| Fresagrandinaria 12 agosto 2016
Il vostro conterraneo Emiliano Longhi ha pubblicato un libro titolato “Poesie”, che oggi presenta qui a Fresagrandinaria, sua terra nativa.
Il poeta scrive, il lettore interpreta, ma non è l’interpretare il vero scopo e la reale finalità della poesia.
La poesia va intesa come emozione, sentimento, sensazione e tutto ciò che riesce a trasmettere nel profondo dell’animo di colui che legge.
Il peggior interprete della poesia è il cosiddetto intellettuale che intende avvilirla con presuntuosa e cattedratica saccenteria, laddove la poesia è solo riflessione che penetra a fior di pelle nell’anima; anima resa priva di conoscenze a priori e che si propone libera ed aperta alle emozioni provocate e suggerite al proprio intimo.
Emiliano racconta poeticamente sentimenti, amore, rimpianti, nostalgie, ribellioni, proteste, introspezioni, a volte melanconico, a volte solare, a volte nostalgico.
Spirito dal “multiforme ingegno” errante per il mondo ma con nell’animo la certezza del ritorno alle sue origini, alla sua terra, all’amata Fresa.
Per citare, o meglio, parafrasare i suoi versi: “se il vento lo spinge, fresco e soave, come nuvola peregrina verso ignote mete”, rimane sempre nelle sue viscere una “piazzetta di Fresa ad agosto” “assolata e cotta dall’arsura che oltre il vespero perdura, tra vecchie case stretta” o la “cantina di zio Tommaso” con i suoi “giocatori avvolti nel fumo” …. “facce dalla dura fatica segnate e scure” che “sedevano, felici, ai tavoli dello svago serale” con “coppole, barbe nere, come acciaio dure”.
E qui nasce e si apre lo scenario di una emblematica rappresentazione struggente e malinconica: l’abbandono forzato, da parte di molti fresani, della propria terra, della propria origine, della propria cultura; l’allontanamento ineluttabile (e in special modo dagli inizi del secolo scorso), per cercare altrove l’opportunità di un lavoro per una vita dignitosa. Ma lo strazio dell’abbandono di quella “piazzetta” di quella Fresa abbarbicata sulle rocce del colle che sovrasta quel mare “che verde è come i pascoli dei monti”; lo strazio di un addio protratto nel tempo; il brivido di perdersi alle spalle la vista di quel campanile proteso verso il cielo d’Abruzzo, e trovarsi costretti a raggiungere terre lontane e sconosciute, tutto ciò giustifica quelle lacrime soffocate a stento.
E non c’è retorica in tutto questo!
E poi, più avanti, il desiderio dell’anelato ritorno.
Ecco, il ritorno, anche se solo a tempo determinato, sembra ripagare quell’addio che, all’epoca, provocò tanto dolore e disagio.
La propria terra, nel caso di specie Fresa, ha richiamato a sé da ogni parte d’Italia e del mondo, la sua gente, accogliendola di nuovo tra le sue case e i suoi campi profumati di liquirizia e finocchiella selvatica, con i suoi colori ocra di stoppie di grano e fieno, con i rintocchi del suo campanile e i suoi abitanti gentili e forti.
La festa del ritorno è il calpestio dei passi degli esuli e delle loro progenie sulle strade e vicoli e viottoli agresti di una terra amata e di una natura amica.
E per riportare le parole del poeta Emiliano e dedicarle a Fresa nei giorni del ritorno: “lascia che io viva / con te / questi ultimi brandelli di esistenza / che a morsi mi strappa questa vita”.
Filippo Chiricozzi
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