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Info sull'Opera
Autore:
Rassegna Stampa
Tipo:
Poesia
 
Notizie Presenti:
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ROCCA IMPERIALE - racconto di Fabio D'Alessandro

di Rassegna Stampa

Dal villaggio Touring di Camerota risultavano, al Tom Tom, due ore e mezzo di macchina. Forse lunghe, sottoposte ai 32 gradi delle 14,30, ma non impossibili con l'aria condizionata. E poi, a finestrini chiusi, senza il turbinare del vento, a 120, sarebbero stato silenziose. L'appuntamento era per le 17 a Rocca Imperiale. Il castello Federiciano: c'è anche una Marina di Rocca Imperiale.
Da Camerota si risale fino al bivio per il Golfo di Policastro. Poi, superstrada infestata dai multavelox fino a Padula-Buonabitacolo. Salerno-Reggio Calabria col muso in giù fino a Laurìa Nord, a sinistra e, finalmente, si inizia a travalicare l'Appennino. Bellissimo e disteso, il paesaggio. Tempo fa, ma forse ancora oggi, le sue valli erano vie della transumanza di ritorno, da sud, attraverso l'altopiano delle Murge, per gli antichi tratturi nell'interno del Potentino e Materano fino all'Abruzzo. Dava serenità tutto quel verde che filava ai lati della macchina. Ma vestito di colline fresche e torrenti, col bello e dolce delle ondulazioni e colori, nella tavolozza di"Cristo si è fermato ad Eboli" di Levi, nel dolceamaro delle case di pietra e malta giallo-rossa dell'arenaria calcarea poteva diventare aggressivo. Un movimento dal profondo delle viscere della stessa terra indisturbato. Sarebbe accaduto pochi giorni dopo col terremoto. Una rapida trasformazione da pace a pericolo imminente e mortale, una lama a serramanico, nell'impugnatura istoriata del coltello.
È facile innamorarsi del sud. Non perché ci abiti. È per quell'odore di polvere e fieno secco che ti fa subito solstizio di giugno nell'Acerrano. Quell'aria fine senti precedere il temporale di controra guardando il Vesuvio: ed è luglio. Quello di di mare e terra bagnata da pioggia recente, erotismo insolente di una mattina di settembre a Scario. Non è perché ce l'hai dentro la testa. O riconosci, prima ancora che nel naso, quello legnoso e appiccicoso dei fichi nella curva di una strada dal muro a secco diroccato, e sai di essere a S. Giovanni a Piro. O perché, senza che nessuno te l'abbia detto prima, sai che quel muretto andrà in ombra dopo le quattro e mezza di questa giornata. Facile perché la natura stessa viene a prenderti per i piedi appena sveglio. E ti rapisce portandoti per aria col colore dei peperoni, il raso verde e carnoso del basilico e il fresco dell'origano secco prima di chiuderne il barattolo. È l'accento pieno di echi di vento nelle grotte carsiche, quella cascata di suoni di denti, di lingua avara di vocali, che cambiano da una contrada all'altra, da una valle a quella contigua, dal nonno al nipote, che possono far diventare parole salti d'acqua sulle stalattiti. E oggi, perché, tutta questa ricchezza, mescolata da sempre sulla pelle dei miei anni, appariva meravigliosa, fugace e fragile? Come il raffreddarsi improvviso della terra appena il sole di fine ottobre gira dietro la collina? Come se lo stesso ricordo, o il poterlo conservare fossero in pericolo?
Da Lauría planavo giù verso lo Jonio. Mi appariva, senza vederlo, al di là delle ondulazioni. Lo sapevo, era là dietro, a destra (a sud?), oltre le quinte dei rilievi del Pollino, oltre Morano, Mormanno, tutte zone abitate un tempo dagli Albanesi, come raccontava il mio amico Aldo, coi loro annidare silenzi, coltelli e sguardi acuti dietro vicoli e case arroccate sulle pietre. Prima di partire avevo seguito col dito la striscia sulla carta stradale ed ora nell'abitacolo individuavo il mio mezzo muoversi su Google Earth. L'immagine mi si sdoppia, si moltiplica, fuori e dentro. Un punto di vista è lontano, al di sopra, l'altro a fianco, un altro è nell'interno delle mie tasche emotive. Nessuno dei tre è nel reale. Sicuramente c'è anche quello di coscienza automatica, quella che fa i gesti, coordina movimenti e azioni. Ma è parallelo al primo, mi appartiene meno, come se un altro lo facesse. La macchina avanzava senza suono di motore. Ero al volante, ma pure su un aliante ascoltando un lieve fruscio di vento e scivolar di piuma. E più su, da un satellite. Poche altre vetture nell'ora pomeridiana di domenica, nessun trattore lontano, né cani correre con la lingua tra l'erba. Planando in silenzioso girovagare fino ad Episcopio, arrivo alla Valle del Sinni.
Come gran parte delle valli, anche questa ha il nome del fiume. Fiume? Una volta sarà stato sicuramente così, il paesaggio lo ricorda come in racconto accartocciato nel medioevo. Una volta, quella pietraia che oggi ha la desolazione lunare, era vero, specchiava il cielo e accoglieva vegetazione, rane e pesci. Adesso per l'evaporazione e deviazione era stato derubato dell'acqua, privato della propria forza. Le rane se n'erano andate, saltate via, i pesci morti, la vegetazione migrata altrove. L'arido era lungo chilometri, anse su anse, residui di vecchi greti che confluivano, pelle abbandonata di serpente. All'improvviso, verso destra, una striscia blu. Prima piccola e lontana, di acquerello celeste, poi sempre più grande e intensa da contenere navi. Sicuramente lo Jonio, mi dico. Azzurro compatto, ma senza onde e senza barche, grande, ma fermo.
Non era lo Jonio, non consentiva lo sguardo in fuga verso orizzonti di gabbiani, non lo faceva diventare un aquilone. L'occhio sbatteva, ricadendo ostinato contro un argine duro e lineare di cemento, attirato come un magnete. Dritto, senza scrupoli, uno schiaffo inaspettato, ingiusto, improvviso. E, sabbiosa, l'altra sponda, senza vegetazione, con giri e giri concentrici di pietre a livelli diversi di riempimento. Era il lago artificiale prodotto dallo sbarramento sotto Monte Cotugno, la cassaforte che aveva derubato il Sinni. La diga in terra battuta più grande d'Europa. E su un'altura sopra il lago, Valsinni, il paese del toponimo, che guardava indietro alla vecchia valle del fiume, diventata un greto arido, sassi, sassi e sassi emergenti su fango secco e spaccato. Devo dire che una massa d'acqua cinta da diga mi lascia sempre un senso di angoscia, di terrore implicito. Roba da Vajont. Penso sempre alla pericolosità dell'accumulo, al suo possibile mettersi in moto all'improvviso, senza riguardo per nessuna barriera. È la minaccia non espressa di un esercito ammassato. Serve. Serve popolazioni, industrie, persone. Ma fa una spaccatura nella storia, come un terremoto senza ricostruzione.
Ultimo salto sull'angoscia dell'invaso, un viadotto sulla diga. Correvo più delle ruote dell'auto per lasciarmi alle spalle quella massa raggrumata di sotto, come potesse erodere i piloni, arrampicarsi ad edera e attrarmi in lei. Finalmente al di là, guadagno la terra piena, con l'occhio di Valsinni che mi sorveglia dall'alto, percorrendo poi un ultimo lungo segmento brullo. La rassicurazione del tratto di asfalto con poche curve mi porta alla via Jonica. Eccolo là, in fondo. Altro che diga, quello è lo Jonio davvero, azzurro tenue, alto sull'orizzonte, tranquillo come un tratto di pastello.
Bivio per la "Marina", qualche curva larga e la strada si inerpica verso il paese, un normalissimo accumulo di case del sud, pietre vive su un rialzo con uno stretto gomito, prima dei vicoli. Le pareti di alcune di esse si affacciano sulla piazzetta, appena dopo il tornante. Tra una finestra alta e stretta e la porta di ingresso, prudente sopra gradini, delle piastrelle compongono dei versi. La prima, a destra dello slargo è un classico di poesia. Ma di fronte c'è n'è un'altra e dietro, un'altra ancora. È una luce gialla e bianca che si accende qua e là nel grigio della notte. È l'improvviso irrompere dell'anima tra le pietre, un fiotto di emozione che parla attraverso la lingua antica dei luoghi. Ma non è del luogo, non ha accenti limitanti, se ne libera, noncurante delle apparenze rustiche e vola alta. Ha il vento di dentro che la invola attraverso i labirinti delle negazioni, dei silenzi, delle lacrime non uscite e dei diritti negati, dell'irrompere urgente della gioia e dell'attesa interminabile dei ritorni. Non ha altro verbo che usarli tutti perché non vuole accomodare, proporre progetti e cercare mediazione. Deve uscire e muoversi, senz'altra idea che la fedeltà al vero. Qui la poesia è un delitto il cui sangue imbeve indelebilmente la pietra. Un fiore di cactus che macchia l'apparente deserto. E lo fa pulsante.
Ma la festa non è ancora qui. Piuttosto ci è già stata un anno fa. Ed ora si ripete, più su, al castello.
Poca strada ancora, lasciamo le macchine e siamo uno sciame preso e compreso della propria ispirazione. Accomunati da uno sguardo di forestiero, che passa sospeso tra pareti di un paese "normale", di case grigie, alcune con estensioni di volume abusive, altre di colori ex: quelle precedentemente abusate e restituite all'omogeneo dal dilavamento del tempo. Un piano regolatore automatico. Da un bar esce una interrogazione ironica su un abitante noto, estraneo allo sciame.
"Giovà, hé fatta 'a poesia?
"..."
"E va'!"
L'ingresso al Castello è proprio quello di un castello. C'è una garitta sulla destra, la porta per il controllo dei documenti e due volontari che lo fanno. Generalità. Poi un terrapieno con sguardo sulla valle di sotto a sinistra e lo scalone di accesso sulla destra.
La valle in basso è bella e cupa, piena di calanchi. Ricorda un po', nelle formazioni rocciose, la Cappadocia, o i pizzi bianchi di Ischia. Le rocce emergono come sigari e sono scalpellate linearmente sui lati. Nello scorcio di sotto c'è n'è una palizzata intorno a un pianoro, un terrazzamento da coltivare in alto che sembra esso stesso un altro castello. Provo ad immaginare che cosa dev'essere stato, proprio alla sua istituzione la vita quassù. Sicuramente vita di corte, per il castellano, ma anche per i cavalieri, palafrenieri, anche per i cavalli in grado di salire lo scalone, coi gradoni così lunghi e inclinati. Questi personaggi devono aver dato spesso un'occhiata a quei luoghi, tutti i giorni. Sicuramente avranno visto, laggiù, i servi della gleba sgobbare nella terra. Quel lavoro che come guardie avevano snobbato perché usurante tutta la vita e con nessun guadagno. Meglio rischiarla in tranelli e agguati, o guerre, che morire nel silenzio e nell'inedia. E i servi, dalla valle, guardavano il castello come un rifugio lontano dedicato al signore, che nelle notti di fulmini e tempeste rimanevano al riparo. E che mangiavano carne, tutti i giorni che volevano. E stasera mi sento anch'io un cavaliere appiedato che viene ricevuto a Corte. C'è Udienza, stasera, siamo in tanti. Il gruppo è variegato e non porta regali. Ma abiti diversi, sì. Ciascuno ha un dono da mostrare che reca sotto l'ascella, dentro un trasparente di plastica o un una borsa di Hermes. Ma anche se lo serba con grande attenzione come un cucciolo è un dono che riceve, non che porta. Perché il signore che andiamo a trovare è lui stesso ad omaggiarci. Guardo per aria, all'affresco in cima alla prima rampa di scale. Ben conservato, ben mantenuto. Dà il senso della grandezza e stabilità. Ancora una curva delle scale, due, il buio di un'anticamera e sono sul terrazzo all'aperto, pieno di gente, sedie e illuminato al fondo.
Una serata di poesia è un prato pieno di lucciole, ciascuna con suo lumicino. Saremmo noi, o così pensiamo. Ma realtà siamo tutti insetti piccoli e neri, che hanno vissuto separatamente e conservato il proprio cibo come fosse l'ultimo. E di sera, in una serata come questa, ci innamoriamo di noi stessi pronti, ciascuno, a srotolare il proprio sogno imperdibile. E continuiamo a confondere la luce che ci arriva dal fondo con la nostra piccola e debole, la ribalta con la platea. Avanti a me un bell'uomo dai capelli ondulati, un maglione dolcevita e un giubbotto finto trasandato, è chiamato, si alza, va al suo spazio di tempo e recita come in una pièce di teatro. È ispirato e s'invola di sé, come fosse l'unico. Qualcun'altra ha la voce tremula, e recita i suoi versi perdendo pezzi di vocali. Ma nonostante i frammenti si sente l'anima viva e nuda. Qualche altro si fa accompagnare da un attore vero che gliela interpreta per non perdere nemmeno un'intonazione. Le voci sono diverse, hanno accenti italiani, dialettali, a volte rotti da difficoltà fisiche anche pesanti che rendono complicato il passaggio tra la folla e l'arrivo al fondo di luce. Il risultato complessivo è corale, diversificato, senza giudizio finale. Non si vince un primo posto, ma il diritto a far sentire la propria voce. Io non me la sento: la mia, la chiedo in prestito a un altro. Al momento della mia fila una signora mi fa presente che il suo turno era prima del mio. Lì per lì la guardò incredulo. Oltre al suo "diritto di precedenza" che cosa da in più un "prima" o "dopo" rispetto alla stessa possibilità, fino a un mese fa sconosciuta, di riuscire a stappare in pubblico un contenuto volatile tanto delicato da rimanere riservato?
Alla fine della serata, ringraziato l'uomo che per convinzione fino all'ossessione personale è riuscito a smuovere massi organizzativi complessi come questo, inclusi rappresentanze pubbliche, e cospicue rifuse di danaro, ridiscendiamo la scala e riprendiamo lo sciame nel paesino. Il bar è chiuso, i commenti degli avventori inghiottiti dalla notte e dal sonno. Ma giù, nella piazzetta di sotto, viene scoperta una stele. Una nuova luce si accende dai muri grigio-notte. Poco fa erano versi che volavano sulla valle. Ora delle piastrelle gialle accendono l'emozione.

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