| Dove sono finite le altalene?
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TODAY
Tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio crearono in Inghilterra un progetto di una stanza dentro una struttura Londinese. La battezzarono come STANZAKB7. Le lancette di un orologio antico fissato con un chiodo sopra la porta, correvano in senso anti orario. Era una stanza bianca. Di un quadrato di Londra a caso. Rifletteva. Filtrava luce. Potevi dormirci quanto tempo volevi.
La scelta era tua. Era magica, in un certo senso, quella stanza.
Riesci a ricordare l’indirizzo della struttura?
Mi dispiace. Non ricordo.
[…]
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APNEA
Mi ricordo un pezzo di carta e una penna. Aveva sempre avuto questa abitudine Timothy. Fin da piccolo, nei jeans. Sapeva sempre cosa scrivere. Appuntava qualunque cosa. Nomi strani passati in radio, battute sconce per film per adulti. Le stagioni. I colori.
Una bestemmia che rimbombava nella sala d’aspetto di un ufficio postale. Eventi. Citazioni. Progetti. Promemoria. Scriveva pensieri. Sfoghi. Monumentali macerie e piccole illuminazioni. Mi ricordo un giorno scrisse un litigio in casa, per la precisione, la scopata della cugina di Natalie, Kate, con il ragazzo del piano di sotto. Gli piaceva scavare nei particolari sensibili all’occhio curioso di un bambino,
elaborando piccoli racconti della scena seguente. Qualche ora dopo. Quando il marito di Kate sarebbe tornato dal suo lavoro d’ufficio, con la pancia gonfia riempita dallo spuntino post lavoro
in un fast food di salutisti. Porcile economico per maiali mai sazi. Contemporaneamente, la bella Kate, godeva già di un orgasmo che la accarezzava ancora, mentre cucinava distratta la cena al marito, bugiarda e colpevole fingeva la sua parte da bravo angioletto, mentre il diavolo godeva ancora di passione giù, al piano di sotto. Lo percepiva semplicemente da come si muoveva in cucina, lineare,
qua e là. Sicura di averla scampata anche stavolta quando varca quel gradino di consapevolezza che la porta a girarsi piano verso il marito, ormai stravaccato senza scarpe, davanti ad un televisore a
schermo piatto, immerso nel suo multimediale incosciente, cornuto momento di gloria. Kate intanto, tra un piatto e l’altro, sorride.
Davano la partita.
Timothy aveva i capelli lunghi, riccioli, che gli coprivano gran parte dei suoi occhi grandi, blu, come il mare in cui nuotava nei suoi sogni più inconsci e che mai ha accarezzato. Un giovane vispo, curioso, forse un po’ particolare, ma la particolarità dipende un po’ dai punti di vista. Il fatto è, diciassette anni sono troppo pochi per capire la vita, o sono già troppi per tornare a capirla veramente? Era rimasto
bambino, quello sì. Con la testa in quelle nuvole che assumevano forme strane in un nuvoloso pomeriggio nei parchi di Londra.
Timothy viveva in una soffitta nel quartiere di Brixton nel sud della città con Kate, suo marito e Natalie. Una delle zone più povere e underground della city. Vicino a casa, c’era uno spazio per gli skater.
Di notte, saliva sul tetto e osservava i graffiti di quello skatepark privo di rumore, nei dintorni caotici di classici pomeriggi inglesi. Di notte, ti potevi perdere nel silenzio rotto da ruote che scorrevano sopra una leggera pioggia bagnando disegni vietati di artisti in catene, sulle tele di onde asfaltate private di luce. Si perdeva ogni tanto nel suono extrasensoriale di un aereo che passava, ora lieve, ora fischiante,
ora lontano, ora vicino. Prodotto solo per l’udito di qualcuno che ci fa caso. Dove andrà? Da dove torna?
Domani Timothy compie diciotto anni, non male pensa. La festa sarà il 29 settembre, nella palestra abbandonata di Kentish Town che brillerà per una sera di musica arrangiata e aspiranti artisti di ogni genere. Ormai occupata da anni da ragazzi di ogni tipo di età e nazionalità, stanchi di pagare un affitto costoso quando letti pieni di polvere e la fila per pisciare non sono un problema per il normale vivere. Buffa storia lo squat. Era un piccoletto, ma era piuttosto sveglio per la sua età. Lavorava con Natalie tutte le settimane. Il piano era semplice. Natalie organizzava il suo solito party ogni sette giorni, in diverse case occupate sparse per la città. Tim, come lo chiamava Natalie, andava lì, scriveva un po’ sulla situazione seduto in un qualsiasi angolo di muro. Criticava o elogiava un qualsiasi ritaglio musicale d’impatto, gli piaceva osservare la gente persa nel proprio isolamento interiore, protagonista del proprio viaggio personale. Tra gesti e movimenti. Semplicemente, si metteva in loro. Era la scena, era sua. Raramente partecipava in pieno alla festa. Il suo compito era solo aspettare che il dj, il chitarrista, la voce, la cassa o qualsiasi altro suono prodotto finisse con lei che staccava la spina. Non so perché, voleva sempre staccarla lei. Da quel momento, Timothy posava la sua penna, indossava i suoi guanti di lattice e iniziava a pulire da cima in fondo tutto lo squat. Tutta la festa. Tutti i fine settimana. Non era un lavoro poi così faticoso. I gruppi delle case occupate di solito erano molto alla mano, arrangiavano musica sfumata per i pochi rimasti, li intrattenevano, si scambiavano opinioni, idee, ambizioni vitali di vita per rivitalizzarsi un po’ e nessuno, o quasi, ha lasciato fare il lavoro sporco senza offrire un po’ d’erba. Non male pensava, ma continuava a sognare quel mare blu scuro ormai troppo presente nei suoi appunti stropicciati, lontani dal grigio della sua Londra. I soldi dello squat dei fine settimana andavano tutti dentro la tasca del divano letto nella soffitta che Tim e Nat condividevano da anni. Il motivo dei risparmi, il motivo dei rave abusivi, il motivo del perché Natalie ogni sabato arrivava in soffitta con un paio di guanti di lattice e rideva dicendo: “è sabato baby”, il motivo di tutto questo era chiuso dentro una foto di un faro attaccato in cucina, che rispondeva al nome di Byron Bay. Una piccola frazione australiana. Un sogno comune da cui prendere forza per realizzarlo, ogni qualvolta la voglia di una tazza di latte a colazione implicava il fatto di aprire il frigo e ritrovarsi quel magico faro davanti. Il faro di Byron Bay. Ognuno ha i propri sogni da custodire con cura. E scriveva. Per vivere in questa Londra
reale invece, Timothy, lavorava all’autolavaggio di un indiano per qualche sterla a vettura. Natalie, organizzava queste feste da sballo con zero critiche su audio o sceneggiatura, si era fatta un nome nei
vicoli di quartiere dove bazzicava fantasma a creare feste illegali per giovani ribelli animali di una notte. Questo era il suo tempo libero ovviamente. Nella vita reale e sistematica di una società grande, invece, cambiava personalità. La medaglia ha due facce. Lo diceva sempre. Passava da casse rumorose e vibranti ad un altro tipo di vibrazioni. Era maestra di un asilo per bambini, su una piccola collinetta verde di prato ben curato, congiunta alla strada principale da un sentiero ondulato a gradini sconnessi, leggermente in salita. Adorava quel lavoro. Natalie adorava stare tra di loro, in mezzo ai bambini, circondata da innocenza. Li considerava come il giusto salvagente per non rischiare di affogare. Forse perché in fondo, si ritorna sempre a cercare il punto di partenza più importante per noi ad un certo punto. Rendendoci conto da dove veniamo, vivi e inconsapevoli del caotico intreccio di eventi futuri che marchieranno a inchiostro indelebile tutto il nostro continuo andare, muteranno con noi cambiandoci quanto basta per poi rimetterci alla prova quando il destino, ad un certo punto della tua vita si ferma ponendoti una domanda: “Ti ricordi il messaggio iniziale con cui sei partito?”. C’è chi riesce a recuperare il sogno, e chi cade nelle mani del destino. Casuale pedina pilota automatico di giorni che terminano con notti che arrivano e anni che passano tra rimpianti e delusione. Stai attento, a certe domande. La libertà sta dietro un semplice trabocchetto. Il tuo. Era un lavoro che la faceva stare bene, diceva. Passava senza sensi di colpa tra cassa pesante e biberon, tra ratti e polvere a disinfettanti
e criceti giocattolo. La sua vera passione era dipingere. La sua vera ossessione era non riuscire mai a terminare un suo dipinto. Antidoto e veleno. Lei, come dicevo, veniva dal sud di Londra, in un piccolo appartamento abbastanza alto da avere una vista angolare sullo skatepark di Brixton. Viveva in soffitta con Timothy e la soffitta aveva una finestra in alto raggiungibile con una piccola scala di legno che avevano costruito con del materiale trovato davanti una casa in costruzione. Il tetto era il loro piccolo confessionale sul mondo. Era mora, con le gambe più belle che avessi mai visto, due occhi neri penetranti, di quelli che comandano lo sguardo di chi osa osservarla, una frangetta mai pettinata sotto una cascata di capelli castani e due lunghi rasta che da dietro cadevano davanti, scivolando sul seno. Mai truccata. Vestita solo di uno di quei sorrisi che cambia il volto di chi sa come osservarlo. Quando il sole bruciava il primo giorno d’estate era impressionante in quanto poco tempo assumesse colore. Lei diceva sempre a Timothy frasi del tipo: “Versati la birra addosso, tra due ore sei nero”. Lui semplicemente la guardava. Si scolava la sua birra, e rimaneva bianco.
[…]
(Estratto dal libro “STANZAKB7 Artisti di strada” -Aletti Editore- di Benjamin Klach)
Collana "Gli Emersi" - Narrativa
pp.152
ISBN 978-88-591-2863-2
Il libro è disponibile in versione e-book a Euro 4,99
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