| Quando le sante e onorate puttane si chiamavano tutte Wanda!…
Montanelli per celebrare sentimentalmente la chiusura nel ’58 delle cosiddette “case chiuse” scrisse un memorabile articolo intitolato “Addio Wanda!” Ah! Ne sanno qualcosa i nostri padri, tempo che fu! (scusate l’eccesso di punti esclamativi). Così rivedere il malcapitato e dimenticatissimo film “Wanda, la peccatrice” di Duilio Coletti (1952) ci ripiomba nel tepore di anni che crediamo migliori perché lontani, come remota è la nostra infanzia. Quando la brava puttana (ma accadeva solo nei film?) salvava dal suicidio un brav’uomo, lo consolava, ficcandogli in tasca di nascosto soldi e speranza. Il cinema nostro di quegli anni era così: prostitute ravvedute, “donnine allegre” che diventano suore, emigranti che fan fortuna, figli ritrovati, malvagi scornati col condimento di canzonette sceme e sentimentali (solo nel ’58 Modugno rivoluzionerà a Sanremo il focolare casereccio dell’italico tran-tran melodico). Se poi volete sapere come va a finire la storia, accade che l’uomo gioca, vince, fa carriera, torna dalla santa puttana sventolandole le enormi banconote da diecimila, quindi la accasa, ma incombe il figlio ritrovato, le convenienze borghesi, la dignità, il decoro, così l’ex passeggiatrice che ama di amore puro il suo salvatore-salvato si mette eroicamente da parte. Il sacrificio della donna perseguitata era un topos scontato nei melodrammi dei beati anni ’50. Melodrammi appunto, straziati e strazianti, così che ci si aspetta che da un momento all’altro i protagonisti si mettano a cantare. Ma il contorno è volutamente realistico, disadorno, come era in uso nel post-neorealismo rosa.
Eravamo così e ci piacevano le storie che sapevano di pasta fatta in casa, di bucato con la cenere, di sigarette sfuse e cattiva brillantina. Forse eravamo assetati di onorabilità e di giustizia: i cattivi cattivissimi e i buoni buonissimi. Non chiedete a “Wanda, la peccatrice”, e ai suoi consimili, dignità d’arte, non cerchiamo il pelo nell’uovo quando si va al teatro dei pupi. Torniamo a indossare i cappottoni militari rivoltati, i pantaloni alla zuava, i baffetti alla Nazzari e tuffiamoci nella dolce, materna improbabilità che ci cullò in quegli anni difficili. Dobbiamo un tributo di grata memoria a tutte le Wande che furono nel paese che si tirava su dalla guerra fischiettando: Mamma! o Torna piccina mia!. Uno spaesato Frank Villard coadiuva l’eroina Wanda-Yvonne Sanson, monumentale maggiorata del tempo condannata al consueto ruolo di peccatrice redenta, ripete a memoria i cliché di traviata in carne. Non perdetevi Giulietta Masina e Paolo Stoppa nelle gustose macchiette della piccola passeggiatrice (tornerà con la “Cabiria” di Fellini) e del geloso protettore-amante.
Articolo di Luigi M. Bruno, pubblicato su Orizzonti n.43
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