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Prefazione di Milo De Angelis:
Un presente che è solo presente, un presente “senza un filo d’infanzia”, appiattito da una luce bianca. Alcune tra le più belle poesie di Altieri (Oltre, Extrasistole, Allora) sono percorse da questo tema – che si fa incubo, insidia, luogo senza riparo. Il Bianco. Il colore della paura: il bianco dei camici, il bianco asettico delle piastrelle, il bianco “vertigine nel vetro”, quello della carne pallida e quello fosforescente, prima dell’operazione, di una lampada al quarzo. E, fuori, un paesaggio invernale e livido, i cani morti nella neve e quelli che, in agonia, battono i denti.
Ciò che è fecondo sembra appartenere alla sera, all’oscurità pullulante di fiori, ai riflessi marini della luna, a quella “eredità di ombre” sospinta nel fondo di un cuscino. Impenetrabile chiarore contro il quale la voce non può nulla e le frasi si formano altrove: oltre quella “manciata di luce / che annega”, oltre quei “sentieri sbiancati come solchi”. Non può nulla. Si riduce a segmento, mormorio, intermittenza. C’è una voce che domanda e c’è una voce murata nel suo dubbio. Queste due voci sono la stessa. Sono, appunto, la voce di questa poesia, il suo tono inconfondibile. Lontana sia dalla profezia assoluta e impersonale sia dai grumi privati nascosti in un diario o esibiti in un flusso di coscienza. È una voce netta, scandita con esattezza e tuttavia sempre in un bilico estremo, in una sensazione di pericolo, circondata da presagi, avvertimenti. Uno stato di allarme, contorni allontanati e sempre più esigui. Ma proprio in tali lembi, in tale stato d’allerta, esce più veritiera e capace di incidere: offre una nudità troppo inerme e coraggiosa perché ci sia concesso di eluderla.
Raramente come in questa raccolta il buio e la minaccia sono stati
espressi con tanta chiarezza, la ripida complessità con tanta e sancta simplicitas, il delirio e lo sgomento con la freddezza di una cartina militare. E infine la scissione tragica con la orgogliosa coerenza di uno stile.
Tanto più arduo il tentativo, quanto più insanabile è tale scissione.
Non solo tra il chiarore e il nero, tra l’acqua e il deserto, ma tra sé e
sé, tra la parte che dietro il cespuglio scorge la fonte e la parte che
non percepisce la possibilità del movimento. C’è come un sistema
di sbarramenti, di dighe, di argini che impediscono di accedere all’elemento fecondo dell’acqua, una terra piatta dove sono stati realizzati drenaggi e protezioni a regola d’arte per occludere la corrente del desiderio. Lo vediamo in una poesia come Allora. E lo vediamo con nitidezza resa ancora più acuta dal procedimento particolare del testo.
Si tratta dell’immissione di un episodio biografico in un ripensamento fantastico, che ce lo restituisce trasfigurato e, al tempo stesso, più necessario: chi legge ha la percezione – fondamentale in poesia – che non poteva essere taciuto e che non poteva essere detto altrimenti.
Avviene in Allora che un inizio di sospensione metaforica, precipita all’improvviso in un ingrandimento dei dettagli, in una descrizione nominata di un interno d’ospedale, dove il respiro, l’emorragia,
lo spessore del sangue e dell’ossigeno sono lì, a perdita d’occhio e a portata di sguardo. Un doppio movimento dalle cose alle parole; più le guardi da vicino, più loro ti guardano da lontano.

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