| Giuseppe Di Matteo (Bari, 1983) è un giornalista e vive a Milano. Collabora con il Giorno e la Gazzetta del Mezzogiorno, dove si occupa di Cultura e Storie. Ha scoperto la poesia per caso in una notte fresca di settembre di fronte a un papiro di mare illuminato da una luna dimagrita in falce. Questa è la sua prima raccolta poetica.
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Un’esplosione di versi che incanta e disorienta. Un esordio di un nitore sorprendente. Un linguaggio diretto e portatore di spleen. Un equilibrio costruito sui contrasti. È così che mi appare la poesia di Giuseppe di Matteo, capitano coraggioso che si avventura nei meandri della vita, mai negandosi esperienze, costantemente in grado di vivisezionare i suoi sentimenti e le sue contraddizioni.
Questa bella silloge di esordio, che vede le stampe di Aletti Editore, raccoglie liriche scritte nell’arco di un anno, frutto di un periodo fecondo di ispirazioni e di emozioni (“Prendo emozioni e le trasformo in parole”). Singolare e quasi sbalorditiva la capacità dell’Autore di vivere la vita intensamente e altrettanto intensamente di costruire con magica immediatezza versi e testi poetici. Come un vulcano in eruzione. Come un fiume in piena.
La vita ha condotto il Nostro, prima per motivi di studio e poi di professione, a vivere lontano dalla sua terra, l’amatissima Puglia. Lontano da un Sud che ritorna prepotente nelle sue liriche: “il mare, la lingua degli ulivi, la nonna, i bocconotti, il profumo di casa”...
E questo suo essere “errante, sradicato”, ramingo crea in lui un cortocircuito fertile di parole, un’inclusione e una esclusione nei e dai posti in cui è andato a vivere. Accade che questi luoghi diventino ragione e sentimento, accettazione e rimpianto. Anche amando Milano o Roma o Londra o Bogotà, egli avverte improvvisamente di essere “uomo in esilio”. E il richiamo del “suolo natio” lo riconnette alle radici, perché partire per lui vuol dire tornare a quel “mare e a quella terra rossa”, anche se ha perso la certezza di trovare “un posto dove stare”. La parola “esilio”, più volte reiterata, racconta, quasi etimologicamente, del suo sentirsi fuori, lontano (ex) dalla propria terra (solum): una pena sottile (“patria mai avuta”) che il poeta cerca di esorcizzare, senza davvero riuscirvi. E allora “sigaro e bottiglia” accompagnano un monologo interiore per resistere alla malinconia e al senso di fallimento...
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Estratto della prefazione di Lizia De Leo
Docente di Lettere
Dati sul libro:
Collana Gli Emersi - Poesia
pp.168 €12.00
ISBN 978-88-591-3598-2
Il libro è disponibile anche in versione e-book
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