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Opere pubblicate: 19994
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OSPITALARIO: Dunque nullo vorrà fatigare, mentre aspetta che l’altro fatichi,
come Aristotile dice contra Platone. GENOVESE: Io non so disputare, ma ti dico c’hanno tanto amore alla patria loro, che è una cosa stupenda, più che si dice delli Romani, quanto son più spropriati. E credo che li preti e monaci nostri, se non avessero li parenti e li amici, o l’ambizione di crescere più a dignità, sariano più spropriati e santi e caritativi con tutti. OSPITALARIO: Dunque là non ci è amicizia, poiché non si fan piacere l’un l’altro. GENOVESE: Anzi grandissima: perché è bello a vedere, che tra loro non ponno donarsi cosa alcuna, perché tutto hanno del commune; e molto guardano gli offiziali che nullo abbia più che merita. Però quanto è bisogno tutti l’hanno. E l’amico si conosce tra loro nelle guerre, nell’infirmità, nelle scienze, dove s’aiutano e s’insegnano l’un l’altro. E tutti li gioveni s’appellan frati, e quei che son quindici anni più di loro, padri, e quindici meno, figli. E poi vi stanno l’offiziali a tutte cose attenti, che nullo possa all’altro far torto nella fratellanza. OSPITALARIO: E come? GENOVESE: Di quante virtù noi abbiamo, essi hanno l’offiziale: ci è uno che si chiama Liberalità, uno Magnanimità, uno Castità, uno Fortezza, uno Giustizia criminale o civile, un Solerzia, un Verità, Beneficenza, Gratitudine, Misericordia, ecc.; e a ciascuno di questi si elegge quello che da fanciullo nelle scole si conosce inchinato a tal virtù. E però, non sendo tra loro latrocinii, né assassini, né stupri e incesti, adultèri, delli quali noi ci accusiamo, essi si accusano d’ingratitudine, di malignità, quando uno non vuol far piacere onesto, di bugia, che abborriscono più che la peste; e questi rei per pena son privati della mensa commune, o del commerzio delle donne, e d’alcuni onori, finché pare al giudice, per ammendarli. OSPITALARIO: Or dimmi, come fan gli offiziali GENOVESE: Questo non si può dire, se non sai la vita loro. Prima è da sapere che gli uomini e le donne vestono d’un modo atto a guerreggiare, benché le donne hanno la sopravesta fin sotto al ginocchio e l’uomini sopra, e s’allevan tutti in tutte l’arti. Dopo li tre anni li fanciulli imparano la lingua e l’alfabeto nelle mura, caminando in quattro schiere; e quattro vecchi li guardano e insegnano, e poi li fan giocare e correre, per rinforzarli, e sempre scalzi e scapigli, fin alli sette anni, e li conducono nell’officine dell’arti, cositori, pittori, orefici, ecc.; e mirano l’inclinazione. Dopo li sette anni vanno alle lezioni delle scienze naturali, tutti; ché son quattro lettori della medesima lezione, e in quattro ore tutte quattro squadre si spediscono: perché, mentre gli altri si esercitano il corpo, o fan li publici servizi, gli altri stanno alla lezione. Poi alli dieci tutti si mettono alle matematiche, medicine e altre scienze, e ci è continua disputa tra di loro e concorrenza; e quelli poi diventano offiziali di quella scienza, dove miglior profitto fanno, o di quell’arte meccanica, perché ognuna ha il suo capo. E in campagna, nei lavori e nella pastura delle bestie pur vanno ad imparare; e quello è tenuto di più gran nobiltà, che più arti impara, e meglio le fa. Onde si ridono di noi che gli artefici appellamo ignobili, e diciamo nobili quelli che null’arte imparano e stanno oziosi e tengono in ozio e lascivia tanti servitori con roina della republica. Gli offiziali poi s’eleggono da quelli quattro capi e dalli mastri di quell’arte, li quali molto bene sanno chi è più atto a quell’arte o virtù, in cui ha da reggere, e si propongono in consiglio, e ognuno oppone quel che sa di loro. Però non può essere Sole se non quello che sa tutte l’istorie delle genti e riti e sacrifizi e republiche e inventori di leggi e arti. Poi bisogna che sappia tutte l’arti meccaniche, perché ogni due giorni se n’impara una, ma l’uso qui le fa saper tutte, e la pittura. E tutte le scienze ha da sapere, matematiche, fisiche, astrologiche. Delle lingue non si cura, perché ha l’interpreti, che son i grammatici loro. Ma più di tutti bisogna che sia metafisico e teologo, che sappia ben la radice e prova d’ogn’arte e scienza, e le similitudini e differenze delle cose, la Necessità, il Fato e l’Armonia del mondo, la Possanza, Sapienza e Amor divino e d’ogni cosa, e li gradi degli enti e corrispondenze loro con le cose celesti, terrestri e marine, e studia molto bene nei profeti e astrologia. Dunque si sa chi ha da esser Sole, e se non passa trentacinque anni, non arriva a tal grado; e questo offizio è perpetuo, mentre non si trova chi sappia più di lui e sia più atto al governo. OSPITALARIO: E chi può saper tanto? Anzi, non può saper governare chi attende alle scienze. GENOVESE: Io dissi a loro questo, e mi risposero: —Più certi semo noi che un tanto letterato sa governare, che voi che sublimate l’ignoranti, pensando che siano atti perché son nati signori o eletti da fazione potente. Ma il nostro Sole, sia pur tristo in governo, non sarà mai crudele, né scelerato, né tiranno un chi tanto sa. Ma sappiate che questo è argomento che può tra voi, dove pensate che sia dotto chi sa più grammatica e logica d’Aristotile o di questo o quello autore; al che ci vol sol memoria servile, onde l’uomo si fa inerte, perché non contempla le cose ma li libri, e s’avvilisce l’anima in quelle cose morte; né sa come Dio regga le cose, e gli usi della natura e delle nazioni. Il che non può avvenire al nostro Sole, perché non può arrivare a tante scienze chi non è scaltro d’ingegno ad ogni cosa, onde è sempre attissimo al governo. Noi pur sappiamo che chi sa una scienza sola, non sa quella né l’altre bene; e che colui che è atto ad una sola, studiata in libro, è inerte e grosso. Ma non così avviene alli pronti d’ingegno e facili ad ogni conoscenza, come è bisogno che sia il Sole. E nella città nostra s’imparano le scienze con facilità tale, come vedi, che più in un anno qui si sa, che in diece o quindici tra voi, e mira in questi fanciulli. Nel che io restai confuso per le ragioni sue e la prova di quelli fanciulli che intendevano la mia lingua; perché d’ogni lingua sempre han d’esser tre che la sappiano. E tra loro non ci è ozio nullo, se non quello che li fa dotti; ché però vanno in campagna a correre, a tirar dardi, sparar archibugi, seguitar fiere, lavorare, conoscer l’erbe, mo una schiera, mo un’altra di loro. Li tre offiziali primi non bisogna che sappino se non quell’arti che all’offizio loro partengono. Onde sanno l’arti communi a tutti, istoricamente imparandole, e poi le proprie, dove più si dà uno che un altro: così il Potestà saperà l’arte cavalieresca, fabricar ogni sorte d’armi, cose di guerra, machine, arte militare, ecc. Ma tutti questi offiziali han d’essere filosofi, di più, e istorici, naturalisti e umanisti. OSPITALARIO: Vorrei che dicessi l’offizi tutti, e li distinguessi; e s’è bisogno l’educazion commune. GENOVESE: Sono prima le stanze communi, dormitori, letti e bisogni; ma ogni sei mesi si distingueno dalli mastri chi ha da dormire in questo girone o in quell’altro, e nella stanza prima o seconda, notate per alfabeto. Poi son l’arti communi agli uomini e donne, le speculative e meccaniche; con questa distinzione, che quelle dove ci va fatica grande e viaggio, le fan gli uomini, come arare, seminare, cogliere i frutti e pascer le pecore; però nell’aia, nella vendemmia, nel formar il cascio e mungere si soleno le donne mandare, e nell’orti vicini alla città per erbe e servizi facili. Universalmente, le arti che si fanno sedendo e stando, per lo più son delle donne, come tessere, cuscire, tagliar i capelli e le barbe, la speziaria, fare tutte sorti di vestimenti; altro che l’arte del ferraro e delle armi. Pur chi è atta a pingere, non se le vieta. La musica è solo delle donne, perché più dilettano, e de’ fanciulli, ma non di trombe e tamburi. Fanno anche le vivande; apparecchiano le mense; ma il servire a tavola è proprio delli gioveni, maschi e femine, finché son di vint’anni. Hanno in ogni girone le pubbliche cucine e le dispense della robba. E ad ogni officio soprastante è un vecchio e una vecchia, che comandano e han potestà di battere o far battere da altri li negligenti e disobedienti, e notano ognuno e ognuna in che esercizio meglio riesce. Tutta la gioventù serve alli vecchi che passano quarant’anni; ma il mastro e maestra han cura la sera, quando vanno a dormire, e la mattina di mandar alli servizi di quelli a chi tocca, uno o due ad ogni stanza, ed essi gioveni si servono tra loro, e chi ricusa, guai a lui! Vi son prime e seconde mense: d’una parte mangiano le donne, dall’altra gli uomini, e stanno come in refettori di frati. Si fa senza strepito, e un sempre legge a tavola, cantando, e spesso l’offiziale parla sopra qualche passo della lezione. E’ una dolce cosa vedersi servire di tanta bella gioventù, in abito succinto, così a tempo, e vedersi a canto tanti amici, frati, figli e madri vivere con tanto rispetto e amore. Si dona a ciascuno, secondo il suo esercizio, piatto di pitanza e minestra, frutti, cascio; e li medici hanno cura di dire alli cochi in quel giorno, qual sorte di vivanda conviene, e quale alli vecchi e quale alli giovani e quale all’ammalati. Gli offiziali hanno miglior parte; questi mandano spesso della loro a tavola a chi più si ha fatto onore la mattina nelle lezioni e dispute di scienze e armi, e questo si stima per grande onore e favore. E nelle feste fanno cantar una musica pur in tavola; e perché tutti metteno mano alli servizi, mai non si trova che manchi cosa alcuna. Son vecchi savi soprastanti a chi cucina e alli refettori, e stimano assai la nettezza nelle strade, nelle stanze e nelli vasi e nelle vestimenta e nella persona. Vesteno dentro camisa bianca di lino, poi un vestito ch’è giubbone e calza insieme, senza pieghe e spaccato per mezzo, dal lato e di sotto, e poi imbottonato. E arriva la calza insino al tallone, a cui si pone un pedale grande come un bolzacchino, e la scarpa sopra. E son ben attillate, che quando si spogliano la sopraveste, si scerneno tutte le fattezze della persona. Si mutano le vesti quattro volte varie, quando il Sole entra in Cancro e Capricorno, Ariete e Libra. E, secondo la complessione e procerità, sta al Medico di distribuirle col Vestiario di ciascun girone. Ed è cosa mirabile che in un punto hanno quante vesti vogliono, grosse, sottili, secondo il tempo. Veston tutti di bianco, e ogni mese si lavan le vesti con sapone, o bucato quelle di tela. Tutte le stanze sottane sono officine, cucine, granari, guardarobbe, dispense, refettori, lavatori; ma si lavano nelle pile delli chiostri. L’acqua si getta per le latrine o per canali che vanno a quelle. Hanno in tutte le piazze delli gironi le lor fontane, che tirano l’acque dal fondo solo con muover un legno, onde esse spicciano per li canali. Vi è acqua sorgente molta e nelle conserve, a cui vanno le piogge per li canali delle case, passando per arenosi acquedotti. Si lavano le persone loro spesso, secondo il maestro e ‘l medico ordina. L’arti si fanno tutte nei chiostri di sotto, e le speculative di sopra, dove sono le pitture, e nel tempio si leggono negli atri di fuora. Son orologi di sole e di squille per tutti i gironi, e banderole per saper i venti.
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