| Recensione della poesia "Filomena" dell'autrice Daniela Ferraro a cura del critico letterario Giovanni de Girolamo. La poesia è inclusa nel libro "Piume di cobalto" (Aletti ed.)
"FILOMENA" di Daniela Ferraro
E sosteneva il passo
un fiero andare…
Su Filomena
ognuna lingua si tace.
Spiano i vetri
vetusta effigie nell’ora
che si dispoglia
nel vacuo di un tramonto.
E di madre esemplare,
sposa devota
reca cinte le tempie
e il guardo intatto.
Nessuno figge la pena
che in sé annoda
l’accigliata virtù,
spini in ghirlanda.
Finostós e icona nella poesia di Daniela Ferraro
Nella traccia mnestica del nóstos, la Filomena di Daniela Ferraro, assume la valenza gerarchica dell’icona bizantina, essa, nella sprezzatura del gesto focalizza infatti una deissi non tridimensionale ma calibrata al mimetismo ieratico dello stilnovo: dipanato nel poietico in volume d’effigie. Il testo, Piume di cobalto quindi, associando la physis in parusia di parola, reitera nel proprio itinerarium lo speculum virtuale di codesta oltranza che, nella trama prosodica tessuta figurale, palesa stilistica l’immoto andare di Filomena correlata vicaria con la figura dell’ascesi, analogica sulla vicissitudine dell’ente. Insomma, la Ferraro, converte sacrale il vettore escatologico dell’icona e, nel vibrante iato esistenziale del dissidio, colloca inconscio il desiderio latente di un sisma psichico minimale mirato al formarsi del destino che, epifanico, sovrasta l’identità della Kore, oltre il lucente spiare dei vetri. Inquisita nel passo, la Canefora, ha spini e ghirlanda combaciante col bildungsroman dell’autore in fieri e, in contrappunto col paesaggio, affine alla ciclica stagione si dispoglia il vacuo tramonto. Infatti, in simbiosi coll’imago, il poeta, introduce intransitivo un nóstos focale nello sguardo assente della figura che, dal profondo eterno femminino, riflette in superficie le tarsie paratattiche della scrittura, schiva alla deduzione logica. Infatti, il linguaggio di Daniela, risulta essenzialmente di tipo noetico, cioè basato sull’intuizione analogica manifesta dall’ipallage straniante. Intrinseco al fascino introvertito dell’icona, allora anche l’etimo scandaglia il sublime legato al verbo fingere della figura e, in transfert, lo compone in dittico mitico: veicolato dall’incedere di Filomena in cristiano dissidio tra fascinazione erotica e catarsi. Nella postura imperiale dorata d’icona, o nel respiro ionico della danza, la locrese Daniela, qui sugellata tattile un rilievo vascolare e, costellandolo in visione pudica, non lo esprime ad occultare il fenomeno naturale ma a renderlo leggibile, in litofania sul versus dell’arazzo. Tra sinestesie e refrain embricati in chiaroscuro a persuasione dell’icona, o nella patina del sacro implicito al disfarsi della cenere, Filomena, inderogabile possiede il proprio luogo e lo calca, nel ritmo metrico di un solco versificato, oppure in symmetros antico: autoctono al profilo di Nikopea, in parusia di parola.
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