| “Alla Triade immacolata/ or lamenta l’accioccata./ “Ma che tedio la giornata,/ sempre uguale, uggiolata”. È il capoverso della sesta ballata (chiamiamola così, ma il termine è improprio e lo vedremo poi) scritta e recitata con successo in teatro da quello che potremmo definire un cantastorie. Poiché tale si può definire Giovanni Previti, anacronistico ma fino ad un certo punto perché sì, è vero che oggi, nel secolo dei social, dove se non sei un internauta del profondo rischi di trovarti a margine, ma è parimenti vero che certe cose fanno ormai parte del nostro Dna italico e non c’è internet che tenga.
Anzi, poiché tutto è consequenziale e il presente-futuro attinge la sua linfa (rinnovandola) dal passato, esiste un collegamento fra il “contar storie” in versi liberi o baciati e un sms o un tweet. È il filo rosso che segna da sempre il lungo e tortuoso cammino della cultura umana, dove ogni cosa ne genera un’altra e dove “alto” e “basso” in apparenza sono distanti mentre in realtà sono le due facce della stessa medaglia. Cultura egemonica e cultura subalterna, l’una d’intelletto l’altra più di umori, popolare, e in quest’àmbito, fra i due poli, muove l’agile e frizzante musa di Giovanni Previti.
Sei capitoli dove si narra in versi sciolti e a rima baciata di vizi (tanti) e virtù (poche) dell’umana genìa ricorrendo ai toni dell’apologo che rimanda ai classici, da Esopo, Fedro e Apuleio fino a La Fontaine. Uomini e bestie incapsulati in rappresentazioni allegoriche nelle quali fungono da personaggi-simbolo di una condizione morale alterata. Così nel testo che dà il titolo al libro “Ahi, somar di basso raglio”, quando credere nelle proprie doti sfocia nella presunzione e, di contro, chi non si esalta ma si presenta con umiltà ottiene il consenso del pubblico.
O la parabola del figlio viziato ne “Il fiocco di Eriprando”, il ragazzetto mammone destinato a impattare nella vita, con un chiaro richiamo a quello che oggi si definisce bullismo. “Sul suo cuscino dorato/ Eriprando è agguancialato./ La mamma aria di festa,/ spiraglia la finestra.”, ma l’idillio non può durare e il risveglio è amaro, perché bisogna camminare con le proprie gambe e non restare attaccati alle sottane materne. “Son la vita chiaro-scura,/ per nessuno mai sicura./ Dalla nascita alla morte/ lascio tutti alla lor sorte.”
È evidente l’intento non moralistico ma morale di queste sapide composizioni che più ci si addentra più ci si accorge che affondano le radici in una tradizione ben definita. È quella del “cunto”, il narrar storie, parte precipua del folklore siciliano (vedi il Pitrè), che Giovanni Previti, siracusano doc, ha ovviamente nel sangue. Un po’ giullare, un po’ oratore trascorre dal sorriso ironico al cipiglio, senza dimenticare quella calda umoralità popolaresca che è il cuore del “cunto”. Così “La lampada del nonno”, dove “di tutto l’universo, son le tre fasi alquanto:/ il Nonno del vissuto, il Vaso del filtrato,/ e il Santo del beato,/ e tutti e tre insieme, del ciclo del Creato.” Ovvero l’eterna sequenza che governa il flusso cosmico, la vita che nasce dai fermenti della terra, e mi viene in mente un verso del grande De André: “dal letame nascono fiori”.
L’affabulazione è il tratto saliente, d’altronde requisito essenziale nel contar storie, impreziosita da gustosi neologismi che costellano l’intero percorso narrativo. “Celestato”, “Carpiatone”, “Padrogliarda”, “Lerda”, “Barosato” e ancora e ancora in una pirotecnìa lessicale che quasi rimanda alla Commedia dell’Arte. E poi quel (non tanto) sotterraneo afflato filosofico che permea il tutto ed esce allo scoperto nell’ultima delle sei, “Al suonar del millennio”, che, simbolicamente (mondo tondo o quadro?) affronta il tema esistenziale. Ma tutto muta e tutto resta, perché tale è il cammino umano e il contar storie in fondo non cambia di molto, come recita la filastrocca: “Ruota il pargolo col dondolo, / ruotan figlia, padre e avolo,/ ruotan frati, papi, dotti./ Alla fine ruotan tutti.” La Grande Giostra della vita.
Link diretto dell'articolo a cura di Antonio Mazza:
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