| L’EFFIMERO; LO SCACCO; IL VARCO, di AnnaMaria Gargiulo
presentato presso il Liceo Plinio seniore, Castellammare di Stabia, il 19 ottobre 2017
Di seguito, riportiamo la relazione del Prof. Gerardo Santella.
Pegaso e la Sirena
Osserviamo la copertina. Un paesaggio marino luminoso: in alto Pegaso, il cavallo alato che vola dispiegando le sue ali nell’immensità del cielo, era anche il cavallo delle Muse perché con un colpo di zampa aveva fatto sgorgare dal monte Elicona, dove risiedevano le protettrici delle arti, la fonte Ippocrene che si credeva con le sue acque desse ai #poeti l’estro del comporre; in basso la #Sirena che emerge con il corpo metà donna metà pesce dalle cavità marine per affiorare all’azzurra superficie e attirare i naviganti con il suo canto seducente. Le due figure, rappresentate in tutta la loro evidenza, sono creature fantastiche, entrambi simbolo della #poesia e della sua caratteristica di ambiguità ed eccezionalità per il loro corpo di “monstra”, ma richiamano anche l’armonia e la solarità del mondo classico.
Una poesia “sensuale”, nel senso che la poetessa costruisce una dimensione multisensoriale, in cui tutte le percezioni sensoriali sono sollecitate, e talora più di una simultaneamente:
leggeri battiti d’ali (udito);
corpi avvinghiati e braccia intrecciate in un sogno incantato (tatto);
un girasole dai petali d’oro e semi succosi (sinestesia di percezione visiva e gustativa);
forte il vento urlava sull’onda nera delle onde (udito e vista);
assaporo il tuo profumo di muschio di mare (odorato e gusto).
Tra le figure retoriche c’è una prevalenza della similitudine utilizzata per stabilire un’analogia tra paesaggio ed elementi della natura e condizione umana.
Son foglie d’autunno / questi nostri inappagati desideri:
Il tuo volto è piegato sul mio / come tralcio di vite, matura / per una nuova vendemmia.
Come viburno al soffio del vento / sei svanito nel mio sogno all’improvviso
Un vento sottile come di brina.
A livello stilistico nella strutturazione dei versi manca del tutto il ricorso all’enjambement. Quindi c’è sempre una coincidenza tra verso e frase, senza interruzioni né accavallamenti: il che rende il discorso poetico lineare, fluido,
Sirena
Per dirti il mio corpo di latte e di mare
vorrei sciogliere un canto
al tepore delle tue mani
e nutrirti del mio umore materno
come di bimbo al primo vagito
e facilmente fruibile anche perché fatto di versi distesi, una sintassi che procede per coordinazioni, un lessico semplice, senza oscurità o ricercati sovrasensi allusivi. Siamo dunque di fronte ad una poesia caratterizzata da una compostezza e un’armonia che stemperano nella misura classica anche gli elementi tematici drammatici.
Tema principale: l’amore, che non è mai ludus (gioco frivolo di seduzione) e neanche mania (ossessione gelosa e possessiva) , ma:
eros (passione e comunione dei sensi): I nostri corpi distesi hanno lottato nel buio; Un lento fluire di magma e fuoco / lungo le cosce di pelle di seta
filìa (scambio di vissuti, empatia): le nostre anime ad un comune divenire sono fatte.
agàpe (altruismo, condivisione): essenza duale e profonda.
Nella sezione Voce del mare il discorso comincia a farsi interiore e riflessivo.
Nell’ultima sezione, Periferia, un grappolo di poesie, che descrivono scorci di ambienti e personaggi, rievocati dalla memoria, hanno il respiro e i colori dei versi dedicati da Alfonso Gatto alla sua costiera in Rime di viaggio per la terra dipinta..
L’effimero, lo scacco, il varco
In copertina ancora un paesaggio marino, visto da una rada boscaglia su cui si ergono in primo piano rami spogli e scheletrici che con il loro intrecciarsi tramano la distesa del mare su cui affiorano isolotti sovrastati un oscuro nuvolame. L’ora è indefinita: forse l’alba che sta per fugare le ultime tenebre della notte o un tramonto che manda i suoi ultimi bagliori rossastri. Non ci sono segni di presenze viventi. I colori, cupi, sfumanti l’uno nell’altro con un impasto di giallo che è segno più di malattia che di solarità genera un’atmosfera di mistero, ambiguità, attesa, sospensione. Una personale suggestione: sembra vedere per un istante il fagiano che scompare di una poesia Wallace Stevens, un animale intravisto e subito perduto, che si allontana verso il folto e l’ombra e svanisce nell’attimo tra essere e non essere: una cosa reale, di carne, viva, pronta a spiccare il volo, ma sempre sul punto di sfuggire e di trascolorare in quella macchia del silenzio che dilaga un istante prima e dopo la parola.
Si compie un passaggio da una realtà mitico-simbolica a temi della metamorfica realtà contemporanea, trattati alternando partecipazione emotiva e distacco ironico. E talora la poesia si fa metapoesia, come in alcuni testi della sezione “Segno”, dove la poetessa mostra la cassetta degli attrezzi del suo fare poetico e in un dialogo con il lettore avverte che:
“La poesia nasce silente / per i suoi sentieri e nascondimenti / poi in un baleno si rivela / al poeta che l’attende / e la rimodella / esplorando le parole. (…) La poesia è un’arte lenta / dello svelamento. (…) E’ un solitario argonauta il poeta, / ferito da schegge di luce / emerse da mari profondi (…) Preferisco parole che allargano il cerchio / propagano l’onda”.
Un invito a soffermarsi sulle parole poetiche, sulle loro inedite corrispondenze, sul loro propagarsi in cerchi concentrici con amplificazioni e molteplicità di sensi.
Le tre parole del titolo costituiscono il filo da dipanare alla ricerca di una realtà inafferrabile, che può essere percepita solo nella sua superficialità, non nella sua profondità. Noi che leggiamo una poesia, come ci insegnava il grande filologo Salvatore Battaglia, ci troviamo di fronte ad una spessa ombra, che cerchiamo di rischiarare con la luce della nostra intelligenza: ma qualsiasi nostra interpretazione nel mentre ne illumina una parte ce ne mostra l’insondabile ed inesauribile profondità.
C’è la consapevolezza che l’uomo nell’Inferno già vive / squassato dal male ed è solo la morte per loro / il dono che Pandora poi fa. La vita, dunque, come una sorta di labirinto del dolore, in cui c’è solo la consapevolezza del proprio effimero e scacco. Ma l’autrice nella sezione finale parla di varco e termina ognuno degli undici testi con lo stesso verso finale: il varco al di là / il varco s’apre alla luce!?
Le due parole chiave di questi testi: varco e luce , sono anche propri dell’idioletto dei due maggiori poeti del Novecento italiano: Eugenio Montale e Mario Luzi, con i quali Gargiulo intesse un dialogo intertestuale.
Montale, che ha una visione pessimistica della realtà e non aderisce ad un credo positivo, dice che il varco per un quid rivelatore è l’illusione di un attimo; rimane solo la speranza che la vita abbia un senso che ci sfugge, ma che vale la pena di sperimentare.
Per Luzi, poeta cristiano, la vita è un viaggio che non si traduce in un appagamento per il raggiungimento della meta: il sogno umano è più grande di ogni realizzazione e forse il Paradiso si riduce ad un flusso di luce, un ineffabile lampeggiamento.
E Gargiulo: il varco sperato!/ E’ solo un miraggio, un atto di fede / o lume che vacilla / ma s’ostina / credere che il varco di là / il varco s’apre alla luce.
Il varco dunque si apre alla luce. Il Paradiso cristiano?
La poesia non dà risposte. Pone domande.
Ma la conclusione mi sembra una felice sintesi tra fede e speranza, tra anelito verso l’Eden e consapevolezza dell’arido vero. Una condizione di sospensione, che è poi quella della nostra vita terrena. Si avvertono in questi versi le parole di Calvino che avvertiva che l’Inferno dei viventi è qui, lo abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Ed allora: non resta che farne parte con la nostra azione di resistenza quotidiana.
Lume che vacilla, ma s’ostina. La consapevolezza di essere canna piegata al vento, di passare giorni a raccogliere cocci di frantumi prodotti da un’onda cupa non sfocia in una condizione di disperanza. Permane una tensione, un desiderio, affiora il sorriso e quel s’ostina mi richiama ancor Montale quello che per me è il più bel verso della poesia italiana; seguitare lungo una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Stile
La similitudine perde il nesso “come” e l’elemento medio comune ai due termini del paragone tende a trasformarsi in metafora:
Ecched’è ‘sta vita? / Sulo nu sciuscio ‘e viento!
Le vane parole / son fiori recisi
La luna è un sudario
Il verso tende a prosciugarsi, talora si riduce ad una sola parola che spicca nello spazio, che perciò diventa la chiave semantica del testo bianco.
Spesso è presente l’enjanbament: verso e frase non sempre coincidono, ma talora si ha un effetto di interruzione, frattura che interrompe l’andamento del discorso e del ritmo e genera una pausa di sospensione, talora si prolunga nel verso successivo in un continuum discorsivo. Un artificio retorico moderno, non fine a se stesso, che implica la rappresentazione di una realtà fisica e sentimentale sfrangiata nel suo intreccio di trama ed ordito, che ben riflette incertezze, trasalimenti, fratture del mondo moderno.
E il poeta? Ritrova la propria consistenza e afferma la propria dignità nella misura in cui accetta di appartenere alla molteplicità contraddittoria dell’esistente, di confrontarsi con il mondo, disperdere la sua soggettività nel flusso dell’esistere, desiderare di essere mangiato bevuto assimilato. Come Orfeo, il mitico signore del canto, di cui le Baccanti, nel delirio cruento, si dividono i lacerti del corpo.
Una poesia, dunque, quella di Anna Maria Gargiulo, che da Pegaso a L’effimero, si dipana diacronicamente, in una evoluzione tematica e stilistica, che testimoniano la sua apertura alla mutevole realtà e la sua ricerca della parola per cercare di dire l’indicibile.
Gerardo Santella
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