| Per saperne di più di Giuseppe Greco e del suo libro “Ricordi di una adolescenza d’altri tempi”, editato dalla Aletti Editore, un'affascinante storia di famiglia nell'Italia di una volta, abbiamo rivolto alcune domande all'autore, che ci ha risposto così:
"Ho vissuto in Calabria, dove sono nato, figlio di contadini. La mia infanzia e la mia adolescenza, in riferimento ai lavori nei campi, sono state come quelle di altri tanti miei conterranei paesani, ma nel privato ho vissuto cose diverse, fondamentali, per la scrittura dei miei ricordi. Gli avvenimenti della guerra in Africa Orientale hanno condizionato il mio crescere. Sono nato due mesi dopo la sua partenza, ho conosciuto mio padre che avevo quasi nove anni. Questa mancanza è stata sopperita in parte dai miei nonni, in particolare da mio nonno Pietro con il quale trascorrevo il mio tempo libero, lavorando con lui in campagna e governando nel mio piccolo le nostre bestie. Avvertivo, comunque, dei forti momenti di preoccupazione, quando i Carabinieri portavano alle famiglie le tristi notizie di morte di un loro congiunto. Soldati del mio paese erano in Africa Orientale, in Libia, in Grecia e in Albania, in Spagna, in Russia e in altri fronti. Ho pianto spesso con i miei compagni per queste morti. Mia madre viveva con queste preoccupazioni, non abbiamo avute notizie di mio padre per anni, io avvertivo tutto ciò. Lei si spaccava in quattro per farci vivere dignitosamente e aveva la responsabilità di portare avanti una famiglia di sei persone, vivevamo con i nonni e un fratello di mia madre. Con l’arrivo di mio padre in pessime condizioni di salute, questa responsabilità è aumentata. Era silenzioso, si chiudeva in se stesso, non aveva pazienza, era irascibile, non amava essere contraddetto e io spesso mugugnavo, in casa non si rideva più, vedeva in grigio e in nero, c’è voluto del tempo per vedere un po’ in bianco. Poi un po’ di risalita nella sua salute, con le cure pazienti di mia madre che aveva saputo, in parte, curargli le ferite dell’anima. Un po’ di rinascita iniziale per la conquista delle terre in Sila, espropriate ai grandi proprietari terrieri, che abbiamo coltivato per sei anni, sei anni di calvario per me, e che abbiamo dovuto abbandonare perché piccoli appezzamenti, sparsi in località diverse, lontane tra loro, dove per la loro esiguità non avevamo la possibilità di concentrarci e creare qualcosa di duraturo e anche per la loro infertilità. Tuttavia, questo abbandono, era stato una piccola sconfitta, c’erano state dure lotte per averle. Ricordo che quando d’estate i militari facevano le loro esercitazioni nelle nostre località o nelle vicinanze e ci proibivano l’accesso o la lontananza, mio padre andava in crisi, solo vedendo quei colori grigio/verde, tute mimetiche, camion, cannoni e quant’altro. Certo in quei periodi ci sono stati anche momenti sereni, comunque mi hanno temprato il carattere. Con il mio ritorno a scuola, dopo tre anni dalle elementari, con la mia partenza al nord, mi sono reso conto delle adolescenze vissute dai miei amici dai miei compaesani e non, dai miei colleghi di lavoro, anch’essi figli di contadini, molto diverse dalla mia, migliori. Mi rendevo conto che ero stato un ragazzo che aveva dovuto lavorare come e più di un adulto, con tanti doveri, ma poi trattato da ragazzo, senza diritti, la dura legge del paese. Grazie a mio nonno Pietro che ha saputo aiutarmi, gratificarmi senza che allora me ne rendessi conto, ma che l’ho ben capito poi. Era vecchio, ma il suo cuore era quello di un ragazzo. Era analfabeta, ma è stato il migliore insegnante della mia vita, dovevo rendergliene onore, probabilmente se non fosse stato per lui, sarei rimasto al mio paese a fare il contadino o il pastore. In casa dicevano che era irriconoscibile perché oltre a essere il patriarca era stato un monarca e non tenero con i figli. Era stato due volte in America, all’arrivo la quarantena, il rischio di essere rispedito a casa e poi il lavoro con i neri che, ancora trattati come schiavi, erano in continuo esasperato fermento e schiavi anche gli italiani immigrati che lavoravano con loro. Il suo dolore per aver perso il primo figlio di sedici anni, anche lui immigrato in America, del quale non ne ha saputo più nulla, solo voci, si supponeva che fosse stato ucciso durante uno sciopero a New Jork, dove lavorava, e seppellito non si sa dove. Il dovere nascondere parte del raccolto che doveva essere versato all’ammasso, durante alcuni anni del periodo fascista, per poter sostenere meglio la famiglia. Sei mesi di carcere per essersi ribellato alle angherie di un gretto, dispotico, padrone di fronte al quale la legge chiudeva gli occhi e gli permetteva di fare il bello e il cattivo tempo. Mio nonno, per diversi anni, aveva condotto delle fattorie in mezzadria. Questi fatti e tanti altri mi hanno indotto a non lasciar morire i miei ricordi, sono stati i fatti le mie aspirazioni a scrivere, a far sapere a figli e nipoti il vissuto della mia infanzia, della mia adolescenza, fatti reali e non di fantasia.
Più volte, negli ultimi anni, avevo provato a scrivere qualcosa e c’ero riuscito, poi vedendo e ascoltando in televisione i veri scrittori, ci ripensavo, mi rendevo conto di quanto fossi ignorante, la mia grammatica è quella che è, scarsa, il mio vocabolario di parole, molto circoscritto. Mi dicevo: se mi facessero delle domande al di fuori del mio vissuto, non saprei rispondere, balbetterei, immaginiamoci per le interviste. Capisco, non ne sarei capace, allora in momenti di sconforto, quasi di vergogna, stracciavo tutto. Poi ci ripensavo e mi sembrava di aver fatto un torto a mio nonno e a mia madre, così un tantino più convinto, ho ripreso a scrivere, il ricordo di mio nonno e di mia madre hanno avuto il sopravvento, ma soprattutto l’arrivo dei miei nipoti. Avevo acquisito tanto da mio nonno, lavorando con lui col bello e il cattivo tempo, tempi buoni e meno buoni, volevo lasciarne traccia, proprio a loro. Il mio scritto sarà pure sgrammaticato, ma lo ritengo umilmente genuino, sincero, vero, mi sono reso conto che in fondo, non è solo la grammatica che conta ma anche i sentimenti. La mia storia, forse simile a quella di tanti altri, è per me unica, non la ritengo più da buttar via, ora che ho quasi finito di raccontarla ne sono orgoglioso. Man mano che affiorano altri ricordi, faccio delle integrazioni. Ritengo di aver fatto rivivere mio nonno Pietro, mia madre, la mia famiglia, il mio borgo e un pezzetto della piccola Sila. Come ho scritto nei “Ricordi": … Sono contento di essere riuscito a scrivere tutto ciò: è farina del mio povero sacco, un sacco grezzo, semplice, fatto con amore e con i polloni della ginestra, con le mie paure nel camminar di notte, con i miei pianti, con il profumo dell’anice e dell’origano e fresco come le acque del mio borgo e della Sila. Sempre caramente mio, senza pretese letterarie.
Sono sempre stato attratto, nel mio piccolo, dagli avvenimenti storici, questa mia storia racconta un mondo che non c’è più, la storia mi attrae più di altri argomenti. Non sono stato un gran lettore ma quando leggo qualcosa, mi piace sentire il profumo della carta, poter sfogliare, sentirne il tatto, lasciare il segna libro e poi riprendere. Ho iniziato a scrivere il seguito dei "Ricordi…" Ho già il titolo “Profumo di Origano”. Ho scritto e continuo a scrivere delle poesiole tutte in riferimento alla natura, al mio vissuto. Mi aiutano, oltre che l’orto, a riempire le giornate in questo autunno della vita".
Giuseppe Greco è nato a Carlopoli il 25 novembre 1938. Vive a Como in mezzo a una piccola Chiusa da pensionato e da brontolone, col suo cane Birillo.
Collana "Gli emersi - Narrativa"
pp.308 €14.00
ISBN978-88-591-5286-6
Il libro è disponibile anche in versione e-book
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