, pavento.
Certo anch'egli morrà, però, che insano
Con la crüenta mano
Strage fe' de' pastori e dell'armento.
TECMES.
Lassa! da' campi strascinando venne
Que' greggi in lacci entro la tenda, e quivi
Parte sgozzò, di parte
Sparò le coste in mezzo;
Indi due bianchi arïeti afferrando,
E la lingua all'un d'essi
E la testa troncando,
Via la scaglia e su ritto a una colonna
Lega quell'altro, ed una lunga in mano
Redina presa, i due capi n'accoppia,
E sì 'l batte con doppia
Fischiante sferza, e con parole il carca
Di dure atroci offese,
Ch'uomo non già, ma un rio demón gli apprese.

Antistrofe.

CORO.
Dunque ora noi, la testa
Entro nel pallio involti,
Volsi furtivi a presta
Fuga andarne, o raccolti
Sovra il banco de' remi arcando il dorso,
Spinger la nave al corso.
Tali faranno ambo gli Atridi insieme
A noi minacce, e dalle pietre oppresso
Giacer temo con esso,
Cui feroce furore incalza e preme.
TECMES.
No 'l preme or più: qual buffa impetuosa
D'austro che vien senza fulgor di lampi,
Passò in lui quel furore, ed ora ha posa.
Ma tornato a ragione,
Nuova ha di duol cagione;
Chè l'effetto mirar de' proprii falli,
Nè alcun fuor che lui solo esserne autore,
Stringe d'alto dolore.
CORO.
Pur, se in calma tornò, penso poterne
Anch'io goder; chè di passato male
Minor conto si fa.
TECMES.
Ma se a te dato
Fosse a scerre, o gli amici contristando,
Esser tu lieto, o duolo aver con essi,
Di', che scerresti?
CORO.
Il doppio male, o donna,
È mal maggiore.
TECMES.
Ed ambo or noi, cessato
Quel furor, di dolore afflitti siamo.
CORO.
Come ciò? Non intendo.
TECMES.
Allor che insano
Egli era, in pezzo a' proprii guai godea,
Di sè non consapevole, e attristava
Noi che in senno eravamo. Or poi che posa
Racquistò dal delirio, oppresso è tutto
Da una cupa tristezza, e noi del paro
Afflitti siam non men di prima. Or questo
Doppio male non è?
CORO.
Sì certo; e temo
Sia castigo divin: se ciò non fosse,
Come, or pacato, ei non è più sereno
Di, pria, furente?
TECMES.
E avvien così, t'accerta.
CORO.
Ma d'onde il male ebbe principio? Il narra
A noi che nel dolor ti siam compagni.
TECMES.
Tutto udrai; chè tua pure è la sventura.
Ei, poi ch'alta la notte, e non più accese
Eran le faci vespertine,(36) afferra
Brando affilato, e a vani armeggiamenti
Uscir s'appresta. Io lo garrisco: Ajace,
Che fai? che tenti? A qual cimento corri,
Non chiamato, nè araldi, nè di tromba
Invito udendo? Or tutto dorme il campo.
Egli allor quella breve e ad ogni tempo
Ricantata sentenza a me risponde:
Donna, il silenzio è bel decoro a donne.
Tacqui; ei fuor si slanciò solo, nè i guasti
So dir di quivi: entro tornò träendo
Legati insieme e tori e cani e molta
Cornuta greggia; e troncò il capo agli uni,
Fiaccò agli altri le reni; ad altri il muso
Insù torcendo, ne segò la gola,
E su 'l resto del gregge che legato
Tenea, gittossi, e il flagellò siccome
D'uomini fosse. Indi fuor corso a un tratto,
Favellò con jattanza e non so quale
Ombra,(37) e d'ambo gli Atridi e in un d'Ulisse
Con un molto dicea riso beffardo,
Come ontoso lor diede aspro castigo.
Entro alfin si ritrasse, e a poco a poco
In sè rivenne; e veggendo ogni cosa
Pien di sangue e di strage, urlò, la fronte
Si percosse, nel mezzo a quel carname
Prostratosi a giacer, con l'ugne acute
Ad ambe mani e si stracciò la chioma.
E là stette gran tempo taciturno;
Poi, vôlto a me, terribili minacce
Mi fa se appieno ogni avvenuta cosa
Non gli fo manifesta, e domandommi
Di sè che fosse. Io späurita, o amici,
Quel che sapea, tutto gli dissi. Ei tosto
Proruppe allora in dolorosi gemiti,
Quali da lui mai non udii; chè sempre
Esser di vile e pusillanim'uomo
Dicea questi lamenti; ed ei per duolo
Grida non mettea mai, ma cupamente,
Come tauro, mugghiando in sè fremea.
Ora, in tanta sventura ei colà giace,
Senza cibo pigliar mai nè bevanda,
Immobile nel mezzo a quelle tronche
Membra d'armenti; e ben si par che intenda
In funesto disegno; il parlar suo,
Il suo gemer n'è prova. Amici, or voi
(Per ciò appunto qui mossi) a confortarlo,
Se il potete venite! Anime tali
Vinte si danno a ragionar d'amici.
CORO.
Trista cosa, o Tecmessa, a noi tu narri,
Da tanta insania il tuo consorte invaso.
AJACE.
(dentro)
Ohimè, me lasso!
TECMES.
Ecco, più forte ancora
Par che si dolga. Udiste Ajace, udiste
Com'ei grida?
AJACE.
(dentro)
Ohimè lasso!
CORO.
O ch'ei s'affanna
Di duol ch'or sente, o del furor cessato
L'idea lo crucia.
AJACE.
(dentro)
Oh figlio, figlio!
TECMES.
Ahi misera!
Eurísace, te chiama. - Oh che mai volge
Nel torbo cuor?... Figlio, ove sei?... Me misera!
AJACE.
(dentro)
Teucro io chiamo; ov'è Teucro? Intorno sempre
Va depredando? - ed io fra tanto, io moro!
CORO.
Par che in senno egli sia. Schiudi la tenda.
Forse in vederne prenderà contegno
Più temperato.
TECMES.
Ecco, la schiudo. Or vedi
Che fatto egli ha; qual tristo stato è il suo.

AJACE, TECMESSA e CORO.

Strofe I.

AJACE.
Oh miei compagni, oh amici miei che state
Soli a me ancor con integra
Fè congiunti, mirate
Quale or qui mi circonda
Fluttüante di sangue orribil onda.
CORO.
Ohimè! pur troppo il ver dicesti, o donna.
Mostra il fatto, non sano esser di mente.

Antistrofe I.

AJACE.
Oh voi ch'esperti del naval remeggio
Meco le vie del pelago
Solcaste, e soli or veggio
Che a me propizii siete,
Deh porgete favor, deh m'uccidete!
CORO.
Non dir così; rimedio al mal ponendo
Con altro mal, non far maggiore il danno.

Strofe II.

AJACE.
Vedete il prode, il forte,
Quel nelle pugne intrepido guerriero,
Manse greggie or con fiero
Impeto porre iinsanamente a morte?
Oh scherno! Ohimè, per sì spregevol'opre
Quale obbrobrio mi copre!
TECMES.
Deh non dir questo, o mio signor; te n' prego!
AJACE.
Tu qui? non esci? Il piè non porti altrove?
Ahi ahi!
CORO.
Pace, deh pace, e in te ritorna!

Strofe III.

AJACE.
O me infelice, che fuggir di mano
Mi lasciai que' perversi,
E su giovenchi e agnei belanti insano
Scagliandomi, di lurido
Sangue il terrea cospersi!

CORO.
Ma cruciarti del fatto or che ti giova?
Esser non può che quel che fu, non sia.

Antistrofe II.

AJACE.
- Oh spïator di tutto,
Oh sempre autor d'ogni più reo consiglio,
Tu, di Läerte figlio,
L'uom di nequizia sin fra gli Achei più brutto,
Certo di me, per lo piacer che n'hai,
Un gran riso or tu fai!
CORO.
De' numi a grado e ride ogni uomo, e piange.
AJACE.
Oh il vedessi colui, benchè fiaccato
Io sia, lasso, così!
CORO.
Non dir superbe
Cose: lo stato, in che pur sei, non vedi?

Antistrofe III.

AJACE.
Deh Giove, padre de' maggiori miei,(38)
Dato mi sia quel mio
Avversario impostore, e degli Achei
Ambo i gran regi uccidere,
Indi morire anch'io!
TECMES.
Se ciò preghi per te, prega ch'io teco
Muoja. Te morto, a che più val ch'io viva?

Strofe IV.

AJACE.
Ahi ahi! Oh bujo, oh tenebre
Che di fulgida luce a me splendete,
Me abitator dell'Erebo
Laggiù fra voi prendete!
Di numi io più, nè d'uomini
Favor non merto conseguir: di Giove
Me la figlia tremenda
Persegue a morte. Or dove
Fuggir poss'io, dove sostar, se tolto
Emmi ogni onore. e fra una stolta, orrenda
Strage qui stommi avvolto,
E su me correrà tutto con l'armi
Il campo a trucidarmi?
TECMES.
Oh me lassa, tal uom tali dir cose,
Che dette inanzi non avría giammai!

Antistrofe IV.

AJACE.
Oh marini antri, oh pascoli,
Oh del mar contro al lido onde sonanti,
Già tempo è assai che ad Ilio
Me riteneste inanti;
Or non più, mentre l'anima
(Il sappian tutti) in queste membra vive.
Oh degli Argivi amico
Scamandro, alle tue rive
Più tal uom non vedrai, di cui veduto
Troja non ha (gran cosa in vero io dico)
Pari guerrier venuto
Da suol di Grecia. E giacio or qui da tanto
Sprezzo e vergogna affranto!
CORO.
Nè so come impedir, nè come io lasci
Aver libero sfogo i lagni tuoi,
Te caduto veggendo in sì rea sorte.
AJACE.
Ahi! chi pensato avrebbe che il mio nome
Tanto a' miei casi convenir dovesse?
Ahi ahi sclamare(39) e replicar ben posso
In sì orribili mali. Il padre mio,
Pur guerreggiando in questa terra Idea,(40)
Fe' ritorno a sue case, i premii primi
Riportando del campo, e gloria somma;
Ed io, suo figlio, a questo suol di Troja
Venuto anch'io, non con minor possanza,
Non minori di mano opre compiendo,
Io dagli Argivi in nullo onor tenuto
Così mi perdo! E sì certo esser parmi
Che, se Achille egli stesso l'armi sue
Premio ad alcuno aggiudicate avesse,
Altri che me non le ottenea persona;
Ed or gli Atridi a un ciurmador le diero,
Sprezzando me. Se questi occhi, se questo
Mio sconvolto cerébro forvïati
Non vi fosser nell'opra, altra costoro
Non più per altri porterían sentenza;
Ma la tremenda inoppugnabil figlia
Di Giove, mentre io su coloro il braccio
Già già stendea, m'illuse, mi comprese
Di sì stolto furor, che in questi bruti,
Di quelli in vece, insanguinai le inani.
Quei di me intanto ridono, scampati
Mal mio grado; ma che? Se s'inframette
Un qualche dio, scampa anche il vil dal prode.
Or che far deggio? In ira apertamente
Sono agli dei; m'odia de' Greci il campo;
Me Troja tutta e questo suolo aborre.
Forse l'armata abbandonando, e soli
Qua lasciati gli Atridi, alle mie case
Per l'alto Egeo rivarcherò? Ma come,
Con qual fronte mostrarmi al padre mio,
A Telamone? E sosterrà vedermi
Tornar nudo d'onor, privo di quelle
Spoglie illustri, onde adorno e glorïoso
Ei ritornava? - È insopportabil cosa.
O nel vallo de' Troi forse irrompendo
Sol contra tutti un qualche fatto egregio
Farò d'ardire, e cadrò morto alfine?
Troppo di ciò farei giöir gli Atridi.
No, no. - Ma pure è da tentar qualch'opra,
Tal che al vecchio mio padre m'appresenti
Non degenere figlio. Ad uom che a' mali
Più sottrarsi non può, turpe è il desío
Di viver lungo. E qual diletto ha un giorno
Aggiunto a giorno a differir la morte?
Pregio alcuno io non fo di chi s'accalda
Sol di vuote speranze. Ad uom bennato
O un viver bello o un bel morir conviene.
Tutto dissi.
CORO.
Nè fia chi nieghi, Ajace,
Esser questi tuoi veri e proprii sensi.
Ma cálmati, e agli amici a guidar dona
L'animo tuo, posta ogni cura in bando.
TECMES.
Mio sire Ajace, altro non v'ha per l'uomo
Male maggior di servitude. Io nata
Fui di libero padre e di ricchezze,
S'altri v'ebbe tra' Frigi, un dì possente.
Or serva io son, siccome piaque a' numi,
E al braccio tuo principalmente; ed io,
Poi che teco nel tuo letto m'accolsi,
Te sol amo, e te curo. Or per lo nostro
Famigliar Giove, e per quel letto istesso
Che con me dividesti, io te ne prego!
Non patir che ludibrio doloroso
De' tuoi nimici ìo sia, preda lasciandomi
A qualcuno di lor; chè se tu muori,
Se m'abbandoni, in quello stesso giorno,
Pensa ch'io dagli Argivi, e il figliuol tuo,
Ambo a forza rapiti, ambo verremo
Sotto giogo servile; e alcun pur anco
Di que' nuovi signori amaramente
Mi schernirà, dicendo: Ecco, mirate
La consorte d'Ajace, di, quel tanto
Forte e grande nel campo, da qual alto
Splendido stato in che vil sorte or giace.
Tali cose udrò dirmi; e me di duolo
Crucerà il mio destino, e a te que' detti
Di vergogna saranno, e a tutti i tuoi.
Abbi rispetto al padre tuo che lasci
Nella trista vecchiaja; abbi rispetto
Alla madre che grave di molti anni,
Gli dei prega e riprega che tu vivo
Le torni a casa: abbi, o signor, pietade
Del figliuol tuo che di te privo in sua
Fanciulla età, mal si verrà crescendo
Sotto tutori ah non amici! Oh quanto
Rechi a lui danno, ed anco a me, se muori!
A me non resta in chi volger lo sguardo,
Altri che tu. La patria mia con l'armi
Tu mi struggesti; altro destin la madre
Giù spinse e il padre, ad abitar nell'Orco.
Or qual patria in tua vece, e quale stato
V'avrà per me? Tutta in te solo io vivo.
Serba memoria anche di me. Dee l'uomo
Ricordar se talor qualche diletto
Ebbe, favor sempre favor produce.
Chi di goduto ben la rimembranza
Lascia sfuggir, non è gentil persona.
CORO.
Sire Ajace, io vorrei che tu, com'io,
Pietà sentissi in cuore, e le parole
Di costei loderesti.
AJACE.
Ella assai lode
Avrà da me, sol che di far non nieghi
Quant'io le impongo.
TECMES.
Oh amato Ajace, io tutto
Farò.
AJACE.
Qua il figlio adducimi, ch'io 'l vegga.
TECMES.
Di qua per tema io 'l sottraea.
AJACE.
Per tema
Di cotesta sventura, o ch'altro intendi?
TECMES.
Non forse in te scontrandosi, la morte
Il misero trovasse.
AJACE.
Ed era il caso
Convenïente al mio tristo furore.
TECMES.
Quindi fui cauta in preservarlo.
AJACE.
Io lodo
La tua provvida cura.
TECMES.
E che far dunque
Degg'io per te?
AJACE.
Fa' che a me inanzi il figlio
Vegga, e a lui parli.
TECMES.
Egli è qua presso a fidi
Sergenti in guardia.
AJACE.
Onde a venir che tarda?
TECMES.
Figlio, il padre ti chiama. - O tu, custode
Che lo reggi per mano, or qua ne 'l mena.
AJACE.
Vien egli, o parli a chi non ode?
TECMES.
Ei viene;
Già l'adduce il famiglio a te dappresso.
(viene un servo col picciolo Eurisace)
AJACE.
Qua il guida, qua. Non prenderà timore
In veder questa strage ancor fumante,
S'egli è vero mio figlio; anzi per tempo
Ne' fieri studii esercitarlo è d'uopo
Del genitore, e di natura a lui
Farlo conforme. - O figlio mio, felice
Sii più del padre; a lui simíl nel resto;
E trist'uom non sarai. Te avventurato
Dire or poss'io, chè di sì gravi mali
Nulla ancor senti; e il sentir nulla è vita
La più dolce di tutte, in fin che poi
Abbi a giöire, abbi a dolerti appresso.
Giunto a quegli anni, in fra' nimici è d'uopo
Qual sei mostrarti, e di qual padre: intanto
Pasci pur di söavi aurette lievi
L'anima giovinetta, e sii delizia
Di questa madre tua. Niun degli Achei
Ti farà, ne son certo, onta nè danno,
Benchè privo di me: tale un attento
Custode, e forte educator ti lascio:
Teucro. - A far caccia d'inimici or lunge
Ei s'aggira di qua; ma presto a voi
Chieggo favor, marine genti, e d'arme
Compagni miei: fate palese a Teucro
Il mio voler, che alle paterne case
Questo mio figlio, e a Telamon l'adduca,
E alla madre Eribéa, fido sostegno
Di lor vecchiezza ognor, fin che alle case
Scendano poi del sotterraneo nume.
E l'arme mie, nè d'agonal certame
Sieno premio agli Achei, nè arbitrio n'abbia
Quel tristo mio persecutor. Tu, figlio,
Prendi, Eurísace, tu, nelle addoppiate
Guigge il braccio inserendo, il mio di sette
Compatti cuoi grande, infrangibil scudo;
E sien l'altr'arme in un con me sepolte.
Donna, or tieni con te questo fanciullo.
Serra le porte, e non far pianti e gemiti
Presso alle tende. È piagnolosa cosa
Per natura la donna. Orsù t'affretta.
Medico saggio a susurrare incanti
Non sta su l'egro, ov'è mestier del ferro.
CORO.
Temo in udir sì risoluti sensi.
Quest'asprezza di detti a me non piace.
TECMES.
O mio signor, che far disegni in mente?
AJACE.
Non dimandar, non ricercarne. È bello
Il temprarsi a modestia.
TECMES.
Ah ch'io pavento!
Deh non lasciarne in abbandon: te n' prego
Per questo figlio e per gli dei!
AJACE.
Già troppo
Tu m'attedii. Non sai ch'io più non debbo
Nulla agli dei?
TECMES.
Non dir parole infauste!
AJACE.
E tu parla a chi t'oda.
TECMES.
Udirmi dunque
Non vorrai tu?
AJACE.
Troppo garristi ormai.
TECMES.
Sire, io tremo...
AJACE.
- Là dentro, olà, col figlio
Adducetela tosto.
TECMES.
Ah per gli dei
Ammollisci il cuor tuo!
AJACE.
Stolta mi sembri,
Se mia natura oggi educar tu pensi.
(entra nella tenda con Tecmessa e col figlio)

CORO.

Strofe I.


Inclita Salamina,
Tu beata e fra tutte isole illustre
Siedi nella marina;
Ma nell'Idéa palustre
Erbosa spiaggia a stanza
Gran tempo è già che i dì logrando io vivo,
D'ogni onoranza privo;
E sol trista speranza
Ho di scendere alfin nelle aborrite
Case dall'atro Dite.

Antistrofe I.


Ed anco, ohimè! qui giace
Di funesta insanabile manía
Tutto comprese Ajace.
Quel che di Marte pria
Grande campion qua venne,
Or (gran duolo agli amici) è fatto insano;
Chè dell'invitta mano
L'alto valor solenne
Cadde, ahi! cadde sprezzato appo gl'infidi,
Disconsigliati Atridi.

Strofe II.


Certo, la madre antica,
Bianca il crine, e per molti anni di vita
D'ogni vigore attrita,
Quando udrà quale insania or sì l'implíca,
Non di temprato duolo
Metterà lai la misera, siccome
Gemebondo usignolo,
Ma grida acute, e battere
Vedrassi il petto, e lacerar le chiome.

Antistrofe II.


Meglio è nel bujo Averno
Giacer, che fuor del senno ir delirante
Uom per virtù prestante
Tra i forti Achivi, e per onor paterno.
Misero padre, oh quale
Del figlio tuo grave sventura udrai!
Grave così, che tale
Della prosapia Eácide
Niun altro colse in altra età giammai.

AJACE, TECMESSA e CORO.

AJACE.
Tutto rimuta in sua vicenda il tempo
Cose occulte appalesa, e le palesi
Torna a celar; nè disperar di nulla
Si debbe: anco il tremendo giuramento,
Anco il più fermo e saldo cor si frange.
L'animo mio che ad inflessibil tempra,
Come iil ferro in fredd'aqua, era indurato,
Molle è fatto al pregar di questa donna;
Ed ho pietà di lasciare a' nimici
Lei senza sposo, e senza padre il figlio.
Or su queste maremme andar vo' in cerca
D'alcun lavacro, ove purgar mi possa
Ogni sozzura, indi da me la grave
Ira cessar di Pallade. Venuto
Ove l'arena umano piè non stampi,
Là questo brando mio, questa d'ogni arme
Arme a me più odïosa, entro la terra
Profonderò, chè più no 'l vegga alcuno.
La Notte e l'Orco il custodiscan quivi.
Da quel dì che in mia man da quell'acerbo
Nimicissimo Ettorre in dono il presi,(41)
Nulla più dagli Argivi ebbi di bene,
Nè d'onor più. Vera sentenza è quella:
Doni non son dell'inimico i doni.
Quindi ceder noi pure apprenderemo
Ai numi sempre, e venerar gli Atridi.
Imperanti son essi; al lor commando
Vuolsi obedire. E come no, se tutte
Pur le più forti e più potenti cose
Cedon alle più degne? I nevicosi
Verni dan loco all'ubertosa estate:
Si ritrae l'atra notte al dì che tratto
Da candidi corsieri a splender viene:
Lascia il soffio de' venti al mar fremente
Tornar la calma; ed il possente sonno
A chi i sensi legò poi li discioglie.
E noi perchè d'esser prudenti e saggi
Imparar non vorremo? Ormai comprendo
Che il nimico odïar sol si dee quanto
Uom ch'indi amar ne possa; e vo' l'amico
Di mie cure giovar qual se costante
Amico mio non debba durar sempre;
Chè a' più mal fido è d'amistade il porto.
Ma tutto a bene andrà. Donna, tu dentro
Torna, e prega gli dei devotamente
Che, quanto io bramo, alfin si compia. - E voi
Favore egual rendetemi, o compagni;
E dite a Teucro, se verrà, che assuma
Di noi cura, e di voi. Là intanto io vado,
Ove per me si dee. Ciò che v'impongo,
Oprate voi. Forse che in breve udrete
Me d'ogni mal ch'or mi travaglia, in salvo. (parte)

CORO.

Strofe.


Fremo di gioia,(42) e in petto il cuor mi sento
Balzar contento.
O Pane, o Pan marívago,
Che guidator pur sei
De' balli degli dei,
Vien' dal petroso vertice
Del nevato Cillene, or vien' la lieta
Meco a danzar Nisíaca
Danza, e di Creta.
Danzar vogl'io. D'insù l'Icario flutto
Anco a noi manifesto or qua venire
Degnisi Apollo, e tutto
Suo favor ne conceda il Delio sire!


Antistrofe.


Marte l'orrore, onde i nostri occhi avvolse,
Ecco, disciolse.(43)
Or fausta, o Giove, or candida
Luce per noi raggiorna,
E alle navi ne torna,
Però che Ajace, immemore
De' proprii mali, i riti sacri ancora
Compie, e gli dei con fervido
Pio zelo onora.
Tutto il tempo consuma, e nullo io dico
Non possibile evento or quando Ajace
Vêr gli Atridi il nimico
Furor compose, e la gran lite, in pace.

Un NUNZIO e CORO.

NUNZIO.
Amici, a voi questa novella io prima
Arrecar vo': Teucro poc'anzi è giunto
Da' Misii monti. Appena il piè nel campo
Ei ponea, dagli Achei d'onte e di spregi
Fu carco a un tempo. Il suo venir da lungi
Scòrsero, e tosto ad accerchiarlo, e tutti
Di qua, di là d'oltraggi strazïarlo,
Chiamandolo fratel del forsennato
Che far macello degli Achei volea;
E minacciâr che senza scampo ei stesso
Dovrà, pesto da sassi, andarne a morte.
E giunti a tale erano già, che i brandi
Uscian delle guäíne; ma racqueto
Dal süasivo ragionar de' vecchi
Fu quel furor che scorso era tant'oltre.
Dite: Ajace or dov'è? chè dar gli possa
Di ciò contezza. A chi di genti è capo,
Ogni cosa si dee far manifesta.
CORO.
Entro non è. Dianzi n'uscía, volgendo
Nuovi pensier nella mutata mente.
NUNZIO.
Ah! chi a lui mi mandò troppo fu tardo
A qua mandarmi, o troppo tardo io venni.
CORO.
Qual può questa tardanza aver difetto?
NUNZIO.
Teucro ad esso ingiungea che dalla tenda
Fuor non uscisse anzi che giunto ei fosse.
CORO.
Con ottimo consiglio ito è lo sdegno
A placar degli dei.
NUNZIO.
Stolte parole,
Se Calcante indovino è pur del vero!
CORO.
Che di ciò presagir seppe il profeta?
NUNZIO.
Tutto dirò quant'io presente intesi.
Nel consesso de' re solo ei si trasse
Dagli Atridi in disparte, e la sua destra
Nella destra di Teucro amicamente
Ponendo, disse ed inculcò che tutto
Questo presente dì con tutti modi
Chiuso contenga entro la tenda Aiace,
Nè fuor lasci che n'esca, se vederlo
Ancor vivo pur vuol; chè in tutto ancora
Questo sol giorno della dea Minerva
L'ira lo incalza. E quelle vane (aggiunse)
Altere moli che persona han d'uomo,
Non d'uom saggezza, per divin volere
Vanno in gravi sventure a cader poi.
E già quando a partir s'accinse Ajace
Dalle case paterne, apparve insano
Esser di mente. Il saggio padre a lui
Dicea: Va', figlio, a far battaglie, e vinci.
Ma vinci sempre col favor de' numi.
Ed ei superbo e sconsigliatamente:
Padre, co' numi anco il dappoco e il vile
Fa di vittoria acquisto; io pur senz'essi
Gloria ottener di vincitor m'affido.
Così allor millantava; e quando poi
A forte oprar contra i nimici il braccio
Pallade l'incitò, questa ei le fece
Rea nefanda risposta: Al fianco, o diva,
Statti pur tu degli altri Achei; le squadre
Ove siam noi non romperà la guerra.
Con tal parlar, col sentimento suo
Trascendente l'umano, ei l'acerba ira
S'acquistò della dea; ma se può illeso
Oggi scampar, forse che a lui potremo,
Concedenti gli dei, recar salute.
Così l'augure disse: e me spedía
Sollecita qua Teucro a riferirvi
Questo commando. Ah se a ciò vengo indarno,
Se Calcante ben vede, ei più non vive!
CORO.
- Esci, o Tecmessa, o sventurata donna:
Vieni a udir ciò che a noi questi racconta.
Che qualcun non gioïsca, è gran periglio.

TECMESSA col figliuolo, il NUNZIO e CORO.

TECMES.
Perchè fuor novamente uscir mi fate,
Mentre, misera! appena avea riposo
Da' miei tanti travagli!
CORO.
Odi qual cosa
Vien quest'uom per Ajace ad annunziarne,
Ond'io m'attristo.
TECMES.
Ohimè! che fia? Perduti
Siam forse noi?
NUNZIO.
Di te non so; d'Ajace,
Se di sua stanza uscì, non m'assecuro.
TECMES.
Uscito egli è, sì che il tuo dir m'accora.
NUNZIO.
Teucro impon contenerlo entro la tenda,
Nè si lasci star solo.
TECMES.
E dov'è Teucro?
Perchè ciò ne commanda?
NUNZIO.
Or or qui giunge.
Ei d'Ajace l'uscir teme funesto.
TECMES.
Ohimè lassa! e da chi, da chi ciò seppe?
NUNZIO.
Dal Testóreo profeta(44) udì che a lui
Dee portar questo dì salvezza o morte.
TECMES.
Ohimè!... Deh voi, deh soccorrete, amici,
A sì grand'uopo! Altri qui Teucro affretti:
Altri a' monti vêr l'Orto, altri all'Occaso,
Ite cercando ove in mal punto Ajace
Or s'aggiri. - Ben io, ben io m'accorgo
Che m'ingannò; che dal suo primo affetto
Rejetta io sono. - Ah che far deggio, o figlio?
Non è da starsi. Andar vo' anch'io per quanto
Ho di forza. Su via, moviam, corriamo!
Non fa luogo indugiar, se vogliam salvo
Uom che a morir bramosamente intende.
CORO.
Presto son io, nè solo al dir; veloce
L'opra de' piè verrà co' detti a paro.
(parte con Tecmessa)

Spiaggia solitaria con bosco.

AJACE.
Ecco, il brando omicida è posto in atto
Per ben ferire; e proprio a ciò (se tempo
Di ragionarne or fosse) è questo brando,
Dono d'Ettore a me, del più di tutti
Aborrito nimico. Nell'ostile
Trojana terra infisso sta: la punta
N'aguzzai dianzi alla rodente cote;
E sì fermo il piantai, ch'esser mi possa
Faustissimo strumento a presta morte.
Bene sta l'apparecchio. - Or primamente
Tu, com'è dritto, a me sovvieni, o Giove.
Gran favor non ti chieggo: alcun sol manda
Che di me annunzii il tristo caso a Teucro,
Sì che primo egli accorra a rilevarmi
Dalla spada crüenta anzi che visto
Da' miei nimici, esca ad augelli e cani
Gittato io sia. Di ciò ti prego, o Giove;
E degli estinti il sotterraneo duce
Mercurio invoco ad assopirmi in placido
Sonno appena m'avrò, su questo ferro
Slanciatomi d'un tratto, aperto il fianco.
E le vergini sempre e de' mortali
Sempre ogni opra spïanti, il piè veloci,
Tremende Erinni io chiamo a mirar come
Io per gli Atridi or muojo; e me veggendo
Qui cader di mia mano, atrocemente
Perseguano que' tristi, e sì per mano
De' lor più cari abbiano morte anch'essi!
Ite veloci, o punitrici Erinni,
Ite in campo a gustar senza riserbo
Dell'esercito tutto! - E tu che il cielo
Carreggi, o Sole, allor che giunto sei
Sovra la patria mia, stringi le aurate
Briglie, e le mie sventure e il morir mio
Al vecchio padre annunzia, all'infelice
Madre.... Oh misera madre! ella in udendo
Il tristo caso, un gran gemito in tutta
Spargerà la città. - Ma di lamenti
Tempo questo non è; tempo è che l'opra
Tostamente si compia. - Oh Morte, Morte,
Qua vieni a me.... Se ben, che dico? io stesso
Or verrò teco a conversar sotterra.
O tu, di questo dì splendida luce,
E tu, Sole aurigante, io vi saluto
Or per l'ultima volta. - Oh sacra terra
Della natal mia Salamina! oh mio
Paterno focolare! Oh illustre Atene,
E popol suo col mio congiunto! - E voi,
O di Troja fontane e fiumi e campi
Che mi nudriste, addio. Queste parole
L'ultime sono a voi d'Ajace: il resto
Vo con gli estinti a ragionar nell'Orco.
(entra nel bosco, e si uccide. Sopragiunge il Coro diviso in due Semicori, l'uno da una parte, poi l'altro dall'altra)

CORO.

SEMIC. I
Il molto faticar molto affatica.
Ove ove mai,
Qual parte io non cercai?
Nè loco è alcun che dove ei sia mi dica....
Ma ecco, sento un calpestío.
SEMIC. II
Siam noi,
Siamo i compagni tuoi.
SEMIC. I
Or bene?
SEMIC. II
Ho tutto da ponente il lato
Delle navi esplorato.
SEMIC. I
E n'hai?...
SEMIC. II
Travaglio molto,
E nulla più raccolto.
SEMIC. I
La via che volge all'orïente io tenni,
Nè quivi a lui m'avvenni.

Strofe.

CORO.
Or chi fia mai, chi fia
O degl'insonni pescatori intenti
A far lor prede, o degli Olimpii numi,
O qual sarà de' fiumi
Al Bosforo correnti,
Che di quel fiero a me novella or dia?
Duro m'è in ver di faticosa e lunga
Via fra gli errori avvolgermi,
Senza che alfine a rincontrarlo io giunga.
TECMES.
(dentro)
Ahi ahi!
CORO.
Qual grido esce dal bosco?
TECMES.
(dentro)
Ahi misera!
CORO.
Veggo d'Aiace l'infelice sposa;
Tecmessa ell'è, che in questi lai prorompe.

TECMESSA e CORO.

TECMES.
Ita, perduta, estinta io sono, amici!
CORO.
Che avvenne?
TECMES.
Ajace, Ajace mio qua morto
Sta su la spada infissa or or nel petto.
CORO.
Oh tristo caso! Oh del ritorno a noi
Tolte speranze! Ah, sire,
Morti hai col tuo morire
Questi compagni tuoi!
Oh noi miseri! Oh tua pur dolorosa
Sorte, o misera sposa!
TECMES.
Ahi ahi sclamar ben ne si addice in tanta
Sventura nostra!
CORO.
E da qual man fu morto?
TECMES.
Da sè s'uccise. Il brando in terra fitto,
Su cui gittossi, il suicidio accusa.
CORO.
Oh me deserto! o duolo!
Incustodito e solo
Dagli amici tu dunque insanguinato
Hai di tue vene il suolo?
E stolto io troppo, attonito,
Non ho su te vegliato!
Dove quel fiero giace,
D'infausto nome, Ajace?(45)
TECMES.
Non è dato vederlo. Io tutto il voglio
Con questo pallio ricoprir. Nessuno
Pur degli amici mirar lo potrebbe
Fuor soffiar per le nari e dall'aperta
Propria ferita il nereggiante sangue.
Lassa me, che farò? Chi degli amici
Ti asporterà? Teucro dov'è? Deh come
Opportuno or verrebbe a compor meco
Questo estinto fratello entro la tomba!
Oh Ajace, oh Ajace misero, qual fosti,
E quale or sei! Tale or tu sei da trarre
Anco dagli occhi de' nimici il pianto.

Antistrofe.

CORO.
Volea, lasso! volea
Il duro adunque animo tuo l'atroce
Così finir de' mali tuoi dolore:
Sì con mortal rancore
Notte e giorno il feroce
Tuo cuor contra gli Atridi alto gemea.
E fu primo di guai tristo argomento
Quel di merto per l'inclite
Armi d'Achille fra gli eroi cimento.
TECMES.
Ohimè, misera me!
CORO.
Ti fiede il cuore
Aspro duolo, ben veggo.
TECMES.
Ohimè!
CORO.
Pur troppo
Ragione, o donna, hai d'iterar lamenti,
Orba rimasa di cotanto amico.
TECMES.
Tu il mio danno non fai che imaginarlo;
Io sentirlo altamente.
CORO.
Assai te 'l credo.
TECMES.
O me misera, oh figlio, a qual mai giogo
Incontro andiam di servitude! Oh quali
Sovrasteran duri signori a noi!
CORO.
Tu fai pianto e querele
Di quel che degli Atridi or già presumi
Governo aspro e crudele:
Deh no 'l permetta il buon voler de' numi!
TECMES.
Senza il voler de' numi or non sarebbe
Nè pur questo avvenuto.
CORO.
In ver composto
Troppo han essi di mali un grave carco.
TECMES.
Opra quest'è di Pallade, tremenda
Figlia di Giove, a pro d'Ulisse ordita.
CORO.
Certo, colui che tutto osar non teme,
In sua fosc'alma or questi
Furenti atti funesti
Ingiurïoso irride,
E, nell'udirli, insieme
Riso ne fanno e l'uno e l'altro Atride.
TECMES.
E ridan pur, godano pur costoro
De' guai che oppresso han questo eroe. Se vivo
No 'l desiâr, rimpiangeranlo estinto
Forse all'uopo dell'asta. In man gli stolti
Hanno il lor bene, e non lo san, se pria
Via gittato non l'hanno. Il morir suo
Amaro è a me ben più che dolce a questi;
Ma grato è a lui, poi che tal morte ottenne,
Qual bramava ottenerla. Or di che dunque
Rider posson coloro? Ei non per opra
D'essi, no, non moría, ma degli dei.
Prorompa Ulisse in vani oltraggi: Ajace
Non hanno più. Ben egli a me, morendo,
Lasciò gemiti e angosce....
TEUCRO.
(dentro)
Ahi, ahi!
CORO.
- T'accheta.
Parmi voce lugùbre udir di Teucro
Che il duol già senta dell'orribil caso.
(Tecmessa parte col figliuolo)

TEUCRO e CORO.

TEUCRO.
Oh amato Ajace! oh fratel mio, tu dunque
Fatto hai ciò che la fama intorno grida?
CORO.
Non vive ei più; sappilo, o Teucro.
TEUCRO.
Oh sorte,
Mia trista sorte!
CORO.
In così ria vicenda....
TEUCRO.
Misero me!
CORO.
Ben ti si addice il pianto.
TEUCRO.
Oh dolor fiero!
CORO.
Ah sì, purtroppo, o Teucro!
TEUCRO.
Lasso! e il figliuolo suo dove, in qual parte
Della Tröade sta?
CORO.
Solo, qua presso
Alle tende.
TEUCRO.
(ad un sergente)
Su via, tosto a me dunque
Adducilo; chè forse alcun nimico,
Qual leoncin di vedovata madre,
No 'l rapisca. Va', corri. Insulto e scorno
Soglion far tutti ad uom che giace estinto.
CORO.
Ei di questo suo figlio, ei stesso, o Teucro,
Vivente ancor, t'accomandò la cura
Che spontaneo già prendi.
TEUCRO.
- Oh più di tutti
Spettacol di dolore agli occhi miei!
Oh per l'animo mio più assai di tutti
Doloroso cammin questo ch'or feci,
O carissimo Ajace, a rintracciarti,
Tosto che udii nuova sì rea! chè celere
Di te, qual d'un iddio, corse la fama
Fra gli Achei tutti a divulgar tua morte.
Ciò udendo io sospirai, misero, ed ora
Al vederlo mi muojo. Orsù scopritelo;
Chè tutto io miri il tristo caso. - Oh orribile
Vista! oh fiero ardimento! Quante pene
Tu nell'animo mio disseminasti
Col tuo morire! Or dove, a chi poss'io
Volgere il passo, io che d'äita alcuna
Non ti sovvenni nelle tue sventure!
Senza te ritornando, oh sì benigno
Accoglierammi, e con sereno aspetto
Telamon, di noi padre; ei che nè manco
Nella prospera sorte su le labra
Un sorriso non ha! Che vorrà mai
Dissimular? che non dirà d'acerbo
Di quel bastardo di captiva donna,
Che per vile e infingarda alma tradiva
Te, amato Ajace, o per malvagio intento
D'usurparsi, te morto, il tuo retaggio
E il poter tuo? Così dirà l'iroso,
Aspro già per vecchiezza, e prono sempre
Per rissar per un nulla: alfin cacciato
Dalla patria n'andrò, non liber'uomo
Apparendo, ma servo. In casa questo;
Assai nimici e favor poco in campo;
Dal morir tuo traggo tal frutto. Ahi lasso!
Or che fo? Come, o misero, strapparti
Fuor da questo potrò ferro omicida,
Su cui l'alma spirasti? Oh! presentito
Hai tu, ch'Ettore un dì morto t'avrebbe,
Morto ei stesso già pria? - Deh ripensate
Di questi due la sorte! Ettore avvinto
D'Achille al carro con quel cinto istesso
Ch'ebbe in dono d'Ajace, strascinato
Intorno fu sin ch'esalò lo spirto(46)
Questi su 'l brando che donógli Ettorre,
Slanciandosi, si uccide. Or questo brando
No 'l temprava un'Erinne? e non dell'Orco,
Artefice funesto, opra è quel cinto?
Io di questa e di tutte altre sventure
Fabri a' mortali ognor dirò gli dei;
E a cui questo pensier non attalenta,
Altro n'abbia a suo grado; io così penso.
CORO.
Cessa gl'indugi, e tosto avvisa il come
Comporrai nella tomba il morto corpo,
E che dire or dovrai; poi ch'uom nimico
Veggo, che forse riderà protervo
De' nostri mali.
TEUCRO.
E chi è costui che vedi?
CORO.
Menelao, quel per cui venimmo a Troja.
TEUCRO.
Veggo; già presso è sì che ben si scerne.

MENELAO, TEUCRO e CORO.

MENELAO.
Olà! t'impongo a quell'estinto corpo
Non dar sepolcro; ove si sta, si lasci.
TEUCRO.
Perchè getti tu all'äer queste parole?
MENELAO.
Ciò piace a me, piace al signor del campo.
TEUCRO.
Nè di ciò la cagion dirne vorrai?
MENELAO.
Costui sperammo e federato e amico
Degli Achei da sue case addurre a Troja;
E trovato l'abbiam nimico a noi
Più ancor de' Frigi. Ei machinando morte
All'esercito tutto, in questa notte,
Per farne strage, s'aggirò nel campo,
E se alcun degli dei l'empio attentato
Non rendea vano, or tutti noi percossi
Giaceremmo di morte obbrobrïosa,
Ed ei vivrebbe. Un qualche dio detorse
La costui rabbia, e sovra greggi e mandre
Piombar la fece; onde or non fia chi tanto
Possa, che in tomba il suo corpo componga;
Su l'arene gittato, ei sarà pasto
Agli augelli del lido. E tu per lui
Vampo superbo non menar: se vivo
Moderar no 'l potemmo, in nostra forza
Spento il terremo, ancor che tu no 'l vogli.
Mai non diè ascolto a' detti miei. Pur tristo
Egli è l'uom che, privato, a chi sta in alto
Piegar non degna. Ove non v'ha timore,
Sono indarno le leggi, e ben non puossi
Esercito guidar, che di temenza
Nullo, nè di rispetto abbia contegno.
L'uom, benchè di persona e grande e forte,
Pensar dee che si cade anco talora
Per lieve inciampo; e chi pudor, chi tema
Ha di cui debbe, in suo cammin va salvo.
Ove far tutto e soprafar si puote
Ciò che si vuole, ivi lo stato corre
Di gran corso a rüina. Un opportuno
Saggio timor sempre in me sia, nè stima
Da noi si faccia, che a talento oprando,
Il piacer col dolor poi non si paghi:
Vicenda usata. Ardea da pria costui
Di fiero orgoglio; or io grandeggio, e questo
Corpo ti vieto sepellir, se in tomba
Cader non vuoi, nel darla a lui, tu stesso.
CORO.
Menelao, poi che detto hai sagge cose,
Or poi non farti insultator de' morti.
TEUCRO.
Non più stupor fia che mi prenda, amici,
Ch'uom d'ignobil natale errando parli,
Quando color che più d'illustri han pregio,
Da ragion, favellando, erran poi tanto.
Via, ricomincia. Aver tu dici a Troja
Degli Achei federato addotto Ajace?
Non ei dunque in sue navi ad Ilio venne,
Signor proprio di sè? Quando mai duce
Di lui tu fosti? E quando e d'onde impero
Su quelle genti hai tu, ch'ei di sua terra
Qua conducea? Di Sparta re, non sire
Di noi venisti; e non a te su lui
Di commando ragion mai si pertenne
Più che a lui sovra te. Qua veleggiasti
Commandante sott'altri, e non supremo
Imperador, sì che soggetto Ajace
A te pur fosse. Or dunque va': commanda
A cui commandi, e de' tuoi detti alteri
Tremar li fa'; ben che tu il vieti, e l'altro
Gran duce ancora, io questo corpo in tomba,
Com'è dritto, porrò, non paventando
Le tue minacce. Ei per la donna tua
Non campeggiò qual facendier di guerre,
Ma per quel giuramento, onde sua fede
Legata avea; non già per te; chè nulla
Esso i nulli estimava. Or ben, qui torna
Pur con molti seguaci e con lo stesso
Sommo imperante. Io de' scalpori tuoi,
Mentre sei quel che sei, punto non curo.
CORO.
Tal favella io non amo in sorte avversa.
Giustissimi pur anco, i duri detti
Mordono sempre.
MENELAO.
Il sagittier non mostra
Umil senso di sè.(47)
TEUCRO.
Poi ch'arte vile
Non è la mia.
MENELAO.
Qual meneresti orgoglio,
Se tu scudo portassi!
TEUCRO.
Anco se inerme,
Contra te cinto di tutt'arme io basto.
MENELAO.
Che superbo ardimento ha la tua lingua!
TEUCRO.
In causa giusta alto sentir s'addice.
MENELAO.
Giusto sarà ch'abbia da me favore
L'uccisor mio?
TEUCRO.
L'uccisor tuo? Gran cosa
Dici in ver, s'ei t'uccise, e ancor tu vivi.
MENELAO.
Morto ei mi volle; un dio m'ha salvo.
TEUCRO.
Or dunque
Non far, salvo da' numi, a' numi oltraggio.
MENELAO.
Ch'io mai gli dei sprezzar potessi?
TEUCRO.
Il fai,
Se non concedi a sepellir gli estinti.
MENELAO.
Non gl'inimici miei: ciò non conviene.
TEUCRO.
Forse che a te fu mai nimico Ajace?
MENELAO.
Odio ei rendea per odio, e ben t'è noto.
TEUCRO.
Poi che i suffragi a lui furasti.
MENELAO.
Avvenne
Che per, fatto de' giudici, non mio,
Perdente ei fu.
TEUCRO.
Tu se' pur destro assai
A tessere d'ascoso inique frodi.
MENELAO.
Un siffatto parlar certo a qualcuno
Dolor darà.
TEUCRO.
Non più di quel che ad altri
Daremo noi.
MENELAO.
Ciò sol ti dico in somma
Tomba quest'uomo aver non dee.
TEUCRO.
Ciò solo
N'udrai tu di rincontro: egli avrà tomba.
MENELAO.
Io già vidi un di lingua ardito e bravo,
Che il nochiero compulse a sciorre il legno
Sotto torbido ciel; ma in lui più voce
Non trovavi di poi quando fu côlto
Dalla tempesta, e dentro al pallio ascoso,
Sotto i piè si mettea d'ognun che voglia
Di conculcarlo avesse. Or similmente
Da poca nube scoppiando un gran turbine,
Te insieme, e di tua bocca invereconda
Ammorzerà le fragorose grida.
TEUCRO.
Ed io vidi uno stolto, un mentecatto,
Altri insultar nella sventura; ed uomo
Che d'aspetto e di sensi era a me pari,
Gli disse: O tu, non mal trattar gli estinti;
Sappi, se il fai, ti costerà dolore.
Così quel tristo egli ammonía. Quel tristo
Io 'l veggo ancora, e non è desso, parmi,
Altri che tu. - Forse che oscuro io parlo?
MENELAO.
Io di qua mi ritraggo. È turpe cosa
A risaper che di parole attenda
Contrasto a far chi vincer può di forze.
TEUCRO.
Va'. Più turpe è per me di stolid'uomo
Starmi ad udir le petulanti ciance. (Menelao parte)
CORO.
Gran lite al certo or seguirà. - Su via,
Teucro, il più ratto che per te si possa,
Va' una cava ampia fossa
A procacciar, che sia
A lui sepolcro, e in avvenir perenne
Monumento alle genti ognor solenne.

TECMESSA col figliuolo, TEUCRO e CORO.

TEUCRO.
Ecco venirne a un tempo stesso il figlio
E la moglie di lui presti a dar mano
Meco all'opra funèbre. - Or qua, fanciullo,
Vieni, e supplice tocca il padre tuo,
Lui che te generò: siedigli a canto,
In man tenendo un supplice tributo
De' miei capelli, e di cotesta donna,
E di quei di te pure. E se taluno
Dell'esercito acheo strapparti a forza
Vorrà da questo estinto, infamemente
Fuor della patria sua giacia l'infame
Insepolto, e sia tutta la sua stirpe
Rasa dalla radice, com'io rado
Questo mio crine. - Eccolo, o figlio, il serba;
Nè ti rimuova alcun dal morto corpo:
Tienti fermo sovr'esso. - E voi non siate
Donne, d'uomini in vece, e gli assistete
Mentre io son lungi ad apprestar la tomba
Al fratel mio, s'anco ciascun me 'l vieta.

TECMESSA col figliuolo presso al corpo di Ajace
e CORO su 'l dinanzi della scena.

Strofe I.

CORO.
Quando sarà, qual l'ultimo
Di sì lungo sarà novero d'anni,
Che incessante m'adducono
Di marzïali affanni
Vicenda ognor molesta
Appo le mura Ilïache,
Onta agli Elleni infesta?

Antistrofe I.


Oh pria nel profondo äere
Dileguato si fosse, o dentro a Dite,
Chi l'uso a' Greci apprendere
Fe' dell'armi aborrite!
Ahi fonte rea di mali!
Colui, colui fu esizio
De' miseri mortali.

Strofe II.


Non più per lui di floride
Ghirlande io m'incorono,
Nè cupi nappi, ahi lasso me! vuotar,
Nè delle dolci tibie
Goder m'è dato il suono,
Nè gioconda gustar
Notturna gioja.
Da' delitti amorosi, ohimè! qua in bando,
Fuor delle amiche menti,
Sempre sto il crin bagnando
Alle rugiade algenti,
Infelici memorie a me di Troja.

Antistrofe II.


Da tenebrose insidie
Già il bellicoso Ajace,
E dall'arte difesa ognor mi fu;
Or da nimico démone
Poi che prosteso giace,
Qual per me, qual v'è più
Senso di bene?
Deh là passando ove selvoso sorge,
E dentro il mar dal lido
Il Sunio alto si porge,
Deh ch'io con fausto grido
Salutar possa la divina Atene!(48)

TEUCRO, CORO, TECMESSA col figliuolo
e poi AGAMENNONE.

TEUCRO.
Ratto io ritorno, Agamennón qua visto
Spinger celeri i passi; e certo a sciorre
Dalle labra verrà sinistri accenti.
AGAMEN.
Tu contra noi, tu impunemente osasti
Sì atroci detti schiamazzar? tu, dico,
Nato di schiava?(49) Oh se d'ingenua madre
Fossi tu, quali altissime parole
Tonar faresti, e come eretto andarne
Ti vedremmo per via, quand'uom da nulla
Per tal ch'è nulla, ti dibatti, e giuri
Dell'oste noi, nè del naviglio acheo,
Nè di te duci esser venuti a Troja.
Signor di sè, come tu vanti, Ajace
Qua navigava. E ciò da servi udire
Non è grand'onta? E di chi poi proclami
Sì gran cose? Ove quegli o venne o stette,
Che non pur io? Non han gli Argivi, altr'uomo
Non han che questo? Un mal consiglio il nostro
Fu in ver, di porre a guiderdon di merto
L'armi d'Achille fra gli Achei se ingiusti
Parer n'è forza in qual sia modo a Teucro;
Nè vi piace, perdenti, alla sentenza
Acquetarvi de' più, ma ognor, per ira
Dell'avverso giudizio, o ne ferite
D'aperti oltraggi o con insidie occulte.
Mai di leggi, a tal modo, ordine alcuno
Star non potrà, se trabalziam di seggio
Chi a ragion vinse, e sospingiamo inanzi
Quei che addietro restâr. Tanta licenza
Vuolsi impedir Non prevalente è l'uomo
Per gran persona e late spalle: i saggi
Soli vincono in tutto Ha vasta mole
Di membra il bove, e camminar diritto
Lo fa picciola verga; e tal pur veggo
Rimedio a te venir se a buon avviso
Non t'addurrai; tu che per uom ch'è nulla
Più ch'ombra ormai, sfrenar dal labro ardisci
Villani oltraggi. Or non farai tu senno?
Perchè, pensando il nascer tuo, qualch'altro
Liber'uomo qui a noi non appresenti,
Che tua ragion per te ne dica? Indarno
A tue parole io porgerei l'orecchio
La tua barbara lingua io non intendo.
CORO.
Deh saggia moderanza in mente fosse
D'ambo voi due! Nulla ho di meglio a dirvi.
TEUCRO.
Oh come tosto per chi muor dileguasi
Gratiitudin ne' vivi, e sconoscenza
Sottentrar vi si vede! Ecco, or costui
Più non serba di te memoria alcuna,
Di te, Ajace, di te che incontro a morte
Tante volte per lui l'anima hai posta!
Ecco perduto, ecco gittato indarno
Ogni tuo beneficio. - O tu, che tante
Insensate parole or or dicevi,
Non ti ricorda più quando voi tutti
Vôlti in fuga e rinchiusi entro del vallo,
Egli sol vi salvò, mentre la fiamma
Già gli aplustri alle navi e i banchi ardea,
E il fosso già sopravarcato, Ettorre
Su' navigli balzava? Chi riparo
Vi fe'? Non forse quest'uom cui tu dici
Mai non venuto a marzïal cimento?
Ciò non fe' veramente? E quando ei stette
Sol contr'Ettore sol, non commandato,
Ma sortendo le sorti, e con le altrui
Non mescendo la sua composta ad arte
Di molle limo che piombasse al fondo,(50)
Ma tal che lieve dal crinito elmetto
Fuor balzasse la prima? Ei pur fe' questo;
E presente anch'io v'era, io servo, io figlio
D'una barbara madre. Oh sciagurato!
E con qual fronte osi di ciò tacciarmi?
Ma che? Non sai che del tuo padre il padre
Pelope fu, barbaro Frigio? e l'empio
Tuo genitor, lo scellerato Atreo,
Non sai che al fratel suo diè cena orrenda
De' figliuoli di lui? Nato tu stesso
Sei di donna cretense, cui sorpresa
Con adultero drudo, il padre tuo
Esca gittarla a' muti pesci impose.(51)
Tal tu nascendo, il nascimento mio
Rinfacci a me che Telamone ho padre,
Telamon che dell'oste i più prestanti
Premii ottenne pugnando, ed ebbe a sposa
La madre mia, nata regina, e figlia
Del re Läomedonte, eletto dono,
Onde il gran figlio l'onorò d'Alcmena.
E di due tanto illustri io nobil prole
Sfregio far posso a' consanguinei miei,
Cui tu, percossi da sì rea sventura,
Dalla tomba respingi? E non vergogni
Pur ciò dicendo? Or se quest'uom (ben sappi)
Gitterete insepolto, in un con esso
Ne gitterete anco noi tre. Morire,
Contendendo per esso, onor solenne
Mi fa ben più che non morir per quella
Tua donna, o donna del fratello tuo.
Però più bada a te che a me. Se offesa
Tu recarmi ardirai, stato esser meco
Anzi codardo bramerai, che ardito.

ULISSE, TEUCRO, AGAMENNONE, TECMESSA col figliuolo
e CORO.

CORO.
Sire Ulisse, opportuno or qui tu vieni,
Se già non vieni a rinfocar la lite,
A disciorla bensì.
ULISSE.
Che fia? Da lunge
Udii gli Atridi alto gridar su questo
Uom prode estinto.
AGAMEN.
E non udimmo noi
Dirne costui turpissime parole?<
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