| Recensione di Sophie Sarti
“Le opere, come nei pozzi artesiani, salgono tanto più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato il cuore.” (Marcel Proust)
“Origine”: una discesa lenta ma intensa. Ecco perché ho citato Proust.
In questa silloge troviamo le gioie, la natura e la speranza, per poi passare all’interno dell’artista e assaggiare il suo dolore.
Un’analisi introspettiva in versi dal fuori al dentro, un’arte che lentamente fa schiudere mente e anima attraverso i suoi versi, semplici ma precisi. Delicati ma incisivi.
“La più grande amarezza del mondo è la solitudine
che logora, nella folla.
Il più grande limite del mondo è la paura
che mette in ginocchio.
Mi dispiace,
vorrei il tocco incantato
che trasfonde sicurezza e calore, ma ho solo pensieri,
parole sfuggevoli
come inconsistenti carezze
che sfiorano e se ne vanno.”
Le parole sono il fulcro di ogni spazio vitale, lo riempiono di certezze rendendo concreti i pensieri.
La poesia li sublima, eliminando il superfluo della prosa per arrivare al fulcro dell’uomo: la sua anima.
Piccoli respiri che cambiano la prospettiva di un’isola cara all’autrice, che fanno vedere l’amore di una madre, che colorano l’assenza con la loro presenza.
“Quei respiri diventano parole.
Quelle parole diventano realtà.
Quelle realtà rendono la vita piena di luce e speranza.”
Ecco, la speranza è il cuore pulsante di quest’opera; il cielo può diventare nero e la luna nascondersi, ma le stelle brilleranno per dare a chi cammina la speranza del domani.
“Confessare
la difficoltà di vivere
per sgravare
l’insostenibile peso,
senza vergogna,
con dignità,
per chiedere
luce
e solidarietà.”
L’autrice non si nasconde dietro a frasi ad effetto, si limita a sentire se stessa, a vedere gli altri e non solo a guardarli e a vivere la natura come il più grande di tutti i doni.
Ha la consapevolezza che il bene è un valore effimero se ci si concentra a vedere solo il male, e quest’ultimo è una presenza costante che va compresa, abbracciata e superata per poter godere di tutto il buono che la vita ha da offrire.
Le persone che sono frutti che devono essere assaggiati (alcune più di altre) perché non si deve provare disgusto senza averne provato il sapore. Alcuni sono aspri all’inizio e amari alla fine. Quel retrogusto non poteva essere previsto e solo dopo può, semmai, venir riconosciuto.
L’accento che pone sulle parole che sono come le rose: petali vellutati o spine velenose; l’analisi attenta all’arte che è arte e non poesia, la poesia che è arte ma ne viene distinta. Come se, le parole non potessero essere veicolo di bellezza.
Ma cosa c’è di più bello di una tavolozza di lettere pronte a stupire con la loro danza melodiosa, ritmata e mai prevedibile.
In fin dei conti il giallo è giallo, ma scrivere “amore” è tutto il resto, giallo incluso.
“Perdonare
senza più sentire
la sofferenza del rancore.”
La Aguzzoli consegna nelle mani del lettore un pezzo della sua anima, lo cede con rispetto e reverenza, senza ergersi a saccente giudice di vita, ma rimanendo umile e sereno perché:
“[…] perché anche se solo una parola toccherà il cuore di un’unica persona,
ne sarà valsa la pena.”
Ecco il senso, a mio parere, dell’opera completa. Quella di donarsi per un bene superiore e l’autrice lo fa con una naturalezza che mi ha colpito. Alcuni versi portano a delle riflessioni profonde, altri fanno volare attraverso le nuvole che diventano perle o attraverso terre di smeraldo e, planando nel dolore, si rinasce con una maggiore consapevolezza.
Versi che vanno assaporati lentamente, intervallati e riletti, che vanno assaporati proprio come quei frutti di cui la Aguzzoli parla per coglierne il retrogusto, individuale sebbene già scritto.
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