| Domanda - Partiamo proprio dal titolo, come mai “Un po’ per celia un po’ per non morire”? Quali sono gli argomenti ricorrenti, o per lei fondamentali, che tratta in questo volume?
Roberto De Caro - Il titolo è ripreso dalla Madama Butterfly, è un verso della famosa aria «Un bel dì vedremo». È stato già usato da Ettore Petrolini per un suo scritto autobiografico, non una delle sue cose migliori in verità. Il titolo ha un suo fascino per me, sia perché è un bellissimo endecasillabo, sia perché descrive perfettamente i motivi fondamentali che mi hanno indotto a scrivere i ventinove racconti della raccolta. In effetti, come dico nell’ultimo racconto (E infine...), nel 2013 mi hanno diagnosticato un tumore al cervello, maligno e non operabile, che ho affrontato con radioterapia e chemioterapia. Ovviamente la cosa ha devastato la mia vita e anche le vite di chi mi sta accanto e mi vuole bene. Gli oncologi mirano a cronicizzare la malattia. Quindi posso sperare di vivere a lungo. Ma nel frattempo, che fare? Molte cose che mi riempivano normalmente la vita non mi sono e non mi saranno più possibili, come lavorare per la casa editrice musicale, che ho contribuito a fondare e ad avviare, guidare, viaggiare, se non per destinazioni vicine a Bologna, dove risiedo, o impostare ricerche di ampio respiro. Ho cercato di riempire i miei tempi e i miei spazi leggendo, vedendo film, ma capivo che non mi bastava, avevo bisogno di qualcosa di creativo, che mi facesse sentire davvero vivo. Una mattina, dopo aver fatto colazione come al solito, mi sono messo davanti al computer e, quasi senza rendermene conto, ho iniziato a scrivere una piccola storia. L’ho fatta leggere ad alcune persone a me care, che, con mia grande sorpresa, hanno trovato assai divertente e carino il racconto e mi hanno incitato a continuare. Ecco, è nato proprio così il titolo di questa raccolta: un po’ scherzosamente, ma anche un po’ per non lasciarmi divorare la vita.
Molti dei racconti sono di natura autobiografica, ricordi, esperienze passate e presenti. La passione per la pittura e per la storia è un altro elemento fondamentale della raccolta; a tutto questo aggiungerei quello che io definisco una sorta di ‘animismo comico’. Su ogni cosa ho cercato di trasmettere uno sguardo coerente e indignato sul mondo, ma al contempo di gentile compassione nei confronti del genere umano, che ha di fronte l’immane sfida di sopravvivere a se stesso e, se gli riesce, di non distruggere anzitempo il pianeta.
Domanda - Quanto la realtà ha inciso nella scrittura?
Roberto De Caro - Moltissimo, come ho già detto rispondendo alla prima domanda. Probabilmente in una situazione normale non avrei mai scritto racconti: la realtà attuale è stata un motore fondamentale per spingermi verso la narrativa.
Domanda - La scrittura come valore testimoniale, cosa ha voluto salvare e custodire dall’oblio del tempo con questo suo libro?
Roberto De Caro - Ho voluto in qualche modo ripercorrere la mia vita, le mie esperienze, da quando ero bambino ad oggi; ho cercato di riportare alla memoria episodi importanti della mia storia personale, che il tempo aveva un po’ sbiadito. Ma ho anche cercato di riflettere e far riflettere sulla condizione dell’uomo nel mondo, sull’importanza di salvare tutto quanto attiene all’umanità, sono ricorso a volte a toni un po’ surreali, senza mai perdere la leggerezza del sorriso.
Ho voluto mostrare, e spero di esserci riuscito, che la scrittura può essere salvifica, specie in situazioni difficili come la mia.
Domanda - A conclusione di questa esperienza formativa che ha partorito il libro “Un po’ per celia un po’ per non morire”, se dovesse isolare degli episodi che ricorda con particolare favore come li descriverebbe?
Roberto De Caro - Una grande gioia quando mi sono reso conto che sarei stato ancora in grado di scrivere: è stato un momento emozionante capire che potevo farcela. In altri istanti, al contrario, ho temuto di non trovare le parole adatte ad esprimere quello che volevo dire, e ho avvertito un senso di frustrazione. Ma quando ho scritto l’ultimo racconto mi sono detto:« Bravo, Roberto, hai ritrovato un po’ della tua vena creativa!». E poi ho provato tanta felicità quando mi è arrivata dall’editore la bozza della copertina, a mio avviso bellissima, potendosi giovare di un’opera di Alberto Beneventi che generosamente me ne ha permesso la riproduzione. È un quadro straordinario, denso di pathos, come tutta la produzione di Alberto. Spero che i miei racconti ne siano all’altezza, così come spero siano all’altezza dell’esergo che ho scelto, un aforisma di Mario Lunetta, caro amico e scrittore “vero”, che molto mi ha insegnato.
Domanda - Quali sono le sue fonti di ispirazione: altri autori che ritiene fondamentali nella sua formazione culturale e sentimentale?
Roberto De Caro - Ho provato a selezionare alcuni autori fondamentali nella mia formazione, ma è un esercizio spossante: ne salta sempre fuori un altro che non si può dimenticare. Ho anche provato a selezionare le discipline che hanno maggiormente contribuito alla mia formazione, ma anche qui il rischio è quello di rispondere con un arido elenco di ovvietà. Comunque provo a buttare giù qualche nome, senza alcuna pretesa di esaustività, solo un orientamento delle opere sulle quali vado rimuginando da anni. Il film "Andreij Roublov" del regista sovietico Andreij Tarkoskvi, lo struggente "Barry Lyndon" di Stanley Kubrick, la poesia e il teatro classico, i Concerti grossi di Arcangelo Corelli, L’Orlando furioso, l’opera di Giacomo Leopardi, insieme alle poesie di Giuseppe Gioachino Belli e di Carlo Porta. Non posso non citare lo studio di Italo Mereu, "Storia dell’intolleranza in Europa", che mi ha aperto gli occhi – e non ho potuto né voluto più richiuderli – sulla storica insofferenza degli stati e dei regimi nei confronti del dissenso. Aggiungo la testimonianza di Shalamov sui lager sovietici nei "Racconti di Kolima", e quella di Edelman sul ghetto di Varsavia, in particolare il racconto autobiografico "Arrivare prima del buon Dio".
Direi comunque che oltre alla musica, che ho studiato e praticato, la forma artistica per me più emozionante e coinvolgente è la pittura. Recentemente ho visto per la prima volta alcuni quadri di Edward Hopper in una bella mostra a Bologna e ne sono rimasto davvero impressionato. La pittura, la grande pittura è in grado di far letteralmente tremare le vene ai polsi.
Domanda - Ci sono altre discipline artistiche, o artisti, che hanno in qualche modo influenzato la sua scrittura?
Roberto De Caro - Sono onnivoro e mi lascio influenzare da tutte le esperienze artistiche. Anche se certamente ho le mie preferenze, di regola non ho mai opposto resistenza a ciò che non conoscevo e mi incuriosiva. Ho già detto che il cinema, la musica e la pittura costituiscono per me riferimenti irrinunciabili, poiché queste arti sono universi sconfinati e il loro influsso in chi se ne occupa è costante e senza soluzione di continuità. È difficile operare scelte precise, dire ‘preferisco questo a quello’: non saprei se una sinfonia di Beethoven sia per me più significativa di un film di Kurosawa o di un quadro di Hopper, tanto per fare un esempio. Nel tempo ho anche compreso che ogni opera d’arte si recepisce in modo del tutto differente se se ne ha un’esperienza reiterata, è come se non fosse più la stessa, tanto numerosi sono i sottotesti che di primo acchito ci sfuggono. Questo vale per un quadro, per un libro, per un componimento musicale, per un film: per fare un esempio, quando rivedo un film, che mi preme citare, perché per me fondativo, "La sottile linea rossa", di Terrence Malick, mentre presumo di ben conoscere i motivi per cui mi ha tanto colpito, mi ritrovo invece investito e come travolto da un oceano sconosciuto e vertiginoso di emozioni e riflessioni affatto nuove e di cui prima non avevo avuto esperienza. Ogni volta un particolare che rende più intensa e consapevole la percezione del film, così come accade quando riascolto per l’ennesima volta un concerto o una sinfonia di Beethoven. L’arte, la cultura in generale, ci struttura, e mentre ne facciamo esperienza, ce ne appropriamo, quasi per diventare un tutt’uno con essa.
Domanda - Oltre a quello trattato nel suo libro, quali altri generi letterari predilige?
Roberto De Caro - Non ho esitazioni e dico la poesia. È davvero fondamentale per me; non tutta ovviamente, ma di tutti i generi e di tutte le epoche, dai poemi epici ai componimenti lirici, dall’Odissea alla poesia di Esenin.
Domanda - Preferisce il libro tradizionale cartaceo o quello digitale?
Roberto De Caro - Non ho una posizione pregiudiziale, ma preferisco il cartaceo. Ho la casa piena di libri. Ci si affeziona. Lo so che siamo sulla soglia della scomparsa di una civiltà, però ancora non è finita e credo sia ancora in grado di offrirci molto. Nella raccolta il tema dell’informatizzazione epocale dei nostri tempi è affrontato più volte. In generale credo sia un processo davvero troppo rapido e vorrei poterlo fermare, ma mi arrendo alla oggettiva evoluzione delle cose.
Domanda - Per terminare, qual è stato il suo rapporto con la scrittura, durante la composizione del libro?
Roberto De Caro - Come sempre, altalenante. A volte mi ritrovavo a scrivere quasi di getto, con fluidità, sorprendendomi io stesso di aver ritrovato questa capacità di mettere su carta i miei pensieri, le mie riflessioni. In altri momenti, invece, soffrivo, mi sentivo senza idee, temevo che la mia malattia non mi avrebbe mai concesso di portare a termine questo progetto. Ho passato ore davanti alla pagina bianca, un po’ come il protagonista di "Shining" (esagero, ovviamente, io non sono così cattivo!), oppure mi rimettevo in poltrona un po’ sfiduciato. Devo molto a mia moglie, Chiara, che non ha mai smesso di credere in me, e mi ha sempre spronato a continuare, a non abbattermi, perché – mi diceva – prima o poi avrei ritrovato il filo conduttore dei miei pensieri. In passato ho scritto molto, ma cose diverse, saggistica, recensioni, mai avevo affrontato la narrativa. E però ora posso affermare che è stata una bellissima esperienza, anche divertente: non ho voluto affrontare argomenti inquietanti, questo sì, appunto perché avevo bisogno di leggerezza, di qualcosa che rendesse più dolce la mia difficile situazione. Forse nei miei racconti si può avvertire un velo di malinconia, ma solo quello, imprescindibile direi.
Domanda - Un motivo per cui lei comprerebbe “Un po’ per celia un po’ per non morire” se non lo avesse scritto.
Roberto De Caro - Be’, non conoscendone il contenuto, sarei sicuramente attratto dal titolo, dolce e malinconico, e dalla copertina con quel meraviglioso quadro; se poi leggessi questa intervista, la mia curiosità crescerebbe sicuramente!
Domanda - Ha in progetto altre opere da scrivere nel prossimo futuro? In caso affermativo, può darcene una anticipazione?
Roberto De Caro - Sì, ormai la macchina è in moto. Ho in mente di scrivere due lunghi racconti storici. Uno su Marco Tullio Catizone, un calabrese che a cavallo del Sedicesimo e Diciassettesimo secolo si spacciò per il re Sebastiano di Portogallo, scomparso nel 1578 in Marocco, nella battaglia di AlcazarQivir e mai più ritrovato. Il secondo sulla vita di Alessandro Stradella, grande musicista e compositore, che ebbe vita assai avventurosa e che finì ucciso a Genova nel 1682 da un sicario inviato da un nobile veneziano al quale aveva sedotto l’amante.
Collana Gli Emersi - Narrativa
pp.108 €12.00
ISBN 978-88-591-3546-3
Il libro è disponibile anche in versione e-book
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