| Due recensioni sul libro di Roberto De Caro, "Un po’ per celia un po’ per non morire", edito dalla Aletti Editore: una di Andrea Franchi e l'altra di Felice Accame.
Recensione di Andrea Franchi, letta durante la presentazione bolognese del 18 ottobre 2016
Per me questo incontro è essenzialmente un momento d’amicizia, un dialogo in cui parlare dell’occasione che Roberto ci ha offerto di incontrarci.
Uso il mio linguaggio che non è quello letterario. Vorrei parlare dell’importanza della scrittura e per parlarvi di questo, vorrei parlarvi di questioni di confine. Sono forse ossessionato dal confine da quando mi occupo di richiedenti asilo. Dai confini invisibili ancora più potenti di quelli visibili, i con-fini che compaiono nello sguardo.
“La vita si svolge all'interno di un confine che definisce un corpo. La vita e l’impulso alla vita esistono all'interno di un confine, il muro selettivamente permeabile che separa il milieu interno dall'ambiente esterno. L’idea di organismo è imperniata sull'esistenza di tale confine. […] Se non c’è confine non c’è corpo e, se non c’è corpo, non c’è organismo. La vita ha bisogno di un confine. Io credo che la mente e la coscienza, quando infine fecero la loro comparsa nell'evoluzione, riguardassero innanzitutto la vita e l’impulso alla vita all’interno di un con-fine. In grande misura è ancora così”. Antonio Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi 2000, p. 170.
“Selettivamente permeabile”, dice Damàsio. Il confine nel significato positivo, è paradossale: è un limite che deve essere continuamente superato. E’ il paradosso della forma vivente: non può perdere il suo confine, ma deve continuamente superarlo: questa è la tras-formazione, come dice la parola. Ma se lo supera definitivamente muore.
Che cos’è il tumore se non una rottura dei confini, dell’ordine, della forma dell’organismo?
E che cos’è la scrittura se non un ristabilimento di forma, una ripresa della forma, dando forma al proprio vissuto e offrendolo alla comunicazione al dialogo che qui oggi appunto stiamo facendo? Roberto fa la sua lotta al tumore con il medium fondamentale della scrittura, che da sempre ha avuto questa funzione di perpetuare la vita oltre il suo tempo finito.
Non posso non pensare a esempi estremi del bisogno di scrivere, come a quei detenuti di Auschwitz che seppellirono sotto terra dei foglietti prima di morire, trovati poi casualmente anni dopo, ai graffiti nelle carceri. Ma anche il semplice bisogno di scrivere un Diario, ancorché privatissimo rimanda ancora al carattere salvifico della scrittura… Io stesso, durante un grave episodio di malattia, qualche anno fa, ho scritto un testo intitolato La malattia come esperienza filosofica…
Il volume scorre lungo il filo dei ricordi con una scrittura piana, scorrevole, la cui voluta semplicità serve per riportare in levità, senza nasconderla, ma offrendola e insieme contenendola, un’esperienza drammatica che genera il bisogno di questa scrittura. La sua lotta quotidiana contro l’angoscia che la presenza nel corpo di questo principio di disordine, di rottura dell’Unita dell’organismo. Esemplare è, a questo proposito, il breve testo “Ombre” in cui io leggo il significato esistenziale di questo libro
LETTURA
Qui l’angoscia trapela in lievità, con un’ironia trepida, l’angoscia non è più nemmeno l’ombra classica – “non bisogna esagerare”, scrive Roberto - ma sono, in una sorta di plurale diminu-tionis: le ombrette.
L’ultimo testo del libro “E infine…” rompe la forma del racconto e affronta direttamente il lettore, mostrando il suo senso esistenziale, la sua forma temporale: se la malattia blocca la progettualità, cioè il rapporto positivo con il tempo, instaurandone uno negativo, la scrittura, la narrazione reinstaura il rapporto positivo, progettuale. E’ ancora il carattere di donazione di forma della scrittura, in questo caso riguardo al tempo. La donazione di forma al tempo, che per eccellenza è ciò che sempre sfugge, è il progetto e la scrittura, la narrazione è progetto, nella sua essenza…
La levità che mostra e insieme tiene a distanza è la cifra del volumetto, indicata sin dal titolo pucciniano, e questo vale anche per i riferimenti culturali e politici, tenuti in una specie di sfondo che toglie ogni pesantezza ma li mostra come un nutrimento indispensabile dell’esistenza.
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Recensione di Felice Accame, letta durante la presentazione a Milano l’11 novembre 2016.
Libreria Odradek, 11 novembre 2016
Roberto De Caro, Un po’ per celia e un po’ per non morire (Aletti editore)
1.
La parola “celia” – e il verbo “celiare”. Due ipotesi etimologiche: una parola greca che, storpiata un po’, stava per “scherzo” e, così come riferito nel Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi nella sua veste di poeta (siamo nel seicento a Firenze), sarebbe anche il nome di una commediante, scherzosa e burlona.
In entrambi i casi, a mio avviso, non si rende giustizia al significato odierno del termine. Ormai ridotto ad uso “dotto”, “celia” è sì scherzosità, ma ben temperata, educata e modesta, e contiene un invito cortese a “non crederci fino in fondo” nella scherzosità stessa perché l’autore è pronto a defilarsi nella sua schività, non volendo a nessun costo infastidire.
Ed è quello che un tempo si sarebbe chiamata una “poetica”, ovvero un programma di scelte letterarie.
2.
A Roberto De Caro dobbiamo analisi spietate della storia del Novecento, scritte in collaborazione con suo padre Gaspare, come La sinistra in guerra e Storia senza memoria, e numerosi studi relativi alle arti: dalla musica del Settecento all’opera di Paul Klee.
A lui, poi, dobbiamo anche un’iniziativa coraggiosa come la rivista Hortus Musicus – una rivista a carattere interdisciplinare destinata a rimanere nella storia della cultura italiana – che è uscita in 24 volumi dal 2000 al 2005 e alla quale ho avuto l’onore di collaborare.
Hortus Musicus, peraltro, pur focalizzandosi sulla musica in particolare e sulle arti in genere, mai ha trascurato l’assunzione degli stessi punti di vista critici che hanno caratterizzato le analisi di De Caro.
3.
C’è da chiedersi, allora, perché De Caro ceda alla tentazione del letterario – confezionando un libro in cui è la forma del racconto a dargli voce. La risposta la dà l’autore in più luoghi e nelle più diverse circostanze delle sue narrazioni. Al di là dell’ultimo brano – E infine… - numerosi, infatti, sono i riferimenti ad una cesura netta che, d’improvviso – inattesa -, segna il percorso lineare della vita dell’autore: la diagnosi di una malattia – una malattia non confinabile fra date di inizio e di fine, invalidante e non curabile.
Riducendo la percezione di durata – come se venisse meno il tempo - questa cesura giustifica abbreviazioni, piccole scorciatoie più riparate – non consente più l’ampio respiro della salute innanzi a sé, drasticamente taglia ogni progettualità. Da ciò due tipologie di soluzioni. Da una parte l’affido alla memoria – e la conseguente riscoperta dei tasselli apparentemente più modesti del mosaico del proprio passato – e, dall’altra, la tentazione di sintesi in invenzioni letterarie più emblematiche.
Una lezione sulla provvisorietà del sé e sull’attrezzatura indispensabile per affrontare l’emergenza.
4.
Per restituire convenientemente la rigorosa pulizia di scrittura e per contestualizzare al meglio l’intera raccolta, ne leggo due segmenti: Una gita a Cinecittà e E infine… - che, come si diceva, ne costituisce la conclusione – con la sorprendente positività che esprime.
Autore: Roberto De Caro
Titolo: Un po’ per celia un po’ per non morire
Collana Gli Emersi - Narrativa
pp.108 €12.00
ISBN 978-88-591-3546-3
Il libro è disponibile anche in versione e-book
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