| Articolo - del 17 febbraio 2019 - di Luigi Fontanella sulla poesia campana, uscito a tutta pagina su "America oggi" - la maggiore rivista in lingua italiana d'America -, in cui per buona parte si parla della poesia di Salvatore Violante con riferimento al libro "Gente per strada", Aletti Editore 2018
Violante è anche acuto intellettuale napoletano, con trascorsi assai impegnati nelle lotte sindacali; amico di vecchia data di Sebastiano Vassalli dal quale ha saputo trarre l’agrodolce linfa linguistica, una linfa che permea i suoi versi come di una disperata allegria che investe la
multiforme realtà dell’“interland” napoletano.
Una poesia che vuole anche essere una sorta di carrellata del difficile tempo, passato e presente; direi, anzi, che è, essenzialmente, proprio il Tempo (reo), che tutto travolge e annienta, a dominare la “quest” cupa e tormentosa dei versi di Violante. Il paesaggio è quello vesuviano, multicolore e multietnico; un paesaggio arso, fatto di «pietra lava e pomice incolore», al quale le taglienti parole di Violante sanno ben contrapporsi con tutto il loro umore carnoso, mediterraneo, palpitante, ch’è quello del poetavoyeur. Da questo scenario scaturisce un coro polifonico di voci e tutta un’umana quotidianità scrutata nella sua nuda, fervorosa presenza. Colpisce, infatti, il ritmo «lirico e introspettivo» (Cannillo) della versificazione di Violante, che definirei idiosincratica, scalpitante, perfino,
a tratti, ansante, con abbondanza di rime e assonanze, ora scoperte ora nascoste. E dove, alla base, c’è forse anche la volontà di restituire la memoria, proprio attraverso la poesia, ai «vecchi orbati». Tutto, all’interno di una complessiva, furiosa visione d’insieme: « …da fondo si leva la brezza che piega gli steli / che sembrano pezzi / di fiore predato, nei talami in culle galleggiano i veli, spogliati, / i pistilli diventano peli, / e tutto nel vento mi sembra natura che soffia, che urla, / che intona una furia» (p. 22). Il rischio in agguato è che l’autore si lasci ogni tanto lui stesso contagiare da una facile coloritura locale, un po’ teatralizzante, ma, al contempo, espressa in una lingua scoppiettante, dotata di una straordinaria energia fonetica e funambolica, la cui anima profonda sa offrire soprattutto il gergo partenopeo. Di fatto, qualche componimento si lascia gustosamente andare a questa espressività fonosimbolica espressa in un dialetto di grande efficacia: si veda esemplarmente la poesia a p. 26, poi replicata in lingua nella pagina seguente. Un’espressività che, in definitiva, intende rivendicare la “merce predata della vita”, e che Salvatore non si stanca di squadernare e di esaltare, con la consapevolezza che «è pur essa la sola che attesta / non c’è altro che vale il sentiero / a pensarla» (p. 28). Poesia tragica e vitalistica, trascinante e tracimante, questa di Violante, che con il sorriso e la smorfia di un Mercuzio, egli sa “camuffare” dentro una lingua rovente, nella quale si impastano passato e presente, scorci esistenziali, lava, pietre pomici e Tempo, di fronte al muto “Sterminator Vesevo”, che intanto tutto segue e segna tacitamente, magari «per darne conto il giorno della spia». Un esempio sfavillante di Violante-giocoliere della lingua, è la “canzoncina” palinodica a p.47: un testo efficacissimo di come la lingua odierna giochi e metta in gioco se stessa; una poesia che non mi meraviglierei se fosse usata da un intelligente docente di lingua italiana, proprio per mostrarne la polverizzazione (così l’avrebbe chiamata Cesare Segre) e le conseguenze parossistiche offerte oggi dal mondo telematicovirtuale, di cui siamo sempre più schiavi, e che sta sempre più soppiantando quello reale, che Violante sa ben puntualizzare anche con godibili e ben assestate frecciate politiche. Insomma: un libro ricco di spleen e al contempo di inventiva felicità, che forse segna il culmine della sua pluridecennale ricerca poetica.
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