| Domanda - Partiamo proprio dal titolo, come mai "Le Stagioni della vita"? Quali sono gli argomenti ricorrenti, o per lei fondamentali, che tratta in questo volume?
Gennaro Iannarone - Il titolo “Le stagioni della vita” è stato scelto come il più idoneo a indicare il tema che ricorre più di frequente nella raccolta, cioè quello della visione della vita come passaggio di stagioni, dalla primavera all’inverno (“…gemmati alberi”…“biancore di neve” in “Memoria di stagioni”) attraverso la stagnante estate e il decadente autunno. Nella poesia (termine usato sempre come sinonimo di “componimento in versi”) che dà il titolo al libro l’osservazione di una foglia cadente riporta alla mente in una indistinta lontananza la mia primavera, rimasta tuttavia “ignota”, cioè non vissuta con la consapevolezza della sua bellezza e dell’ineluttabile non ritorno. Lo stesso tema, elaborato come inarrestabile e penoso logorio (secondo Giorgio Bàrberi Squarotti già la mia silloge “Quel foulard giallo-nero” “…allude con tanta pietà alla tragicità del tempo…”), ricorre anche in “Le stagioni di dentro”, in cui l’immagine di un ciliegio recante in pieno inverno un ornamento di foglie gialle riporta il pensiero a una natura alle cui cangianti atmosfere resta indifferente l’intero mondo circostante (è Leopardi), ma non noi esseri umani, che avvertiamo dentro l’animo il travaglioso passaggio delle stagioni (della vita). Nella stessa accorata visione s’inquadrano “Febbraio 1969”, “La conta del tempo”, “Ultimo piatto”, “Volteggi finali”.
Altro tema fondamentale della raccolta è quello dei ricordi e del desiderio di regressione all’età felice e dell’innocenza, disseminato qua e là ma espresso soprattutto in “Al ritorno della neve”, “Breve angustia”, “Occhi di bambino”, “Verità che cambia”.
Il tema dell’amore è di rilievo ampio e diversificato: (“Anima di vivandiera”, “Attimi d’amore” “Canzoni barbare”, “Del Tempo”, “Fiore di rosa”, “Freno all’amore”, “I don’t understand”, “Pianto consolatore”), fino a ricomprendere, in un’appassionata dedica, anche l’amore filiale (“A Carmen”).
Di non poca importanza il pensiero che ruota intorno alla morte, ora avvertita come vicina (“Capocastello”, “Prigionia di cani”), ora riguardata in una lontananza senza tempo (“Visita al cimitero, “Voci in sogno”) o come doloroso ricordo (“Del lupo cattivo”), o infine esorcizzata con spunti satirici (“Requiem per un topo”, “Spettacolo terminato”, “Un giorno di nobiltà”).
Importante, e non solo per numero di componimenti, è il proposito di “fissare” un valore: (“Dell’amicizia”), un modo di essere (“Masochismo”), una particolare immagine (“Torrida estate”, “Lapidi imbiancate”), uno stato d’animo (“Ultime luci della città”), alcuni momenti fermati o rallentati in riflessioni brevi (“Carezza di vento”, “Il Purgatorio”, “Realtà e giorno”, “Sogno segretato”, “Silenzio del natio borgo”), o ponderate e profonde (“L’immensità”, chiaramente derivata da Leopardi, “Seme di una poesia”, “Una via di fuga”, “Vita sognata”).
Non mancano confronti con la propria “poesia”, vista come salvifica (“Grazie, poesia”), o dominata dalla insuperabile malinconia (“Vecchi tronconi di poesia”, nonché temi d’occasione nati dalla sensibilità verso idoli dello sport o dello spettacolo (“Buffon come Cambronne”, “Per Fabrizio Frizzi”).
Domanda - Quanto la realtà ha inciso nella scrittura?
Gennaro Iannarone - A questa generica domanda rispondo che la realtà ha inciso moltissimo su tutta la mia scrittura, a tal punto che se io pubblicassi in un solo volume l’intera mia opera la intitolerei “Una vita in versi”.
Traccerei tre periodi di questa mia vita, l’uno di seguito all’altro, corrispondenti a un giorno, a una notte, e a un secondo giorno, quello che sto vivendo, terminato il quale la mia esistenza si chiuderà, come realtà e come scrittura.
La prima giornata è stata quella dell’infanzia, dell’adolescenza e della gioventù, le età più belle, quelle dei giochi, dei primi amori, degli studi “leggiadri”, in cui da fanciullo ho scoperto il mondo, da adolescente e nella prima gioventù ho concepito e “creato” il mio futuro di lavoro e di vita sentimentale. Tale realtà, vissuta dal 1943 al 1965, trasfusi nel 2012 nel romanzo autobiografico “I ragazzi della via Vasoli”.
La mia notte, durata all’incirca quarant’anni, è cominciata dopo, ed è terminata nel corso del mio 64° anno d’età. A me pare ora di averla sognata questa parte normale e più piena dell’esistenza, iniziata con la sistemazione nel lavoro e nella famiglia, ricca di soddisfazioni professionali e di intime gioie, nella quale però mi è sembrato di essere stato dominato dagli eventi, di averli cioè vissuti supinamente, appunto come si vivono i sogni, che non possono essere governati dalla volontà. Perciò dico “notte” non in senso negativo, ma come passaggio di vita in cui non si è stati “creativi” come nella prima età, ma si è rimasti appiattiti nell’amministrazione ripetitiva e quasi monotona della vita. Ho trasferito questa “impressione” nei versi di “Un viaggio sognato” (in “Vivere balenando in burrasca”): “Ero stanco del cammino interminabile/ in una notte assurda senza mutamento./ Quando spicchi di cielo mi sorpresero… vidi un’incerta alba in una nube rosa…..un bianco cigno….ammonirmi pareva che in visioni d’arte e di poesia era finito il viaggio della mia vita, per il resto sognata”), facendo precedere il componimento dai versi de “La Tempesta” di Shakespeare, anche se, come ho or ora detto, non tutta la vita mi è parsa sognata ma soltanto la parte di essa centrale e matura.
L’alba di “Un viaggio sognato” è appunto quella che ha aperto la mia seconda giornata, dopo le dimissioni dalla magistratura (“notte assurda senza mutamento”), con l’inizio della “scrittura”, che ha preso il primo spunto dalla dismessa professione (con le opere “Io, giudice cristiano ed eretico”, “Verità al risveglio”, “Percorsi tra Legalità e Valori”, “Sentinella di vita”, “Sciroppo amaro e altri veleni”), poi è regredita all’età dell’infanzia, dell’adolescenza e della gioventù con “I ragazzi della via Vasoli”. In verità “Sciroppo amaro e altri veleni” (primo regresso della memoria al vissuto della giustizia penale) e “I ragazzi della via Vasoli” (secondo regresso ai primordi della mia vita) si sono posti come uno spartiacque, tali che li si potrebbe riguardare come un’ “aurora” prima dell’ “incerta alba” che, terminata anche la proficua esperienza della presidenza del Teatro Gesualdo, mi avrebbe offerto le “visioni d’arte e di poesia” espresse con le opere poetiche “Vivere balenando in burrasca”, “Quel foulard giallo-nero”, “Guscio di noce”, “E’ per… te” e da ultimo con “Le Stagioni della vita”.
Domanda - La scrittura come valore testimoniale, cosa ha voluto salvare e custodire dall’oblio del tempo con questo suo libro?
Gennaro Iannarone - Anche se può dubitarsi che la scrittura in genere persegua lo scopo di salvare e custodire qualcosa dall’oblio del tempo, tuttavia alcuni componimenti del libro sono centrati su cose, eventi o persone di cui ho voluto salvare il ricordo, pur nella consapevolezza della quasi impossibile realizzazione di tale fine, a fronte dell’ineluttabile dissolvimento della memoria anche dei nostri primi discendenti. Comunque, fra i non molti che appaiono aderenti al tema posto dalla domanda vi sono:
“Capocastello”, che ponendo un parallelo tra la fragile vita degli uomini e quella più resistente della pietra, ha voluto lasciare una traccia della varietà e bellezza dei colori di questa più antica borgata di Mercogliano, ed anche della mia piacevole e creativa dimora alle falde del Partenio;
“Buffon come Cambronne”, che rivela il mio personale convincimento che la spregiudicata e coraggiosa protesta del nostro portiere nella finale della Coppa Campioni lo possa far ricordare meglio e più a lungo della sua gloria calcistica, annoverabile fra le più effimere delle “glorie” umane;
“Per Fabrizio Frizzi”, che, ispirata dalla particolare commozione popolare, ha inteso salvare il ricordo dell’amatissimo presentatore con la sua elevazione nella sfera di una “laica sacralità”;
“Silenzio del natio borgo”, che ha voluto rappresentare l’immagine desolata e desolante del borgo natio, affinché non si dissolva il ricordo di questo momento storico di un paesino di montagna dell’Irpinia, che soffre, come molti altri del Sud, un progressivo spopolamento.
Domanda - A conclusione di questa esperienza formativa che ha partorito il libro "Le Stagioni della vita", se dovesse isolare degli episodi con particolare favore come li descriverebbe?
Gennaro Iannarone - Rispondendo a questa domanda non facile, perché il libro raramente è stato ispirato da veri e propri episodi, mi viene da isolare e descrivere in breve la mia prima dichiarazione d’amore. Avevo appena 16 anni e 13 la ragazza che ne fu la destinataria, divenuta poi mia sposa e perduta ancor giovane (riguardano lei: “Al ritorno della neve”, “Del lupo cattivo”, “Visita al cimitero”, “Voci in sogno”), e fu allora così grande l’emozione che, non riuscendo ad esprimerle il mio amore in italiano, feci ricorso alla lingua inglese, poco in uso allora fra noi ragazzi. Ho scritto in “Canzoni barbare” di non ricordare i versi della canzone che allora le canticchiai o dedicai, ma ripensando a quella che sarebbe poi divenuta la “nostra canzone”, e cioè “Only you” (che ha ispirato una poesia in “E’ per… te”), credo che molto probabilmente le intonai “You are my destiny”. Non dimenticherò mai che lei arrossì nell’ascoltarmi, segno che aveva ben capito la mia profferta amorosa, mentre mi tremava la lingua nel parlarle ancora per vincere la sua ritrosia a dirmi subito di sì.
La mia seconda moglie ha l’ “Anima di vivandiera”, perché è un’impareggiabile cuoca che trascorre in cucina buona parte della giornata, preparando le pietanze più diverse a seconda dei gusti di ciascuno e con grande passione (“questo tuo linguaggio d’amore il cuore te lo trasmette nelle mani”). Questo unico interminabile episodio di arte culinaria pare una storia infinita, che tuttavia la distrae da tristi pensieri (“e nello sguardo i sorrisi, a velare sofferenze sottili”). La mia giovane compagna ricompare in tutt’altri ruoli e momenti di vita in “Pianto consolatore” e in “Del Tempo”, dove è lei “la ragazza che ancor profuma di freschezza”, capace di donarmi altri “episodi” che danno una illusione di eternità.
Terzo episodio anch’esso reale è quello di un topo penetrato in casa non so come. Insospettito da uno squittio e da un rosicchiamento, lo scovai di sera nel ripostiglio, ma solo al mattino riuscii ad ammazzarlo a colpi di scopa. Ancor turbato dalla notte insonne causata dalla sua inquietante visita, ebbi l’ilare trovata di celebrargli un funerale ascoltando in sequenza i minuti iniziali delle marce funebri di Wagner, Beethoven e Chopin. Credevo che la mia folle idea avrebbe riportato serenità ed allegria ed invece avvertii che quel genere di musica non era proprio un fuor d’opera, non avendo trovato alcun ragionevole motivo per cui la sensazione di morte improvvisa provata da quella bestiola dovesse considerarsi diversa da quella che prova un essere umano stroncato da una violentissima randellata in testa (“…ma non mi rallegravo, ancor di più capivo che la morte è uguale”).
Domanda - Quali sono le sue fonti d’ispirazione: altri autori che ritiene fondamentali nella sua formazione culturale e sentimentale?
Gennaro Iannarone - I miei versi sono il più delle volte ispirati da:
a) uno scandaglio della memoria di episodi antichi e recenti che siano fonti di un’emozione o di un insegnamento di vita; b) l’osservazione del mondo circostante alla ricerca di rapporti o particolari sensazioni che quella osservazione provochi nella mia più profonda interiorità; c) il pensare di frequente al progressivo esaurimento della mia esperienza esistenziale, cui segue non un cupo pessimismo, ma l’occasione di concepire visioni caratterizzate da un “sereno pathos”; d) l’ammirazione della bellezza e teneri ricordi d’amore che hanno nutrito un’esistenza non breve, costellata di qualche serio travaglio; e) il frequente ritorno del pensiero alla diversione da una bella professione che era destinata a durare “per sempre” e la continua ricerca di una risposta di senso a tale scelta, pur sempre traumatica, ma che mi ha dato la possibilità di coltivare più appaganti passioni.
Quanto alla formazione culturale e sentimentale, devo soffermarmi su quella che durante gli anni dell’adolescenza e della gioventù ho ricevuto in famiglia. Io ebbi per mia grande fortuna un padre e uno zio paterno appassionati di letteratura, storia, filosofia, musica classica e arti figurative, sebbene fossero entrambi magistrati, un altro zio paterno professore di lettere, accanito lettore e divulgatore di quel che leggeva, e ancora uno zio materno bravo ingegnere, abitante nella stessa strada, il quale, oltre a condividere la passione per la musica, era esperto di arte rinascimentale e si dilettava di pittura e di fotografia. Nella nostra casa di Frigento, che negli anni ’50 e ‘60 si distingueva dagli altri paesi dell’entroterra irpina per una notevole tradizione culturale, riveniente da un accorsato Istituto Magistrale fondato nel 1913, da un antico Concerto bandistico noto in Campania e nelle regioni limitrofe, e da un Teatro comunale, si contava un’alta percentuale di buoni professionisti, di ottimi artigiani, di laureati e tanti maestri elementari. Nella mia famiglia la cultura costituiva una religione di vita, per cui pranzi e cene si risolvevano molto spesso in vere e proprie riunioni conviviali, durante le quali ci si intratteneva a tavola in lunghe discussioni. C’era di particolare che nessuno si diffondeva nella propria specifica materia professionale, ma si trattavano argomenti di cultura umanistica, talvolta con fervore, con la consueta e molto comune tendenza a far paragoni sul se fosse più grande Manzoni o Victor Hugo, Bach o Beethoven, Shakespeare o Dante, Raffaello o Michelangelo, Maria Callas o Renata Tebaldi. La mia adolescenza è cresciuta per oltre un decennio in questo clima, arricchendomi delle più varie conoscenze, che mi consentivano anche di primeggiare fra i compagni di scuola. Quando fui prossimo alla maturità classica, mi azzardavo ad intervenire in quelle dotte diatribe, mettendo in campo come miei campioni l’Omero dell’Iliade o anche Eschilo e Sofocle, essendo rimasto colpito dalle letture dell’Orestea e dell’Edipo Re, nonché di Foscolo e Leopardi, cui mi ero dedicato anche per esortazione del genitore, che mi aveva fatto appassionare anche alla musica classica, attento com’era allo sviluppo completo della mia personalità (in “Seme di una poesia”). Anche lo zio professore, coltissimo ma taciturno, offriva talvolta il suo contributo citando i più recenti pareri di critici letterari, in tempi in cui imperava la teorica crociana, mentre lo zio Michele, incline a seguire i nuovi eventi culturali, ci informava di artisti e poeti moderni, che da lui sentii nominare per la prima volta, come Salvator Dalì ed Eugenio Montale. Talvolta le dispute cadevano su argomenti di minor rango, tra l’altro sulla fotografia, come quando un giorno si dissertò a lungo se fosse o meno un’arte. Ricordo che intervenni schierandomi per la tesi positiva sull’onda dell’entusiasmo creato in me dallo zio materno con cui collaboravo appena dodicenne nella sua attrezzata camera oscura, dondolando le bacinelle in cui l’idrochinone incideva le immagini sulla carta, allora in bianco e nero (in “L’arte della fotografia” del mio libro “Verità al risveglio”). Non mancavano discorsi, sempre sul piano razionale, su temi religiosi e in particolare sulla figura storica di Gesù, mentre – potrebbe oggi sembrare strano – latitava del tutto la politica, cui si negava ogni valenza culturale nel contesto di tali convivi ed in genere nella nostra famiglia, al punto che mio padre non usciva di casa per una passeggiata serale se per istrada o nel bar di fronte c’era qualche suo conoscente che soleva discutere solo di politica. Dopo cena, se non si restava intorno al focolare a chiacchierare di qualche importante accadimento italiano o del paese (mia nonna però zittiva tutti se si accennava a fatti di cronaca nera), si ascoltava la radio, dato che la televisione avrebbe fatto la sua comparsa nelle case private soltanto nel 1957. Completati gli studi liceali (“Da studi classici attinsi, come per dono, parole come colori…il grigio diritto ha dipinto poi l’animo mio” avrei scritto in “I colori del diritto”, in “Quel foulard giallo-nero”) mi iscrissi alla facoltà di giurisprudenza e da allora dimoravo per alcuni mesi dell’anno a Napoli, in casa dello zio materno e della moglie Vittoria, dove, partecipando con interesse alle lezioni che lei impartiva per i concorsi magistrali, appresi anche nozioni di pedagogia e di didattica, soprattutto allo scopo di ritrasmetterle alla mia fidanzata, e questo in verità fu un ulteriore contributo alla mia formazione culturale, che tanto mi avrebbe giovato allorché, dopo le dimissioni dalla magistratura, tenni numerose conferenze sulla Legalità nelle scuole di ogni ordine e grado.
Quanto agli autori che ritengo fondamentali nella mia formazione culturale e sentimentale, mi è sufficiente aggiungere che le frequenti discussioni culturali di cui ho detto costituirono a loro volta un forte stimolo alla lettura delle opere alle quali si era fatto cenno nelle nostre riunioni conviviali, e, se si trattava di poesie famose, le dovevo imparare a memoria anche in ottemperanza ai dettami dei docenti dell’epoca. I relativi testi erano attingibili dalle ben fornite librerie di casa (più d’una), che ospitavano romanzi, racconti, opere di storia, filosofia, teatro, poesia e tanti altri testi che sarebbe lungo enumerare.
Restringendo il discorso al campo della poesia, si mantenne vivo l’interesse a rileggere dopo il liceo, con l’accresciuta maturità, tutti i lirici greci e i poeti latini che in me più avevano lasciato traccia (soprattutto Orazio, Lucrezio, Plauto, Ovidio, il Virgilio delle Bucoliche, Catullo e qualche altro), nonché molti poeti italiani a partire dal Dolce Stilnovo, con l’attenzione rivolta anche alla poesia straniera (Lorca, Eliot, Edgar Lee Master, Baudelaire, e tanti altri). Non si trattava di una rilettura per puro diletto ma finalizzata all’analisi dei componimenti più belli per coglierne gli aspetti più raffinati e anche la musicalità, quest’ultima come proiezione della metrica greca e latina i cui ritmi avevo ben acquisito al liceo.
Tutto quanto ho voluto descrivere con dovizia di particolari – considerando raro accadimento nella vita di un adolescente il modo in cui ricevetti e poi da solo consolidai una solida formazione culturale e sentimentale dalla viva voce, torno a dire, di familiari attratti da opere dell’intelletto umano diverse da quelle della loro specifica competenza professionale – induce la domanda se, come “onda lunga” di una siffatta formazione, non sia accaduto anche a me, in concreto, un distacco dalla mia professionalità, cui si è sostituita la passione per tutt’altre sfere dell’umano sapere, avendo rivolto il mio interesse, lasciata la magistratura, non solo alla letteratura ed in particolare alla poesia, che ora assorbe quasi del tutto il mio infrenabile impulso creativo, quale che sia la qualità dei frutti, ma anche alla storia e alla filosofia, ai rapporti tra legalità e giustizia in società di fede cattolica, e alla musica, poiché erano state queste materie a scavare tracce profonde e indelebili nella mia interiorità, mentre gli studi legali e la magistratura avevano costituito solo una sovrastruttura (così in “Vita e Destino” della silloge “Guscio di noce”).
Domanda - Ci sono altre discipline artistiche o artisti, che hanno in qualche modo influenzato la sua scrittura?
Gennaro Iannarone - Potrei correlare qualche poesia alla pittura, della quale mi dilettavo in gioventù sotto la guida dello zio materno cui ho fatto cenno. Ho corredato qualche mio libro di riproduzioni in bianco e nero di miei dipinti, ma in verità mi riesce alquanto difficile trovare una correlazione intrinseca fra la mia scrittura e le arti della pittura e della scultura, nonostante ogni possibile rimando della memoria a Rinascimento, Neoclassicismo, Romanticismo, Impressionismo e ad altro ancora. Spostandomi sul piano oggettivo, ma vago, dell’amore per il colore, esso può aver ispirato qualche componimento del libro. Un’attrazione del bianco, del candore come simbolo di purezza non è estraneo a “Lapidi imbiancate”, e a “Al ritorno della neve”, come il giallo ha simboleggiato il declino della natura (“Le stagioni di dentro”); altro caso in cui il gusto del colore, unitamente all’indubbio fine estetico dell’arte urbanistica, può aver influenzato la mia scrittura è l’accenno alla variopinta borgata descritta in “Capocastello”.
Mi riesce molto più facile accennare ad aspetti specifici e generici del rapporto della musica con la mia scrittura. Ed invero, il mio disamore per lo stile in cui si esprime la musica moderna, soprattutto quella straniera, ha influenzato “I don’t understand” e suggerito lo stesso titolo di “Canzoni barbare”, ma quest’arte mi ha influenzato in genere nel diverso senso della “musicalità” che ho inteso dare ai miei versi, ognuno dei quali è stato curato in modo che la lettura donasse all’orecchio piacevoli ritmi. Tale preciso intento è derivato, conseguendo buoni effetti (sottolineati sempre dallo Squarotti nel recensire le mie precedenti sillogi), non solo dalla conoscenza della misura delle sillabe nella metrica della poesia classica (ad esempio lunga-breve-breve e lunga-breve nelle ultime due sillabe dell’esametro), ma anche dalla lettura in primis di Dante, dei poeti del Dolce Stil Novo, di Petrarca, Ariosto, Foscolo, Leopardi, Vincenzo Cardarelli e molti altri, e soprattutto dal fatto che, conoscendo a memoria non pochi versi, le loro cadenze mi risuonano in mente mentre scrivo, con intuibile mio giovamento. A ciò si aggiunga l’intento di attingere assonanze dalle riserve mnemoniche anzidette, che integro con frequenti letture di poeti contemporanei, anche per rendermi conto di quanto sia distante dai loro componimenti il carattere narrativo delle mie liriche.
Domanda - Oltre a quello trattato nel suo libro, quali altri generi letterari predilige?
Gennaro Iannarone - Prediligo fra tutti il racconto e la novella e poi anche il teatro, sia nella forma della tragedia che della commedia. Diverse furono le mie letture giovanili, orientate prevalentemente sul romanzo. La letteratura russa e americana e prima ancora quella inglese mi riempivano parte delle giornate e le chiudevano anche, dato che leggevo a letto per circa un’ora prima di addormentarmi, di solito libri piaciuti a mio padre, che prima me li consigliava e poi mi chiedeva cosa ne pensassi. Integrale fu la lettura del teatro di Shakespeare. Minoritaria in quegli anni la lettura di novelle e di racconti, tranne gli indimenticabili Kafka, Allan Poe ed Hemingway, a parte gli scontati Boccaccio e Pirandello, ma devo sinceramente dire che la mia attuale predilezione per il racconto, la novella, il testo teatrale soddisfi, più che scelte di qualità, un’esigenza di brevità tutta personale, perché, dedicandomi ai componimenti poetici e, come dirò, alla saggistica, che per giunta mi attardo a rivedere e a correggere per ore, il tempo per la lettura di un romanzo in verità mi manca.
Domanda - Preferisce il libro tradizionale cartaceo o quello digitale?
Gennaro Iannarone - Preferisco senz’altro il tradizionale libro cartaceo. Per spiegarne le ragioni, quasi tutte di ordine pratico, mi piace della confezione cartacea il poterla sfogliare anche tornando indietro di una o di più pagine. Questa possibilità forse non è tanto apprezzabile con riguardo alla lettura di romanzi o racconti, ma per le poesie, specialmente se raccolte in una silloge, nelle quali alcuni motivi di una si ritrovano in altre, il confronto dei relativi momenti ispiratori è reso agevole dal cartaceo, mentre il digitale lo rende difficoltoso. Nella lettura, ad esempio, di Ossi di seppia o della Divina Commedia all’attento lettore s’impongono dei salti, in Dante anche fra Cantiche, per riscontrare similitudini utili per capire la poesia, specie quando sono presenti commenti in calce, per cui ben si comprende che la facilità di lettura del libro tradizionale cartaceo non è soltanto un fatto materiale, ma consente uno studio più accurato, sempre nel mio personale convincimento che una raccolta di poesie non va letta d’un fiato, ma lentamente, e riletta con una certa ponderazione, poiché i suoi significati non si colgono immediatamente come nell’opera in prosa, ma raccordando i componimenti, per vedere se fra loro vi sia una certa omogeneità o unità d’ispirazione o per scoprire, al contrario, se siano frutto di distinti impulsi creativi. E se prendiamo ad esempio proprio il mio libro, sfogliando le pagine con il maneggio cartaceo come per compiervi un viaggio, potrebbero apparire occasionali “Fiore di rosa”, “Masochismo”, ed ancor più le scritture dedicate a Gigi Buffon e a Fabrizio Frizzi, ma quasi tutte le altre, se poi ricordate e raccolte col pensiero, rivelano una unitaria ispirazione, un nucleo essenziale di base che comunica al lettore un senso di spegnimento, di annullamento, di ineluttabile finitudine dell’essere, un destino in cui ci si sente accomunati anche agli elementi naturali che vegetano sul pianeta. Ecco appunto, con riguardo a tale tematica, che potrebbe sorgere la curiosità di rileggere, dopo “Volteggi finali”, “Le stagioni della vita” per un raffronto coll’analoga visione della foglia che muore. E questa possibilità il cartaceo la offre in modo rapido, anche con l’opzione di una contestuale lettura di uno-due versi salienti. Tuttavia, penso che la tecnologia, nel suo continuo progresso, riuscirà a offrire tutte le possibilità pratiche di un rapido e anche contestuale consulto con un semplice cliccare sulla finestra giusta. Quello tuttavia che il libro digitale non potrà mai dare al lettore è il piacere di sentire sotto le dita la consistenza della carta e della copertina, la varietà dei loro colori, ed infine una bellezza impalpabile del libro tradizionale: il colore e l’odore della muffa che ha impregnato libri conservati a lungo nel chiuso di una libreria, di solito quelli con antica rilegatura con scritte dorate sui dorsi, che non tramontano mai. Qualcuno potrà sorridere di tale apparente insignificanza, ma mi dovrà spiegare perché si resta affascinati dalla biblioteca di casa Leopardi.
Circa cinque anni fa, colto da un forte impulso distruttivo all’inizio del mio ultimo anno di professione, caricai la mia auto di una grande quantità di riviste che raccoglievano le sentenze della Cassazione, sistemate da mio padre in tutti gli spazi possibili della casa avita, pur di non interrompere, dopo il pensionamento, il rapporto con la professione di magistrato da lui molto amata. Dovetti farmi forza perché sapevo del valore affettivo, quasi rivitalizzante, che avevano rivestito per lui quelle riviste. In me, invece, che non tolleravo la cosiddetta “dottrina del precedente” giurisprudenziale, si era radicato un rapporto quasi conflittuale con le massime della Cassazione e perciò alla fine mi decisi a liberarmene. Con quattro viaggi di macchina in una notte d’agosto del 2014 buttai forse quintali di materiale cartaceo in una discarica abusiva. Il giorno dopo composi “Fine del diritto” (in “Vivere balenando in burrasca”). Sembrerà strano, ma, accanto a tanta letteratura e libri di ogni altro genere, volli lasciare nella biblioteca di famiglia i Codici vecchi e nuovi e i Trattati di dottrina, che pochissimi giudici oggi andrebbero a consultare per trovare una soluzione in un caso giudiziario. E quando ritorno in agosto a Frigento riprendo spesso in mano quei testi pesanti e ingialliti, li apro, accosto le narici alle pagine e quelle mi inondano di quel profumo d’antico, come se fossero depositarie (ma è proprio e soltanto una illusione?) di un sapere giuridico infallibile. Mi sento sollevare da terra nel “contemplare l’invecchiar che brilla” (“Ultime luci della città” in “Le Stagioni della vita“) e sento che con questi momenti il digitale non può reggere il confronto.
Domanda - Per terminare, quale è stato il suo rapporto con la scrittura durante la composizione del libro.
Gennaro Iannarone - Premetto che l’unica grande difficoltà nel rapporto tra me e la scrittura letteraria, ormai superata da tempo, è stato il dovermi liberare dallo stile proprio del linguaggio giuridico, usato per l’intera vita professionale nella redazione di requisitorie e di sentenze.
Detto questo, intendo precisare, con riguardo alla veste formale, che in primo luogo mi son proposto componimenti brevi (in “Le Stagioni della vita” la media è di circa otto righe ciascuno). Per soddisfare la già illustrata musicalità dei versi, li ho fatti quasi sempre combaciare per numero di battute, non di sillabe, data la diversa lunghezza di queste. Se qualcuno dei componimenti, per l’esattezza nove, non risulta incolonnato, ciò è accaduto per distorsioni nella impaginazione provocate dalla trasmissione delle bozze con posta elettronica, ma questo non ha però nociuto molto al ritmo, già impresso alla successione delle parole, anche se avrei preferito che fosse conservato l’incolonnamento dei versi.
Quanto ai contenuti e al metodo di redazione nella composizione di “Le Stagioni della vita” vi sono state più fasi. La nascita di una idea, di una immagine, il sorgere di un ricordo, ritenuto degno di poter costituire il nucleo primigenio di un testo di potenziale valore poetico, è stato subito messo sulla carta, con il proposito di ritornarci sopra per completarlo ed affinarne lo stile. Raramente la prima bozza è rimasta identica alla prima stesura, avendo subito numerosi rimaneggiamenti, e spesso un verso di maggior pregio, come giudicato dai miei primi lettori, è stato inserito durante la fase di revisione e di completamento, essendo sopraggiunta in mente in quel momento quella che si usa chiamare una “ispirazione”. Non saprei aggiungere altro con riguardo al contenuto dei testi, peraltro rilevabile agevolmente dalla lettura degli stessi e dagli evidenti legami che li correlano.
Domanda - Un motivo per cui lei comprerebbe "Le Stagioni della vita", se non l’avesse scritto
Gennaro Iannarone - A questa domanda alquanto provocatoria, che impone uno sdoppiamento della personalità quasi impossibile, rispondo che uno dei motivi per cui comprerei “Le Stagioni della vita” è la veste tipografica sobria ed elegante, il tenue colore della carta, il buon cartoncino con bandelle della copertina, lo sfondo del bel panorama su cui si staglia l’immagine di un uomo piuttosto anziano, dalla fronte aggrottata e un po’ pensosa. L’ampia biobibliografia mi farebbe però sorgere un dubbio sulla qualità della poesia, poiché stento a credere che un magistrato, impregnato di freddo raziocinio per una intera vita, si sia poi lasciato andare alla fantasia e al sentimento, essenza della creazione poetica, che forse non sono mai appartenute al suo mondo e alla sua vita. Mah! Dopo una breve esitazione, non dispererei però del tutto e rimarrei ancora convinto dell’acquisto da altri elementi estrinseci, quali il costo modico, le ridotte dimensioni del libro e gli intuibili tempi brevi di lettura. Eppoi, mi torna pur sempre intrigante il titolo, che con immediatezza richiama alla mente il trascorrere della gioventù e il suo correre verso lo sbocco nella vecchiaia. Per volerlo comprare dovrei rimanere tuttavia nell’età che ho o poco giù di lì, altrimenti non sarei incuriosito dalla visione dell’età anziana espressa in versi, che il volumetto in sottinteso offre a me e a quelli della mia età. Se invece mi immaginassi giovane sarebbe improbabile l’acquisto di questo libro, poiché da giovane non potrei comprendere appieno cosa sono le stagioni della vita nella felice e incosciente spensieratezza che starei vivendo. Ed invece, siccome sto percorrendo l’età longeva (come la chiama Willy Pasini), non resisterei alla tentazione di comprare il libro per capire che cosa abbia ispirato all’autore il cammino verso la vecchiaia e come lui sia riuscito a vagheggiarci sopra.
Domanda - Ha in progetto altre opere da scrivere nel prossimo futuro. In caso affermativo, può darcene un’anticipazione?
Gennaro Iannarone - Sono tre i generi di opere che ho progettato di scrivere nel prossimo futuro: poesie, saggi, racconti.
Ho scritto nel frattempo qualche poesia e ho dato inizio anche alla stesura di due racconti, ma c’è ancora bisogno di rielaborazione ed ampliamento prima di deciderne la pubblicazione.
Inoltre sto alle prese con un saggio che richiede un certo impegno, sempre relativo a rapporti fra la poesia e le altre espressioni artistiche, ma molto più ampio del precedente, ripromettendomi un excursus dalla Grecia ai tempi nostri. La saggistica mi dona il piacere di coniugare l’abitudine all’analisi e al ragionamento, contratta in 70 anni complessivi di professione giudiziaria ordinaria e tributaria, con l’approccio a materie artistiche di indubbia bellezza, tanto diverse da quella delle controversie civili o dei giudizi penali. Peraltro ho ricevuto molte soddisfazioni dalla saggistica, con un premio attribuito a Torino (Premio “Arte Città Amica”) al saggio “Alle radici della civiltà”, con cui ho partecipato anche all’ultimo Concorso Quasimodo, dove, pur non avendo ottenuto alcun riconoscimento, credo in una valutazione positiva dello stesso, se ha contribuito al mio secondo posto nella Sezione Faretra. Altro saggio (“Paternità dei madrigali anonimi di Carlo Gesualdo”) è stato riconosciuto meritevole di una menzione di onore presso Arte Città Amica di Torino, oltre che in un Concorso bandito da Aletti Editore qualche anno fa, menzionato nella IV di copertina.
Certamente la “poesia” mi appassiona di più, tanto da occupare, come ho detto, gran parte del mio tempo, ma resta circoscritta in quell’attendismo dell’ispirazione che credo bene esprima il componimento “Vecchi tronconi di poesia” in “Le Stagioni della vita”. Non credo di poter trovare fonti d’ispirazione in temi diversi da quelli che hanno costituito, pur nella loro varietà, il contenuto delle mie cinque raccolte, che spero non rappresentino il canto del cigno.
Collana Le Perle
pp.60 €12.00
ISBN 978-88-591-5309-2
Il libro è disponibile anche in versione e-book
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