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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
Gentil mia donna, i’ veggio
nel mover de’ vostr’occhi un dolce lume che mi mostra la via ch’al ciel conduce; e per lungo costume dentro là dove sol con amor seggio, quasi visibilmente il cor traluce. Questa è la vista ch’a ben far m’induce, e che mi scorge al glorioso fine; questa sola dal vulgo m’allontana. Né già mai lingua umana contar porìa quel che le due divine luci sentir mi fanno, e quando ’l verno sparge le pruine, e quando poi ringiovenisce l’anno qual era al tempo del mio primo affanno. Io penso: se là suso, onde ’l motor eterno de le stelle degnò mostrar del suo lavoro in terra, son l’altr’opre sì belle, aprasi la pregione, ov’io son chiuso, e che ’l camino a tal vita mi serra. Poi mi rivolgo a la mia usata guerra, ringraziando Natura e ’l dì ch’io nacqui che reservato m’hanno a tanto bene, e lei ch’a tanta spene alzò il mio cor; ché ’n sin allor io giacqui a me noioso e grave, da quel dì inanzi a me medesmo piacqui, empiendo d’un pensier alto e soave quel core ond’hanno i begli occhi la chiave. Né mai stato gioioso Amor o la volubile Fortuna chieder a chi più fôr nel mondo amici ch’’no ’l cangiassi ad una rivolta d’occhi, ond’ogni mio riposo vien come ogni arbor vien da sue radici. Vaghe faville, angeliche, beatrici de la mia vita, ove ’l piacer s’accende, che dolcemente mi consuma e strugge; come sparisce e fugge ogni altro lume dove ’l vostro splende, così de lo mio core, quando tanta dolcezza in lui discende, ogni altra cosa, ogni penser va fòre, e solo ivi con voi rimanse Amore. Quanta dolcezza unquanco fu in cor d’aventurosi amanti, accolta tutta in un loco, a quel ch’i’ sento, è nulla, quando voi alcuna volta soavemente tra ’l bel nero e ’l bianco volgete il lume in cui Amor si trastulla: e credo, da le fasce e da la culla al mio imperfetto, a la Fortuna adversa questo rimedio provedesse il cielo. Torto mi face il velo e la man che sì spesso s’atraversa fra ’l mio sommo diletto e gli occhi, onde dì e notte si rinversa il gran desio per isfogare il petto, che forma tien dal variato aspetto. Perch’io veggio, e mi spiace, che natural mia dote a me non vale né mi fa degno d’un sì caro sguardo, sforzomi d’esser tale qual a l’alta speranza si conface, et al foco gentil ond’io tutto ardo. S’al ben veloce, et al contrario tardo, dispregiator di quanto ’l mondo brama per solicito studio posso farme, porrebbe forse aitarme nel benigno iudicio una tal fama. Certo il fin de’ miei pianti, che non altronde il cor doglioso chiama, vèn da’ begli occhi al fin dolce tremanti ultima speme de’ cortesi amanti. Canzon, l’una sorella è poco inanzi, e l’altra sento in quel medesmo albergo apparecchiarsi; ond’io più carta vergo.
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