| Quando mi hanno chiesto di scrivere un articolo che riguardasse il mio libro “Il tuo sentire” ho provato una strana sensazione perché il modo migliore che ho di esprimere ciò che sento non è sicuramente la prosa, a me che non piace dire tutto o spiegare. Confido nel sentire altrui e mi affido all’intelligenza di ognuno che, con i propri mezzi, trae “il suo sentire”. E ancora, se da una parte, c’era il piacere di percorrere una nuova esperienza, dall’altra, la paura di cadere nell’autoreferenzialità è stata molto forte. Per giorni, mi sono interrogata su cosa potessi scrivere senza, appunto, tessere le lodi di un’esperienza, o, come mi piace definirla, “il mio punto di vista sulla vita”. Interrogandomi su quale fosse la tematica di cui parlare, sono giunta alla conclusione che il tema di fondo, e che accomuna il mio percorso a tutti, è quello dell’identità o, per meglio dire, della ricerca della propria identità. Delle difficoltà ad essa connesse e delle paure che ognuno attraversa prima di potersi abbracciare completamente. Una tematica che attraversa profondamente la cultura Occidentale e che oggi, ancor più di prima, è molto sentita. Come è possibile definirsi in un mondo nel quale “l’io” è costantemente al centro di ogni vicissitudine al posto del “noi”? Qui già sorge il primo paradosso. Ricercare se stessi in un mondo in cui l’ego fa da padrone e che a ragion di logica, dovrebbe essere già ben strutturato ma che, di fondo, non lo è. Abbiamo il fine dimenticando i mezzi. La fatidica domanda del “ma io chi sono?”. Sappiamo cosa ci piace fare ma profondamente conosciamo noi stessi e le nostre capacità o i nostri limiti? Vogliamo tutto, soprattutto quello che non possiamo avere e lottiamo accanitamente per averlo, non pensando però che il limite massimo verso il quale ci si può spingere è, appunto, l’io e la sua limitazione. Per anni, il mio “io” è stato sotterrato dalla paura di riconoscermi e di accettarmi per la donna che oggi sono, a favore di frammenti di un io che sicuramente era slegato dalla persona che oggi, anche in vigore del suo passato, è quella che è. Avere un passato e aver passato vari stadi di depressione, ognuno con le sue sintomatologie non è altro che un campanello d’allarme che il corpo, l’anima, la mente fa suonare per attirare l’attenzione e far riflettere sul fatto che, probabilmente, la strada che stavo percorrendo non era quella giusta. Ma come si fa ad essere se stessi, in un mondo che non accetta la fragilità, in cui tutti devono apparire sempre al meglio delle loro capacità, senza essere, senza essere se stessi? C’è della retorica di mezzo eppure l’esortazione che campeggiava sul tempio di Apollo a Delfi “nosce te ipsum” o “conosci te stesso” non è mai stata più vera. Se potessi stilare una lista autentica di chi sei tu, saresti capace di farla? Personalmente, se questa domanda me l’avessero posta tempo addietro avrei tentennato o forse, per imbarazzo, avrei fatto una lista rapida e concisa che di veritiero non so quanto avrebbe contenuto. Dire di avere paura, oggi, non è concesso. Non parlo di possibilità perché le uniche che ci si concede sono quelle in cui il fallimento non è compreso. Siamo capaci tutti a far finta e indossare la maschera, pochi quelli disposti a far vedere la propria faccia. Ed è stata qui, la mia rivalsa. Non nei confronti del mondo ma nei miei stessi. Decidere di essere me stessa. Di essere autentica. Che non significa sfiorare il confine con l’anarchia e imporre le mie regole al mondo ma, al contrario, farmi conoscere per ciò che realmente sono. Durante le passate presentazioni, ho iniziato a vedere l’espressione del pubblico che pian piano cambiava, da sereno compariva un grosso punto interrogativo sul viso e dalla bocca la domanda: “e come si fa?”. Si fa. È possibile. È possibile quando si accetta la possibilità che essere se stessi significa provare e sbagliare. Ricominciare. Ascoltarsi, riconoscere i propri bisogni, manifestare e verbalizzare ciò che spaventa, quello che mette ansia e rispettare le persone attorno, trattandole come tali e non come mezzi per arrivare allo scopo. Cercando di capire che mettersi in ascolto di se stessi significa rispettare il proprio tempo e non quello prestabilito del mondo. Significa, allo stesso tempo, avere cura delle persone attorno e non calpestarle. Significa che abbiamo tutti il diritto di stare male ma ciò non implica trattare male l’altro. E ancora, significa avere attenzione dell’altro e di se stessi, senza che si crei un divario ma, al contrario, concepire la diversità come valore non un modo per formare delle categorie di appartenenza. Il terreno fertile per un discorso sull’omologazione e massificazione c’è, preferisco sorvolare tenendo le redini del discorso. L’identità, questa sconosciuta! Per come l’ho descritto, il mio percorso alla ricerca di me sembra sia stata una passeggiata di salute di una qualunque domenica di settembre. E non prendo settembre come mese campione ma lo faccio con lo scopo preciso di scrivere che è stato quello il mese in cui il mio percorso di psicoterapia è iniziato. Non cercato e non voluto, almeno da me. Oppositiva e distruttiva, pensavo boriosamente di conoscermi e che qualunque tentativo per stare meglio sarebbe stato inutile perché “io non ho nessun problema”. Quanti ripetono questa frase che, a furia di sentirla dire, mi sembra più un mantra o un convincimento che un’asserzione di un fatto di cui è preferibile tacere. Come se io non fossi responsabile del mio benessere. Altro fattore fratello dell’identità: la responsabilità. Deresponsabilizzazione che si unisce all’identità frammentaria. Io non sono responsabile di ciò che penso, dico e faccio. Totale assenza di personalità. Attenzione, non sto accusando nessuno. Se bisogna puntare il dito contro, fatelo pure contro me perché sul piatto sto offrendo la mia esperienza, come capro espiatorio. Ero una di quelle persone che, come tanti, vivevano chiusi nel proprio passato, demandando la responsabilità del proprio atteggiamento. È fuori discussione il fatto che la strada che ognuno ha percorso per arrivare all’adesso sia materia di dialogo. Ognuno sa che cosa ha provato, quali sono le esperienze che lo hanno segnato e i passi che ha compiuto per arrivare ad essere la persona che oggi sono. Non si tratta di passato ma di adesso. Pensare che il momento migliore per iniziare a vivere e conoscersi è solo questo. Ognuno ha alle spalle qualcosa che lo ha ferito ed umiliato ma non si vive più lì, quella è la terra dei morti. E noi, io, siamo vivi! Il presente è l’unico strumento che può ricollegarci a noi, che ci dà la possibilità di trovarci e finalmente amarci per ciò che realmente siamo. In ultimo, questo penso dell’identità, che, proprio in un momento nel quale l’ego fasullo ci fa apparire e si pone al centro, occorre spostarlo, mettere al centro se stessi e la verità che ognuno ha da offrire al mondo. Non è utopia, quella che racconto, ma l’ogni giorno imbevuto di analisi, ascolto, parole e scrittura. Conoscere se stessi è amarsi per amare l’altro, al fine anche se ne è l’inizio, il durante ed il dopo, di una felicità ordinariamente quotidiana e “banalmente” semplice.
Articolo pubblicato sul giornale di Alberobello "La Piazza".
Collana "Gli emersi - Poesia"
pp.80 €12.00
ISBN 978-88-591-5115-9
Il libro è disponibile anche in versione e-book
Seguici su Facebook
www.facebook.com/alettieditore
e su Twitter
www.twitter.com/alettieditore
Visita il nostro Canale Youtube
www.youtube.com/alettieditorechannel
|