| “Tutto è perduto tranne la parola”. Intervento di ROBERTO SAVIANO sul potere della parola al Festival della Letteratura di Mantova
Ho voluto intitolare questo incontro “Tutto è perduto tranne la parola”, perché è un pensiero in cui io credo profondamente. Cerco di spiegarmi. Accade che, visti da lontano, certi poteri così immensi, feroci possano sembrare imbattibili, non scalfibili da niente e ancor più da qualcosa che sembra non avere tessuto, non avere forza - in senso letterale - come la parola. Ho capito, invece, che questo è falso. Ho imparato a vedere la potenza della parola, che va a trasformare, divellere, modificare per sempre la genetica della realtà. Non sono parole poetiche le mie, ci sono esempi concreti. Spesso mi si chiede, all’estero principalmente, “pensi davvero che il potere e la criminalità organizzata abbiano paura di un mucchio di pagine?”. La mia risposta è che il potere, in senso ampio, non ha paura dell’informazione in quanto tale, ma dell’informazione condivisa: ha paura che certe questioni diventino argomento di discussione. Non si ha paura di chi scrive, ma di chi legge. Chi scrive diventa pericoloso nella misura in cui è letto da molte persone. È il lettore il vero pericolo.
Nel mio lavoro mi sono scontrato con tante storie drammatiche, incredibili, che mi hanno generato anche una sorta di malinconia. Una per tutte, quella di Christian Poveda, reporter nato in Algeria da famiglia francese di origine spagnola, che decide di andare in Salvador per indagare sulle gang di strada, apparentemente parte della suburra, fatte di violenti personaggi che sembrano lontanissimi dalla nostra vita, ma che in realtà stanno colonizzando il centro America, le strade degli Stati Uniti. Lui va sul posto, per studiare queste persone dall’apparenza mostruosa, con la faccia tatuata, e scopre che essi sono delle pedine utilizzate dai poteri forti. Sono uomini e donne, capaci di ammazzare per nulla, che hanno affrontato una selezione violentissima (chi vuole far parte di una gang salvadoregna, la “mara”, deve sottostare a cinque minuti in cui può subire di tutto – cazzotti, pugni, calci – e, se sopravvive, è parte del gruppo. Christian Poveda racconta questa realtà ne “La vida loca”, visibile su Youtube, un documentario incredibile, girato con il benestare degli stessi affiliati, che vogliono condividere con lui la loro vita, sottovalutando le conseguenze di quel filmato, che sarà visto dappertutto, arriverà negli Stati Uniti, verrà premiato, avrà così tanta risonanza da spingere la comunità internazionale a chiedere di poter intervenire. Quel fatto inizia a pesare sul gruppo, che decide di richiamare Poveda con una scusa e, quando Christian arriva con la sua telecamera, lo ammazzano. Questo è successo non vent’anni fa, ma nel 2009. Christian era tranquillo. Con quelle persone c’ha dormito, gli avevano confidato delle cose intime della loro vita, fatti belli, gli avevano parlato di sofferenza, del dolore di far vivere i propri figli in quelle condizioni. Lui aveva creduto di aver visto la loro anima e non se lo aspettava: aveva talmente empatizzato con loro da non sentire più il pericolo.
Per gente come Christian, raccontare diventa una sorta di ossessione, non può farne a meno, e lo fa senza calcolare le conseguenze (perché si spaventerebbe al sol pensiero che la sua ambizione è talmente grande da giocarsi la cosa più preziosa che ha).
Vale la pena morire per questa cosa? Quando Cristian è stato ucciso (e sono tantissime le persone che cadono ogni anno raccontando queste storie) il suo nome è passato veloce nelle cronache, come un soffio, e io mi sono riproposto di raccontare la sua storia per far capire come la parola può diventare azione.
Se la parola non è azione, non è ben pronunciata. Non è una parola che ti ha invaso. Non mi piace usare le parole per evadere, prediligo e cerco le parole che invadono, ti entrano dentro e in qualche modo provano a darti una strumentazione. Mi è capitato, la dannazione e il privilegio, di scontrarmi continuamente con la potenza della parola. Quando una parola diventa condivisa, passa di bocca in bocca, in quel momento sta facendo qualcosa di fondamentale: la parola non ci sta, arriva e ti dice che non è tutto inutile. Corrado Alvaro, grande scrittore di San Luca, afferma che la vera disperazione di un paese è quando la gente si convince che vivere onestamente sia inutile. Quella è la vera disperazione. E questi poteri vogliono che ci sia una confusa disperazione, diffidenza, la convinzione che siamo tutti disonesti, perché in condizioni simili agiscono con più facilità.
Non siamo tutti uguali. Ogni essere umano ha le proprie contraddizioni, avrà delle colpe, ma bisogna distinguere l’errore dal crimine. E, per crimine, non intendo storie marginali della periferia calabrese o napoletana: stiamo parlando, ed è lo Stato a dichiararlo con le sue fonti, della prima forza economica del paese. Ma di questo non si parla nei dibattiti in televisione, se non quando ci sono due morti famosi all’anno. Lo aveva già detto Falcone.
Il potere della parola l’ho misurato nei casi in cui la parola ha ucciso, nel senso che chi l’ha pronunciata è caduto. Non dimenticherò mai Anna Politkovskaja, immensa scrittrice. Ha sempre raccontato la guerra, non soltanto come testimone. Anna scrive nella tradizione di Gogol, non con l’imperativo, pur legittimo e dignitoso, della cronaca, ma con parole belle, crude, letterarie. La parola letteraria va oltre l’informazione. Le parole della Politkovskaja non si fermano alla sola informazione, ti portano nella scuola occupata dai terroristi Ceceni in Russia. E ti fanno sentire che quei bambini sono stati uccisi privandoli dell’acqua. L’informazione arriva necessaria e spietata, può essere più o meno approfondita, ma la letteratura ti fa stare lì. Poi c’è un’altra questione - e riguarda l’approccio personale del lettore. Per me, la grande differenza tra stare nella lettura o privarsene, è tutta qui: la possibilità di vivere altre vite. Si può vivere tranquillamente senza leggere, lo fa una grossa fetta dell’umanità, ma vivrà solo la propria vita.
Ritornando ad Anna, leggendo le sue pagine, non si può rimanere indifferenti, non prendere una posizione. Ecco perché è stata ammazzata: bisognava spezzare la catena che stava creando. Anna fermava le informazioni, le comunicava e le faceva sentire proprie. Mi vengono in mente le pagine scritte sull’occupazione della scuola elementare di Beslan da parte dei terroristi Ceceni: i bambini disposti dietro le finestre cosicché la polizia russa non possa sparare, ma poi lo farà lo stesso sacrificandoli; con le madri presenti, e tutto quello che è accaduto dopo…
Ricordo quel racconto, che ho letto solo una volta, con tanti dettagli che non posso dimenticare. Una maestra ricorda l’esistenza di un cucchiaio in un cassetto che i terroristi non le hanno sequestrato e lo prende per raccogliere il latte dal suo seno, da dare agli alunni assettati, soprattutto ai più grandi, che si imbarazzavano a prenderlo direttamente dal seno. Già in precedenza aveva provato a versarlo in una scarpa, ma il latte era stato assorbito dalla suola. Quei bambini continuano ad avere sete perché non bevevano da diversi giorni. Finalmente può dissetarli con quel cucchiaio, ma i terroristi se ne accorgono e fanno saltare una mina. Dopo lo scoppio, uno di questi bambini si riprende e si sveglia. Sono al buio, la maestra non può vederlo, e gli chiede come sta. Il bambino, passandosi una mano sul volto, si accorge di essere ricoperto da una sorta di grani: erano i resti degli altri bambini. La maestra cerca fino in fondo di salvare quel bambino dalla aberrazione, e s’inventa una bugia: quella è marmellata di mirtilli che si era rotta con lo scoppio. “Io non mangerò mai più marmellata di mirtilli”, le risponde il bambino.
Quando esci da una pagina come questa, tremi. Capisci quanto le parole siano potenti. Vanno fermate. In che modo? Provando a delegittimare chi le ha scritte: l’avrebbero narcotizzata, rapita e costretta ad essere fotografata in pose pornografiche. Anna lo aveva scoperto; meglio morire che essere diffamata. Aveva paura che, una volta screditata la sua persona, la sua parola risultasse strozzata, vuota, alle orecchie di chi l’avrebbe ascoltata. La delegittimazione, infatti, non si rivolge direttamente al diretto interessato, ma al suo amico, a chi lo stima: cerca di togliere autorevolezza a chi parla. Essendo riuscita a sfuggire a questa delegittimazione, l’ultima strada fu l’esecuzione, toglierla di mezzo.
Tutti i regimi hanno sempre avuto paura delle parole. Dall’impero russo a quello cinese.
Il premio Nobel della pace Liu Xiaobo in questo momento è in un laogai, un gulag cinese. In questi luoghi si producono oggetti destinati alla vendita; nel suo laogai vengono prodotte le doppie spine per la corrente, e ogni volta che mi imbatto in quell’oggetto mi capita di chiedermi: chissà che non sia stato toccato da lui? Liu Xiaobo è stato arrestato, una decina di anni fa, per aver scritto un documento in cui invitava i cinesi a condividere le critiche nei confronti del governo comunista, a riflettere sulle condizioni delle fabbriche, esortando gli intellettuali a riunirsi. L’Accademia del Nobel gli dà il premio, ma lui non può ritirarlo, perché incarcerato. Al suo posto andrà la moglie, che al suo ritorno in Cina verrà arrestata.
Di quel mondo, è difficilissimo scrivere oggi. Nessun Paese vuol mettersi contro quel regime, che ha il potere economico in mano. Allora, perché un regime così forte, che non teme nessun tipo di critica, arresta Liu, un intellettuale fragile, che ha scritto un manifesto? Perché ha paura, non del manifesto in sé ma della condivisione. Condividendo, maneggiamo l’arma più potente che c’è, che trasforma senza ammazzare.
Ho raccontato tante storie come questa. Ho parlato de “I racconti di Kolyma”, un libro incredibile sui gulag nell’Unione Sovietica, delle prime pagine di Solgenitsin, che raccontano la fame nei gulag con poche ed efficaci immagini, come quella dei minatori che, scavando, trovano un pesce fossile e provano a mangiarlo, sperando che dentro ci sia della polpa. In un attimo, quell’immagine ha raccontato tutto. Quella è letteratura.
Mi piace chiudere il mio discorso in compagnia di alcuni autori in particolare. Una è Anna Achmatova, immensa poetessa, che vive il periodo della rivoluzione bolscevica. Il regime la considera una dissidente, una sorta di scarto della società del passato da modificare. Il suo ex marito, che è un grandissimo poeta, viene fucilato, bisognava indebolirla in tutti i modi. Lei era già diventata una poetessa di fama soprattutto in Francia, quindi era difficile toccarla senza dare un’immagine repressiva della Russia sovietica. La prima cosa che fanno è cercare di spezzarle la schiena poetica: le arrestano il figlio. Lei è disposta a scambiare la vita del figlio con la sua. Non serve a molto, lui resta in carcere e lei racconta una scena bellissima: ogni mattina migliaia di donne si mettevano in fila davanti alle carceri sovietiche portando dei pacchi, spesso vuoti, soltanto per vedere l’espressione del secondino. Se il secondino accettava il pacco significava che la persona, marito, figlio, fratello, padre, era viva. Se non lo accettavano era stata fucilata. Quando lei si presenta, il secondino la riconosce: “Ma lei è Anna Achmatova”. Lei fa cenno di sì, e la persona che sta dietro: “Ma lei è una poetessa, quindi può raccontare tutto questo”. Lì c’è una poetessa, piccola magra, devastata dai suoi drammi, che diventa all’improvviso la speranza. Può raccontare, può far esistere, cioè può trasformare. I versi possono essere la possibilità di riscatto da quell’inferno. Tutto quel dolore non sarà inutile, qualcuno saprà.
Questi scrittori, creatori di mondi, mi hanno impedito di arrivare alla disperazione nei miei momenti di crisi; lasciandomi delle testimonianze che mi aiutano oggi, che mi danno una mano quando sto affondando.
Forse la mia poetessa preferita è Wislawa Swimborska, premio Nobel per la Letteratura, polacca, donna graziosa, delicata, ma potente con le parole. Ha scritto quello che io reputo il più bel verso del Novecento (so di dire un’enormità): “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”. Questa frase l’hai pensata mille volte, forse l’hai pronunciata o te l’hanno detta: “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”. Verso semplice, pulito. C’è tutto. E senti quel verso come tuo, ti appartiene, l’hai usato. E, quando questo accade, avviene la magia della letteratura.
Per me, la letteratura è una sorta di manuale di salvezza. Accedendo alle sue strade, si può ritornare alla radice. Queste pagine, questi versi è come se mi proteggessero.
Volevo chiudere con il pensiero di un’altra poetessa, a cui voglio molto bene, che è Blaga Dimitrova, scrittrice bulgara. C’è un’immagine stupenda, che mi aiuta nei momenti difficili. Quando sei stato sconfitto, maltrattato, non per forza, nell’economia finale della tua vita e di quella di chi ti è vicino, è tutto negativo, è tutto perduto, come scrive la Dimitrova, nella meravigliosa sintesi della poesia: “Nessuna paura / che mi calpestino. / Calpestata, l’erba / diventa un sentiero”.
(Testimonianza raccolta da Teresa Filomeno pubblicata sulla rivista Orizzonti n.43)
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