| Conosco Francesca d’Errico da lungo tempo, benché il tempo ci abbia allontanate, come spesso fa.
Abbiamo esordito insieme, in poesia, sul finire degli anni Ottanta, e sempre mi ha colpito nei suoi versi il suo rapporto con la natura, in tutte le sue manifestazioni. Dalla prima raccolta – Canto e controcanto (1988, Edizioni del Delfino) – non ho purtroppo seguito con costanza la sua produzione, che ritrovo ora nel nuovo "Bianco antico" (2019, Aletti Editore). E come è gradito rincontrare dopo anni una persona, e riconoscerla nella sua essenza, così oggi respiro nelle poesie di Francesca quello stesso spirito dei campi e dei viottoli, dei boschi e delle rocce, delle luci e dei colori (qui richiamati fin dal titolo, come già in un altro suo libro di cui ho memoria, Lacca d’Alizarina) che già si dichiarava in quella prima pubblicazione.
Subito appare evidente che gli anni e l’esperienza ne hanno asciugato il verso, impegnandola in quel remunerativo lavoro di sottrazione che spesso e utilmente si presenta al poeta come necessità, perché distilla il senso, prima ancora che la parola, a beneficio del vigore immaginifico e della potenza evocativa
dello scritto. La scelta del lessico è sempre accurata e il linguaggio lirico è certamente quello a lei più congeniale.
Ma torniamo al rapporto con la natura: nel caso di Francesca, non è (forse non è più) un rapporto d’incanto e stupore, sentimenti che frapporrebbero tra lei e quelli che chiamerei i concreti misteri del creato una fisiologica – “naturale” – distanza: è piuttosto un rapporto “olistico”, dinamico, che assume in sé la bellezza come gli squilibri di un sistema estremamente complesso e in permanente divenire, appunto la natura, di cui il poeta si sente parte. Una parte sì transitoria e impermanente, ma a cui non manca la forte soggettività dello sguardo, che Francesca rivendica, nella sua scrittura sempre in prima persona,
come l’impronta dell’essere che si imprime sulla carta (ché ancora, diciamolo, ci è caro il supporto cartaceo, in uggia alla dilagante tecnologia) e che si esprime in versi sempre più asciutti e affinati, che non lasciano spazio, neanche fisico, al cedimento.
Ben rappresentano questo suo rapporto con la natura, proprio in apertura della raccolta, i “sentieri di pietrisco” – che l’autrice percorre in cerca della “magica sintassi” che le riveli l’ “anonimo ristoro / emancipato dall’inchiostro”: una pace che si realizzi fuori dal perimetro protetto e artificioso della scrittura – sui quali incede con “illogica andatura”, illogica come del resto la vita stessa, e “gote in
fiamme”, non sappiamo se per eccesso di fatica o calore o emozione. E poi, ancora: “Cammino incontro al sole del mattino / tra tinte tolte dai pastelli a cera. / Il parapetto, in fondo, disegna / all’orizzonte un timido confine / e lascia agli occhi libero lo spazio / da cirri, nembi e cumuli più intensi. / Così mi spiego
il senso della vita / quel misto antico di «perché» / e da «dove» che dipana conti / mentre rinnova attese”.
Nella natura vi è una purezza primigenia, una crudele e prodiga innocenza, ch’è forse proprio il "Bianco antico" del titolo. Una tensione che è vitale e morale al tempo stesso a un ordine generativo – superiore in quanto governa tutto e tutti – che dalla casualità del caos trae, quasi magicamente (illogicamente), le regole dell’equilibrio cosmico, fondato sull’armonia dei limiti e delle possibilità di
tutti gli attori – coinvolti in quanto presenti, concretamente esistenti – in gioco. Ecco perché non si percepisce distanza, nel nostro caso, tra il poeta e la natura, ma un sano distacco filosofico, fatto di osservazione e compenetrazione, che conferisce alle immagini tutte valore di simbolo, più ancora che di metafora: come davanti a un quadro che ci inviti a decifrarne significato e senso oltre il visibile, le poesie di Francesca d’Errico sono “stanze” che si aprono alla nostra esplorazione, giustamente avare di inutili orpelli, mai troppo ampie da non coglierne il fuoco esatto, disseminate di vivide tracce capaci ogni volta
di condurci esattamente là dove il poeta ha deciso, con finestre spalancate su ciò che Francesca ci indica e vuole che vediamo. Come, per esempio, il sole che inonda "La ginestra", il componimento che chiude la raccolta: “Vorrei danzare / con i rami / di ginestra / piegati / al vento tiepido / che spira / sulle pendici /
tinte dell’estate”. E quale, tra le arti, ha il rapporto più antico e primigenio con la natura se non la danza?
Silvia Tessitore, direttore editoriale Editrice Zona
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