| ✔Intervista a Carlo Allegri, che presenta ai lettori il #libro "Summa fragilitatis" (Aletti Editore)
Domanda - Partiamo proprio dal titolo, come mai “SUMMA FRAGILITATIS”? Quali sono gli argomenti ricorrenti o per lei fondamentali dei quali tratta in questo volume?
Carlo Allegri - Il titolo in lingua latina significa l’insieme, il totale, ma anche il punto più alto, il significante della fragilità, naturalmente, umana. Che possiamo senz’altro racchiudere in un labirinto, allegoria potente della vita stessa, a sua volta simbolo di una delle emozioni archetipiche che ci accomunano e che chiamerei incertezza. L’incertezza è un elemento costante nel cammino della vita. Deriva da una ineliminabile insufficienza cognitiva, ci obbliga a scegliere al buio malgrado la ricerca costante di una migliore conoscenza, ci costringe ad un continuo paragone con le scelte e i comportamenti degli altri e comporta la necessità di adeguarsi a modelli forti precostituiti di natura culturale. L’incertezza ha un rapporto profondo col libero arbitrio e con la responsabilità di decisioni obbligatorie anche se mai pienamente consapevoli. Tutta la filosofia esistenzialista è basata sulla possibilità che l’uomo ha comunque di esercitare un’opzione e di doverne trasportare il peso per quanto sconoscente e dubbioso egli sia.
L’incertezza, come ogni altra emozione, è di natura relazionale, vale a dire dipende dal rapporto con l’oggetto e con l’altro. Più precisamente dalla domanda di come il nostro rapporto con l’oggetto o con l’altro possa influire sul nostro destino, vale a dire sulla nostra morte. Se introiettiamo la dimensione labirintica, ci troviamo ben presto costretti ad ammettere che non esistono soluzioni definitive a nessun problema, ma solo soluzioni contingenti e locali. Tutto quello che possiamo fare è ampliare l’area della nostra propria località per includervi più cose, allargare il nostro orizzonte, cercare di vedere più lontano. Dobbiamo rinunciare ad ogni principio forte di razionalità assoluta (al massimo usarlo come ipotesi) in favore di un debole principio di ragionevolezza e assumerci la responsabilità di ogni scelta alla luce delle sue conseguenze.
Ogni uomo è un intero labirinto e un punto di incrocio dentro un labirinto. Assorbe, subisce, elabora, trasmette, agisce. Non sapendo, ognuna di queste azioni testimonia la sua fragilità. L’incertezza è una delle sorgenti principali di ogni comportamento emotivo e, arriverei a dire, di ogni giudizio morale.
Domanda - Quanto la realtà ha inciso nella scrittura?
Carlo Allegri - Mi ha spesso incuriosito il rapporto tra letteratura e vita e sono arrivato presto alla conclusione che indagare sui particolari autobiografici di uno scrittore per arrivare a capirne l’opera è in genere un errore sostanziale. Gli scrittori usano il materiale della propria vita (cioè la somma delle proprie esperienze e i pensieri sui pensieri) come mezzo, l’unico che hanno a disposizione. Nei grandi scrittori questo materiale è costantemente trasfigurato, spezzettato e ricomposto per altri fini. Quindi, in un certo senso, è vero che un narratore esprime la sua verità attraverso l’arte della menzogna. Uno scrittore non è un filosofo e non è uno scienziato: nessuno si sognerebbe di chiedere ad uno scrittore la dimostrazione logica o matematica di quanto va affermando. Uno scrittore (che non è uno che scrive per insegnare, è un cantastorie) vive all’interno di una perenne contingenza che anche quando è oggettiva viene filtrata dalle sue pupille. A volte una spiccata sensibilità o una coincidenza storica permettono ad uno scrittore di cogliere verità assolute (cioè condivisibili per parecchi decenni all’interno di un più o meno vasto gruppo di umani dotati, nella fattispecie, di una comune identità culturale).
Si può credere che un tal fine non sia precisamente alla base di quello che uno scrittore vuol dire quando stende in chiare lettere una delle sue invenzioni. Ripeto: per qualsiasi scrittore la verità è una semplice percezione, la sua, talmente forte che egli non può fare a meno di raccontarla e diffonderne i memi.
Come per qualsiasi altro artista, la capacità tecnica di dare ad un contenuto la forma voluta, non casuale, di legare insieme forma e contenuto in una unità “emozionante” fa la qualità di uno scrittore, e pone la scrittura tra le arti maggiori. Solo la scrittura del resto rende così stretto il connubio tra due menti e rende la fruizione dell’opera un processo molto attivo, per cui la lettura di un’opera è un’indagine sul sé non meno che sull’autore, è un viaggio in compagnia e uno specchio con cui confrontarsi. Questo, sul significato della letteratura, è un tema che mi è molto caro; è uno dei fili conduttori dell’ultimo libro che ho pubblicato: “I tre libri di Florencia” , ma è stato oggetto di riflessione innumerevoli volte. (Mi vengono in mente “On writing” di Stephen King e “Cara scrittura” di Dacia Maraini.) È noto e di comune esperienza che l’attrazione per quello che si legge dipende moltissimo da quanto vi troviamo di appartenente anche a noi. Un po’ come il famoso detto: la lingua batte dove il dente duole.
È impossibile per chiunque, quando si mette a scrivere, come quando fa qualsiasi altra cosa, prescindere dal proprio io. L’io è in un artista il filtro attraverso cui passa quella parte del mondo che egli intende rappresentare. Con questa frase abbiamo stabilito due principi. Primo, l’arte è rappresentazione. Non credo che se ne possa dare una definizione migliore, né più sintetica, né più vicina alla verità. Gli esempi non sono esempi, sono parte di una totalità. È un percorso (questo mimetico rappresentativo) che accompagna l’intera storia dell’umanità, ramificato e intricato come una rete neuronale, che dalle grotte come quella di Altamira, con i dipinti del paleolitico superiore, conduce ovunque: alla Commedia, alle Stanze di Raffaello, al Don Chisciotte, all’Amleto, a Moby Dick, a Guernica. Secondo: la mimesi, cioè la rappresentazione di un atto (o evento) in primis a se stessi, è uno dei meccanismi fondamentali della conoscenza e anche della presa di coscienza del sé come distinto dall’altro. Una delle principali scoperte delle neuroscienze in questi ultimi anni è stata quella dei neuroni specchio, (tra parentesi italiana, merito del gruppo dell’università di Pavia diretto dal prof. Rizzolati). Si tratta di neuroni specifici coinvolti in numerosi meccanismi mentali anche animali, come quelli di facilitazione, imitazione, empatia, e rappresentazione: cioè, alla fine, anche dell’arte e nello specifico della cosiddetta scrittura creativa.
Ma se nessuno scrittore può prescindere dal proprio io, il quale decodifica con un’impronta digitale irripetibile ogni informazione ricevuta dalla realtà; se l’io e il mondo costituiscono nella rappresentazione artistica una unità duale, bisogna tuttavia stare molto attenti, quando si mette il proprio sé al centro dell’attenzione e lo si esamina come un oggetto esterno. In una operazione del genere l’onestà intellettuale richiede una freddezza di giudizio e una ferocia di penetrazione molto difficile da realizzare. Potremmo fare il gioco di elencare le opere dove ciò si è compiuto, a cominciare dalle confessioni di S. Agostino. Sono convinto che faremmo poca strada. In linea generale, nelle confessioni dei più, il desiderio di apparire e una tenerezza auto assolutoria tendono a riempire le pagine, mentre le proprie psichiche malefatte vengono depurate degli aspetti più crudi, e ammorbidite dalle attenuanti. Le pulsioni che etichettiamo come negative non le priviamo di qualche aspetto di nobiltà, e si tende a presentarle come incontrastabili. Diffido sempre delle autobiografie. Per fortuna la maggior parte della letteratura di tipo diaristico non tiene il sé in nessuna considerazione e si limita alla cronaca, raggiungendo spesso se non l’immortalità, la persistenza, dal Milione di Marco Polo al Diario di Anna Frank, a Come io vedo il mondo, di Albert Einstein.
Domanda - La scrittura come valore testimoniale, cosa ha voluto salvare e custodire dall’oblio del tempo con questo suo libro?
Carlo Allegri - Ogni ragionamento viene svolto in un desiderio, in una istanza di verità ma, paradossalmente, non è questo che si propone. L’atto del ragionar illude il ragionante sulla definizione di verità, altrimenti bisognerebbe pensare che la storia del pensiero umano abbia condotto a qualche conclusione definitiva. Purtroppo non è così, al di là degli storici progressi tecnologici e delle diverse forme di interazione sociale che hanno sostituito valori con altri, costumi con altri, e che al massimo hanno procurato qualche beneficio in un accresciuto riconoscimento del principio “dignità umana”. (Certamente solo in linea di principio, dato che nella pratica comunicativa sembra allignare una forma di manipolazione diffusa quanto ipocritamente travestita, tesa ad ottenere utili maggiori sfruttando a proprio vantaggio il livello generale di informazione e la sensazione di autonomia). I ragionamenti cercano semplicemente di misurare una delle tante dimensioni di una verità che nella sua interezza rimane nascosta, e lo fanno mescolando la manifestazione dell’io a un bisogno coercitivo di coerenza logica e dialettica. Esse entrambe risentono dell’esperienza percettibile del mondo ed esprimono due bisogni insopprimibili : per l’io di manifestare se stesso, per il suo mondo di essere completo e coerente. Quando venga meno la certezza di una dimostrazione, ci si convince di una credenza, tappando in questo modo i buchi nella rete. L’io soprattutto si rappresenta in ciò che è convinto di essere, quasi sempre in un voler essere. Certamente una conoscenza scientifica lo è: la scienza è la nostra intelligente protesi sensoriale e ci avvantaggia progressivamente nell’indagine di quanto è sensibile (materia sensibile) nell’altro da sé. Ma non copre tutta la rete: laddove risulta carente ecco emergere la messinscena dell’Io (essere è manifestarsi) precisamente in questo: che l’io si esibisce solo davanti ad altre soggettività e in particolar modo a quelle che desidera corteggiare o a cui inconsciamente crede di dover render conto (quelle che da sempre io chiamo i lettori segreti) e per sentirsi accettato (ammirato, assolto, desiderato) deve sfoggiare coerenza (che in ultima analisi sembra una qualità non tanto razionale quanto estetica).
Domanda - A conclusione di questa esperienza formativa che ha partorito “SUMMA FRAGILITATIS”, se dovesse isolare degli episodi che ricorda con particolare favore come li descriverebbe?
Carlo Allegri - Forse la parola favore non esprime bene lo spirito dell’esperienza che ho cercato di descrivere nel libro. Gli episodi non sono mai episodi, sono istantanee ricombinate dalla memoria e dal giudizio. Le più forti le definirei emotivamente strazianti.
Domanda - Quali sono le sue fonti di ispirazione: altri autori che ritiene fondamentali nella sua formazione culturale e sentimentale?
Carlo Allegri - Sono legione: purtroppo io sono figlio di un rimasuglio, quel po’ che resta, sedimentato, di tutte le mie dimenticanze. Ma nel caso specifico di questa opera pop (è stata la mia seconda opzione per il titolo, scartata) vorrei far riferimento soltanto all’Ariosto e all’Orlando Furioso, perché ne riconosco il luogo in cui mi aggiro e che ho cercato di rendere comprensibile a tutti, descrivendo (spero con passione, ma senza spocchia) il groviglio di sentimenti che ci accomuna.
É un libro in cui la selva è lo spazio nel quale si svolge quasi tutta la storia. Non è la selva oscura dell’incipit dantesco, ma è misteriosa e la percorrono sentieri che si intrecciano senza saper dove portano. La selva dell’Orlando Furioso è un prototipo. Il labirinto reticolare per eccellenza, dove ogni punto è centro della sua occasione e nodo connesso ad ogni altro ma in maniera affatto casuale, impremeditabile.
Perfino il labirinto in sé, la selva labirintica, è creazione, credo non immaginata né immaginabile nei paragoni che oggi le appioppiamo di garbuglio infinito in uno spazio chiuso, casbah del fortuito, sorgente di ogni imprevedibilità. Sono convinto che il gioco fantastico dell’Ariosto senza intenzione abbia generato questo luogo perfetto, sconfinato e concluso, senza vie d’ingresso, senza sfuggite, un’isola in cui aggirarsi con idee fisse o obbiettivi contingenti, vivendo sempre situazioni nuove senza mai capire davvero il bordo ineludibile di scogliere e falesie battute dai marosi.
Dicono i critici che la selva ariostea sia più di un proscenio, sia una metafora della nostra vita nella quale ci muoviamo alla ricerca, mentre ogni curva cambia la prospettiva, lo scenario e insomma le carte in tavola.
Ma ogni idea è la traslazione di un modello, e i frutti della nostra esistenza li cogliamo in un paragone. Perciò non esiste leggenda o canzone in cui la qualità dell’oggetto non sia descritta per misura d’altro ed ogni umano termine sia specchio di un diverso sembiante. Nella selva io ci vedo piuttosto il modo in cui la mente insegue il desiderio e si adatta alle casualità, formalizza questioni e risolve problemi. Quindi metafora della mente, mappa neuronale incognita. L’opera fantastica è la formalizzazione in divenire di un desiderio non catalogato, enorme quanto confuso, immanente quanto profondo. Allo stesso modo del sogno vuole, desidera e cambia faccia e ruolo a tutto quello che incontra o produce.
Luogo dell'avventura e dell'imprevisto, la selva in qualche modo passa a rappresentare l'intrico in cui si aggira ciascuno di noi nella sua vita e tutte le avventure e i personaggi in cui casualmente si imbatte. Non sempre si tratta di un luogo spaventoso e selvaggio: nell'Orlando Furioso spesso si sottolinea la bellezza di questo paesaggio e il bosco impenetrabile si apre in radure fiorite o si ferma alle sponde di un piacevole ruscello, dove la natura ci rivela il suo lato benevolo e materno.
La selva è dunque il luogo in cui il movimento dei personaggi, alla vana ricerca dell'oggetto che desiderano, si svolge in modo tale da tornare molte volte su se stesso attraverso una serie di ritornanti sentieri. E' un movimento circolare, senza una vera meta, guidato dal capriccio della fortuna, vera padrona del destino umano, contrariamente a quanto accade nella Divina Commedia, che presuppone un moto verticale dal basso all'alto, quindi un miglioramento morale ricercato dal protagonista.
Il tema della selva e quello della ricerca sono strettamente connessi: la nostra vita è intricata come una foresta e in questa foresta noi cerchiamo vanamente gli oggetti dei nostri desideri, spesso poco realistici. Essi ci sfuggono sempre mentre, paradossalmente, li ottengono coloro che non li stavano cercando, come accade a Medoro con Angelica. Lo stesso accade nel castello del mago Atlante, dove i paladini si aggirano senza pace, trattenuti non tanto dall'incantesimo quanto dalla follia delle loro illusioni.
Attraverso l'immagine del castello, i temi della selva e della ricerca si trasformano progressivamente in quello del labirinto, al centro del quale esiste un luogo privilegiato, un tesoro in attesa o un mostro in agguato, che non sempre i protagonisti riescono a raggiungere, così come nella vita reale non sempre noi realizziamo i nostri progetti o siamo in grado di "afferrare saldamente" qualche risultato.
Che lo spazio progettato da Ariosto fosse in realtà una mappa dell’io alla ricerca di impossibili identificazioni, un gioco consolatorio dell’insoddisfazione, era questione presente al poeta? Nessun critico si è mai avvicinato ad un punto di vista talmente soggettivo da renderne possibile un esame. Ma se accettiamo l’idea del labirinto come simbolo, dobbiamo ammettere almeno la possibilità di una sua partecipazione ad un inconscio collettivo. Che rimane quindi comune, al di là della storia e della consapevolezza analitica, nella sua significanza archetipica. L’arte, e a maggior ragione l’arte letteraria, racchiude sostanza di verità in forma di menzogna. L’io scrivente è sempre autore, narratore e personaggio. A tale contemporaneità sfalsata di ruoli va ricondotto il gioco di specchi e quanto di inconoscibile il labirinto letterario racchiude al suo interno. Lo sapeva bene Fernando Pessoa:
“Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che sente veramente.
Domanda - Ci sono altre discipline artistiche, o artisti, che hanno in qualche modo influenzato la sua scrittura?
Carlo Allegri - Questa domanda ricalca in parte la precedente. Io sono stato influenzato da tutto ciò con cui sono entrato in contatto. Ci sarebbe da fare un lungo discorso sulla indissolubilità e insieme diversità delle due qualità di intelligenza che si manifestano nella nostra mente: l’intelligenza emotiva e quella analogica. Ma dirò soltanto che un elemento semantico come un aggettivo è un’informazione analogica trasmessa ad altri, non sull’oggetto in sè ma sull’emozione che quell’oggetto ha scatenato sul soggetto (parlante o scrivente). In senso estetico l’idea di bello non connota l’oggetto, ma il soggetto in relazione all’oggetto: è dunque un’emozione. In questo l’oggetto artistico non è diverso da tutte le altre impressioni che subiamo dal mondo: dai paesaggi o spettacoli della natura, da tutte le relazioni umane emotivamente coinvolgenti e dagli eventi che attraversano la nostra vita. Pur limitandosi alle discipline artistiche e non tutte, l’elenco è pressappoco infinito e la graduatoria impossibile. Come si fa a selezionare (anche soltanto per se stessi) Giorgione, Mantegna, Raffaello, Goya, Van Gogh, Modigliani, Burri , Banski eccetera eccetera? E come Bach, Mozart, Beethoven, Stravinsky, Gershwin, Charlie Parker, Duke Ellington, i Pink Floyd, i Beatles, Fabrizio De Andrè eccetera eccetera?
Domanda - Oltre a quello trattato nel suo libro, quali altri generi letterari predilige?
Carlo Allegri - Non so se il mio libro appartiene davvero ad un genere letterario. Infatti nel sottotitolo è definito parapoesia (cioè prossimo, ma non proprio poesia). Uno stile (più che un genere) che può essere visto con un pregiudizio fortemente negativo. Claudio Giunta in “Come non scrivere” ne postula una stroncatura a priori, decisamente ante litteram. Egli scrive: “Immaginiamo di dover dire che si leggono sempre più spesso brutte poesie scritte da chi sembra credere che far poesia sia semplicemente andare a capo ogni sette o otto parole … Molti scrittori, in passato, hanno lavorato alla liberazione della forma poetica; oggi sembra però che molti lavorino alla liberazione dalla forma poetica.” E Claudio Giunta è certamente “un uomo d’onore”. A mia difesa posso apportare quanto di voluto appositamente ci sia nelle spezzature del ritmo, nell’interruzione dissonante di un tema musicale magari appena accennato, nella riduzione di un canto a cantilena, nella banalizzazione perfino volgare del linguaggio. È sufficiente ad acquisire un’anima pop, immediatamente trasmissibile?
In ogni caso non ho generi letterari preferiti. Leggo e ho letto un po’ di tutto: poesia, narrativa, saggistica. Letteratura antica e moderna. Filosofia e scienza. Peccato che non mi ricordo quasi niente e non sono esperto di niente.
Domanda - Preferisce il libro tradizionale cartaceo o quello digitale?
Carlo Allegri - Non ho il minimo tentennamento. Il libro cartaceo taglia il traguardo con diverse lunghezze di vantaggio sull’altro. Umberto Eco, molti anni fa, ne fece da par suo una difesa appassionata e lucida in una delle sue famosissime “Bustine di Minerva”. Il libro cartaceo, stampato, è un oggetto d’amore e una protesi meccanica della nostra mente, ruolo che non riesce ad essere pienamente espletato dalla trascrizione digitale, benché entrambi forniti di identico linguaggio. E, volendo, lo si può prestare o donare. Ma nel digitale una indubbia convenienza c’è: da quando possiedo un e-book, quando parto per un viaggio posso non risparmiare sul numero di mutande e smettere di trascinarmi un trolley pesantissimo, inzeppato di libri, con l’ansia che non siano sufficienti al periodo. Apprezzo anche l’istantaneità dell’acquisto di un libro in formato elettronico..
Domanda - Per terminare, qual è stato il suo rapporto con la scrittura, durante la composizione del libro?
Carlo Allegri - Prima ancora che scrivere, leggere è un’attività strana, della quale non credo siano in molti a rendersi conto. È una danza di fronte ad uno specchio, che riflette contemporaneamente lettore e scrittore. Se non c’è niente di comune nelle due persone, leggere non serve perché lo specchio non riflette immagini, resta spento e opaco: niente movimento, nessun cambiamento. In caso contrario la lettura rappresenta uno dei pochissimi casi in cui si può dubitare di quell’aforisma filosofico secondo il quale una soggettività non ne può conoscere un’altra. Leggere è una relazione ed è resa efficace dal fatto che l’autore non può mentire, nel senso che l’insincerità traspare dalla parola scritta molto più che da quella pronunciata e dal suo corredo corporeo. Questo è uno dei motivi per cui la letteratura è considerata un’arte maggiore. Si cambia mentre si scrive perché comunque lo si fa di fronte ad un lettore segreto che ci osserva, ci giudica, interloquisce e ci domanda i motivi. Con cui, scrivendo, ci confrontiamo. E si cambia mentre si legge perché si diventa partecipi di questo confronto (il lettore segreto di chi scrive non lo è altrettanto per chi legge). Lo scrittore si presenta al lettore nelle sue forme diverse e coesistenti: l’essere, il voler essere e il desiderio di essere visti nella veste in cui ci si compiace.
Domanda - Un motivo per cui lei comprerebbe “SUMMA FRAGILITATIS”, se non lo avesse scritto.
Carlo Allegri - Lo stesso con cui compro tutti i libri: curiosità, desiderio di conoscere, desiderio di intraprendere una nuova relazione, desiderio di trovare una risposta mancante. L’uomo non riesce a credere che quanto pensa, dice o fa possa essere invano.
Domanda - Ha in progetto altre opere da scrivere nel prossimo futuro? In caso affermativo, può darcene una anticipazione?
Carlo Allegri - Sì, ho alcuni progetti che, come le mie letture, porto avanti contemporaneamente. Non ho in mente di scrivere altri versi in maniera organica, ma non si sa mai. Oggi mi sento attratto dal teatro ( che è in gran parte dialogo) e da alcune forme di pensiero (e quindi scrittura) più sistematiche. Non vorrei aggiungere altro. Primo: il futuro è nella mente degli dei. Secondo: sbandierare i progetti è un equivalente della danza Haca dei Maori; un po’ ci si autoincoraggia, un po’ si gonfia il pelo per sembrare più grandi e più forti.
"Summa fragilitats" di Carlo Allegri
Editore: Aletti
Collana: Gli emersi poesia
Anno edizione: 2021
In commercio dal: 22 ottobre 2021
Pagine: 196 p., Brossura
EAN: 9788859174196
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