| Domanda - Partiamo proprio dal titolo, come mai “GOLDENBOY il gemello africano”? Quali sono gli argomenti ricorrenti, o per lei fondamentali, che tratta in questo volume?
Bruno Gagliardi - Un’amicizia che con gli anni si affievolisce fino ad avviarsi a morire poco a poco. Non è vero che se un’amicizia finisce è perché non è mai nata. Gli effetti del tempo, delle esperienze maturate, della divergenza dei valori, del non invecchiare nello stesso modo, di non avere più niente da dirsi, sono talvolta logoranti.
Altro argomento è il rapporto padre-figlio. Un rapporto difficile, conflittuale tra un genitore deluso, vocato all’ordine e alla tradizione più austera, e un figlio inquieto e indocile alla rincorsa dei suoi sogni.
Domanda - Quanto la realtà ha inciso nella scrittura?
Bruno Gagliardi - Io credo che la realtà incida sempre in qualsiasi narrazione. Penso sia impossibile non scrivere di se stessi. In ciascun romanzo è presente, in qualche misura, il vissuto di chi scrive: episodi, momenti, sensazioni conosciute in prima persona o attraverso fatti dei quali si è stati testimoni, avvenimenti o racconti delle persone con le quali si è venuti in contatto nel corso degli anni. Il mio libro non sfugge alla regola. La figura Enrico Neri, che ne è il protagonista passivo, è ispirata dalle vicende di un amico di lontana data trasferitosi per lavoro, oltre che per spirito d’avventura, alcune decine di anni fa in Africa, dove vive tutt’ora.
Domanda - La scrittura come valore testimoniale, cosa ha voluto salvare e custodire dall’oblio del tempo con questo suo libro?
Bruno Gagliardi - Domanda difficile: darebbe per scontato che, da parte mia, ci sia, oltre che una robusta autostima, la convinzione che valga la pena di tramandare ai posteri qualcosa di personale. Non sono certo che le cose stiano precisamente in questo modo. Scrivendo (Goldenboy è il mio terzo lavoro, il primo pubblicato), non mi sono posto obiettivi tanto ambiziosi. Forse, nella poco probabile ipotesi che un giorno diventassi un autore con un minimo successo, chissà.
Domanda - A conclusione di questa esperienza formativa che ha partorito il libro “GOLDENBOY il gemello africano”, se dovesse isolare degli episodi che ricorda con particolare favore come li descriverebbe?
Bruno Gagliardi - Se per episodi si intendono le tappe della realizzazione del mio romanzo, senz’altro il lavoro di ricerca e di affinamento del linguaggio, la sfida di caratterizzare, io torinese integrale, uno dei miei personaggi attraverso il suo esprimersi, in modo quasi completo, nella lingua siciliana. Viceversa quelle che ricordo con meno favore, e sono certo di non dire nulla di originale, consiste nelle riletture fino alla nausea, preliminari all’OK alla stampa. Con la certezza che qualcosa sfugge sempre e comunque.
Domanda - Quali sono le sue fonti di ispirazione: altri autori che ritiene fondamentali nella sua formazione culturale e sentimentale?
Bruno Gagliardi - Credo che chi scrive debba innanzi tutto essere un lettore. Che debba essere “onnivoro” in materia, con l’umiltà di confrontarsi con i suoi autori di riferimento, di analizzarne lo stile. Tutto quanto premesso rispecchia fedelmente il mio rapporto con la narrativa moderna. Mi reputo un discreto lettore: da cinquanta a settanta libri l’anno. Circa gli autori, metto su tutti Jean Claude Izzo, da molti definito il padre del noir mediterraneo oltre che il punto di riferimento di molti noiristi nostrani (primo tra tutti, Massimo Carlotto il cui stile si avvicina alla crudezza di quello dello scrittore marsigliese senza, tuttavia, sfiorarne la vena di malinconia e la poesia che ne pervade l’opera.)
Domanda - Ci sono altre discipline artistiche, o artisti, che hanno in qualche modo influenzato la sua scrittura?
Bruno Gagliardi - Ho letto recentemente un’affermazione del tipo: ”Si nasce con la predisposizione all’arte e alla bellezza”. Circa la prima, non mi pare sia il mio caso. Mi sono avvicinato all’arte, la pittura in primis, negli anni della maturità. Da fruitore incompetente, vado spesso per mostre, affidandomi alle visite guidate (e talvolta, in particolare nel caso di arte contemporanea, ne esco non senza qualche perplessità). Quanto detto vale per le arti figurative. Allargando il discorso ad altre discipline, sono viceversa un appassionato di cinema, di musica e di teatro. Al riguardo della seconda (la bellezza), al di là della soggettività del concetto, mi piacerebbe conoscere qualcuno che affermi il contrario, vale a dire di non esserne stato geneticamente predisposto! Circa la mia scrittura posso solo affermare come tutte le nostre passioni, le vicende, le persone con cui veniamo in contatto, lasciano inevitabilmente traccia determinando il nostro modo di essere.
Domanda - Oltre a quello trattato nel suo libro, quali altri generi letterari predilige?
Bruno Gagliardi - Come già detto, mi ritengo “onnivoro”. Si tratta di romanzi, prevalentemente di autori italiani (De Giovanni, Lucarelli, Carofiglio, Manzini e i miei concittadini Perissinotto e Canobbio). In quanto agli stranieri, i primi che mi vengono alla mente sono Lemaitre, Vargas e Cormac McCarthy, oltre all’inarrivabile Stephen King che leggo dai tempi quando ancora si firmava Richard Bachman.
Alla narrativa alterno la saggistica (da Kapuscinsky a Terzani, ai più attuali Cazzullo, Rampini e Stella).
Domanda - Preferisce il libro tradizionale cartaceo o quello digitale?
Bruno Gagliardi - Con il cuore la carta: l’odore, la fisicità, il packaging (senza contare la possibilità di regalarlo a chi ti è caro, con la tua brava dedica, a seconda dei casi: romantica, arguta o salace). Con la ragione gli e-book. La praticità di avere in tasca una piccola biblioteca. A vincere è la ragione (senza contare che, quando ti capita di dover ridipingere le pareti di casa ti ritrovi alle prese con una marea di volumi polverosi poi da risistemare, per ordine, uno per uno.
Domanda - Per terminare, qual è stato il suo rapporto con la scrittura, durante la composizione del libro.
Bruno Gagliardi - Come per migliaia di italiani, scrivere un romanzo è sempre stato un mio sogno. Il romanzo è libertà d’inventare, libertà assoluta per quanto mi riguarda, di immergersi in una vita parallela. Scrivere può essere molto divertente, soprattutto se lo prendi come una vacanza e non un lavoro. Non sono parole mie, mi limito a riportare un’affermazione di un antico amico, scrittore affermato (uno degli autori che cito in questa intervista). Un’affermazione che faccio mia come, in pari maniera, ho fatta mia la citazione tratta da una canzone di Roberto Vecchioni (uno dei cantautori che più amo) che ho riportato nella pagina del mio libro riservata alle dediche “non lo so se è meglio vivere che scrivere, so che scrivo perché forse non so vivere”.
Domanda - Un motivo per cui lei comprerebbe “GOLDENBOY il gemello africano” se non lo avesse scritto.
Bruno Gagliardi - Uno solo? Beh allora lo individuerei nel fatto che il protagonista è un uomo qualunque, con i suoi problemi quotidiani, le sue tristezze e i suoi compromessi esistenziali. Non il solito poliziotto anomalo degli epigoni di Izzo: sfigato oppure tostissimo, magari corrotto. Magari, per buona misura, lasciato dalla moglie o che nel suo passato ha accoppato un collega e, di conseguenza, è stato messo all’indice da colleghi e superiori.
Domanda - Ha in progetto altre opere da scrivere nel prossimo futuro? In caso affermativo, può darcene una anticipazione?
Bruno Gagliardi - Continuerò a scrivere. Potrei dire di no? Probabilmente sarà un sequel, cercando di evitare di rimpastare sempre le stesse cose. E qui, almeno con il personaggio di Andrea Corradi, mi fermerò. Nessuna trilogia: non portano bene: vedi quelle di Jean Paul Izzo (ancora lui) e di Stieg Larsson, entrambi defunti prematuramente!
“GOLDENBOY il gemello africano”
Pagine 276, Euro 14
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