| MOSAICO II 2015 ISSN 2384-9738
Quanto le parole siano in grado di incidere sulla realtà, di cambiare il corso degli avvenimenti, di sedurre, di convincere, irridere, irritare, offendere, trattenere o esortare, lo sapevano bene gli antichi che attribuirono alle parole poteri magici. Nei miti, nei testi sacri, la parola crea e precede il momento stesso della creazione
- In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio (Gv 1, 1 - 18) - o è in grado di riportare in vita come nella favola di Orfeo ed Euridice in Virgilio (Georgiche IV 453 - 527).
La parola, dal latino tardo parabola cioè “similitudine” esempio, che a sua volta richiama il verbo greco paraballo che significa “mettere accanto”, nasce dunque come astrazione simbolica accanto all'oggetto o all'azione che rappresenta. Ma non è solo questo. La parola, come ogni allegoria e metafora, non è mera
descrizione, ma è un'entità creativa: scegliendola si sceglie e genera una realtà. Questa potenzialità creatrice è alla base della poesia, che è per eccellenza l’arte di dominare le parole disponendole in modo da esaltarne tutte le caratteristiche di senso, di suono, trasformandole in una musica capace di incantare, di svelare aspetti profondi e misteriosi della natura degli uomini, ma anche la più evidente quotidianità. Questo intreccio profondo tra poesia e realtà è evidente nella storia dei termini: poesia da poiein che in greco significa fare nel senso di “creare materialmente”, costruire e ricostruire la realtà, ed “epica” da “epos”, la parola che racconta le gesta e le imprese degli eroi e costruisce la memoria collettiva dei popoli. La parola che costruisce fatti, fatti che si reinventano nelle parole.
Borges diceva «Sappiamo cos’è la poesia. Lo sappiamo così bene, che non possiamo definirla in altre parole, proprio come non possiamo definire il gusto del caffè, il colore rosso o giallo o il significato della rabbia, dell’amore, dell’alba, del tramonto. Sono cose così profonde dentro di noi, che possono essere espresse solo da quei simboli comuni che tutti condividiamo.
Perché mai avremmo bisogno di altre parole? Ognuno di noi sa dove trovare la poesia. E quando la poesia arriva, se ne sente il tocco, quel particolare fremito».
Per gli antichi, l’incontro con la poesia corrispondeva ad investitura divina. Esiodo, nel Proemio della Teogonia, narra di aver avuto un sogno che ha determinato la sua vita: «Sono le Muse che un giorno ad Esiodo insegnarono il bel canto, mentre pascolava gli agnelli ai piedi del sacro Elicona. Ecco le parole che mi dissero per la prima volta le dee, le Muse dell’Olimpo, figlie dell’egioco Zeus: “Pastori selvaggi, triste oggetto di biasimo, voi che siete soltanto ventre, noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma, se
vogliamo, sappiamo proferire la verità”. Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nella parola, e mi diedero come scettro uno splendido ramo, staccandolo da un rigoglioso alloro; ispirarono in me una voce divina, perché cantassi il futuro ed il passato e mi ordinarono di celebrare la stirpe dei beati immortali e di cantarli sempre all’inizio e alla fine dei miei canti».
È evidente il significato della poesia per Esiodo: la poesia si qualifica come canto del futuro e del passato, per cui il poeta è un vero e proprio veggente. Essa ha per oggetto sia il racconto di cose reali che di quelle inventate, il potere di descrivere e quello di costruire. Ma c’è un altro potere insito nella poesia. Le Muse esortano a staccarsi da una vita animalesca, dando la possibilità agli uomini di mutare la propria vita attraverso la poesia: esse, infatti, si rivelno ad un pastore selvaggio e dedito solo ai bisogni materiali e gli consegnano come scettro l’alloro elevandolo al di sopra dei comuni piaceri. Poco dopo Esiodo, un racconto simile narra l’investitura poetica di Archiloco. A lui le Muse consegnano la lira, lo strumento con cui accompagnarsi nel canto, sancendo la peculiarità dell’espressione poetica: l’attenzione alla cifra sonora della parola, al valore aggiunto della parola poetica, che consiste nella capacità dei suoni del linguaggio di trasmettere determinate sensazioni o di svelare specifiche realtà indipendentemente dalle parole in cui essi compaiono.
Se per gli antichi l’incontro con la poesia corrisponde ad un’investitura divina, il nostro tempo ha smarrito il senso di questa dimensione sovraumana per una sorta di presenza panica della poesia.
Pablo Neruda in “La poesia” così descrive il suo incontro con la scrittura poetica:
Accadde in quell'età... La poesia
venne a cercarmi.
Non so da dove
sia uscita, da inverno o fiume.
Non so come né quando,
no, non erano voci, non erano
parole né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
bruscamente fra gli altri,
fra violente fiamme
o ritornando solo,
era lì senza volto
e mi toccava.
Non sapevo che dire, la mia bocca
non sapeva nominare,
i miei occhi erano ciechi,
e qualcosa batteva nel mio cuore,
febbre o ali perdute,
e mi feci da solo,
decifrando quella bruciatura,
e scrissi la prima riga incerta,
vaga, senza corpo, pura sciocchezza,
pura saggezza di chi non sa nulla,
e vidi all'improvviso
il cielo
sgranato e aperto,
pianeti,
piantagioni palpitanti,
ombra ferita,
crivellata
da frecce, fuoco e fiori,
la notte travolgente, l'universo.
Ed
io, minimo essere,
ebbro del grande vuoto
costellato,
a somiglianza, a immagine
del mistero,
mi sentii parte pura
dell'abisso,
ruotai con le stelle,
il mio cuore si sparpagliò nel vento.
È un incontro naturale quello di Neruda con la poesia, senza formalità. La poesia lo andò a cercare in un tempo non definito e con una modalità misteriosa. Eppure, egli dice, dopo quell’incontro, poté sentirsi parte pura del tutto, del mistero della vita, come un essere perfettamente inserito nell’universo al pari delle stelle e il suo cuore si distese nel vento.
Dunque poesia come incontro con la realtà. Borges in “Arte poetica” la descrive attraverso una serie di immagini: l’incessante scorrere dell’acqua di un fiume richiama il trascorrere irreversibile del tempo e la
poesia si traduce nello strumento per fermare ogni singolo istante; la poesia che sconvolge il sonno e la veglia, la morte e il sonno e quindi mette in crisi le nostre certezze abituali. Ed ancora, la poesia svela somiglianze inaspettate tra le cose: può concentrare un anno e tutta una vita in un solo giorno o fondere in un’unica idea la luce del tramonto e quella dell’oro. La poesia come rivelazione a noi di noi stessi: possiamo vedervi il nostro volto come in uno specchio. Nelle strofe conclusive due simboli dell’immaginario: Ulisse, dopo anni di peregrinazioni e avventure, raggiunge la sua patria e si commuove nel vederla verde ed umile ed Eraclito osserva lo scorrere del fiume della vita e vi vede la propria immagine riflessa, anch’essa in continuo cambiamento. L’arte della poesia è dunque qualcosa di semplice ed eterno a cui tutti gli uomini, come Ulisse, aspirano, ma è anche coscienza della precarietà del nostro essere.
Arte poetica
Guardare il fiume fatto di tempo e di acqua
E ricordare che
il tempo è un altro fiume.
Sapere che noi ci perdiamo come il fiume
E che i volti passano come l'acqua.
Sentire che la veglia è un altro sogno
Che sogna di non sognare e che la morte
Che la nostra carne teme è questa morte
Di ogni notte, che si chiama sogno.
Vedere nel giorno e nell'anno un simbolo
Dei giorni dell'uomo e dei suoi anni.
Convertire l'oltraggio degli anni
In una musica, una voce e un simbolo.
Vedere nella morte il sogno, nel tramonto
Un triste oro, tale è la poesia
Che è immortale e povera. La poesia
Torna come l'alba e il tramonto.
Talora nel crepuscolo un volto
Ci guarda dal fondo di uno specchio:
L'arte deve essere come questo specchio
Che ci rivela il nostro proprio volto.
Narrano che Ulisse, sazio di prodigi,
Pianse d'amore scorgendo la sua Itaca
Verde e umile.
L'arte è questa Itaca
Di verde eternità, non di prodigi.
Ed è pure come il fiume senza fine
Che scorre e rimane, cristallo di uno stesso
Eraclito incostante, che è lo stesso
Ed è altro, come il fiume senza fine.
Poesia e potere evocativo interpretativo della poesia. Ma quale poesia oggi? Una poesia che descrive, una poesia che racconta, una poesia che evoca?
Non chiederci la Parola
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Non chiederci la parola aveva detto Montale, accompagnando una stagione della poesia e della storia in cui l’uomo rinuncia alle verità assolute, alle formule magiche che possano svelare i disegni della natura e del destino. Il poeta non ha alcuna chiave di interpretazione privilegiata, ma può offrire solo qualche storta sillaba e secca come un ramo, niente di più. Eppure a guardar bene, non si tratta di una poesia di rinuncia, di resa o di rifiuto, ma della consapevolezza che spogliandosi dell’illusione di facili quanto inutili certezze o pregiudizi si intraprenda il cammino verso la verità.
Possiamo dunque affermare che la poesia così privata della autorità descrittiva e profetica di un tempo, non è più poesia della narrazione epica, poesia delle verità assolute del poeta vate, ma è possibilità di intravedere il mondo e qualche volta di reinventarlo.
Robert Levy, un antropologo statunitense, negli anni '50 condusse degli studi sullo strano alto tasso di
suicidi che affliggeva Thaiti.
Scoprì che nella cultura e nella lingua thaitiana non esisteva termini e concetti che si riferissero al dolore che non fosse quello fisico. Davanti al dolore interiore i thaitiani non sapevano come reagire, non avevano parole per esprimerlo, non avevano strumenti per interpretarlo e questo aveva uno strano corrispettivo nell’alto numero di suicidi.
È quanto potremmo constatare nella relazione fra ignoranza e tendenza alla violenza, come risultato –quest’ultima – dell’incapacità di introspezione consapevole e munita di parole per decifrarsi ed esprimersi.
Questo perché la parola incide poderosamente sulla cognizione della vita.
Se questo è vero, c’è qualcosa di più nella poesia.
Il frammento espressivo del linguaggio poetico sembra ritornare prepotentemente ed affermarsi con forza sul
linguaggio della narrativa in un’epoca come la nostra in cui l’espressione si spezzetta, si fa fulmine e diventa folgorazione e immagine dell’anima.
La poesia non è più strumento di pochi e il poeta non vuole sentirsi tale. La poesia diventa cifra dell’esistenza di tutti.
Desolazione del povero poeta sentimentale
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi penso a morire.
[...]
Oh, non meravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
[...]
ma io non sarei un poeta;
sarei semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
[...]
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.
Oh, io sono veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
[...]
Luigi Bray è della nuova generazione di poeti che si accosta in questo modo alla poesia.
Così si esprime in una confessione personale a chi scrive: «Essere poeta non è una mia ambizione. È la mia maniera di stare da solo». (Fernando Pessoa, Una sola moltitudine).
Dentro queste poche righe di Fernando Pessoa c’è tutta la mia voglia di sentire la poesia. È la mia passione da quando avevo dieci anni. Da quando ho capito che c’era un modo di mettere il mio sentire ad asciugare su un foglio per meglio coglierlo, per meglio viverlo. Dentro ognuno di noi ci sono mille sfaccettature, molte ci spaventano, molte le evitiamo, ci fa paura ascoltare il tutto che abbiamo dentro. I miei sono fotogrammi, attimi incrociati, vissuti, o solo sognati, immaginati. Qualcuno le chiama poesie, mi va bene, a me piace giocare con le parole, perché in questo mondo in cui tutti comunicano con tutti, forse abbiamo smesso di parlarci con parole semplici e leggere, ma soprattutto sentite.
È una poesia che chiede silenzio, la sua.
Silenzio
Non turbate
il silenzio della notte.
Silenzio che si incunea nelle ossa,
t’acquieta.
Mi perdo nella notte:
il suo silenzio
diventa il mio.
Un silenzio che scavi nel profondo, che lasci spazio a verità più nascoste fin nelle ossa e che infine sveli
la verità che acquieta.
Nelle poesie di Lugi Bray, autore pugliese salentino, prestato alla Toscana dove ha vissuto la sua esperienza politica e all’Emilia dove attualmente lavora, c’è questa consapevolezza della vita che in ogni sua forma si può e si deve tradurre in poesia di verità.
«Non ho mai pensato d’essere poeta, troppo impegnativa questa definizione. Preferisco continuare a giocare con le parole, per fissare attimi mai esistiti, forse vissuti, forse da vivere piuttosto che credere d‟essere qualcosa che non mi sento d’essere. Condividere dei sentimenti per vedere se possono diventare “comunità”. Mi piacerebbe essere un partigiano della poesia perché la poesia per me è un modo per non essere indifferente, perché è proprio vero gli indifferenti sono proprio odiosi».
E con questa affermazione Bray coglie il significato profondo della poesia nella sua etimologia: dal greco poiein, fare, agire e dunque costruire una comunità di intenti che è sempre una comunità di sentimenti. E c’è nella poesia dell’autore, come suggerisce Maurizio Nocera nella prefazione alla raccolta dell’autore “Albe, lune e barlumi d’umanità”, «tenerezza, incanto, voglia di riscatto, voglia di dire al mondo che c’è bisogno di giustizia sociale, che occorre rispettare la natura, che a volte basta un piccolo sorriso per trovare la soluzione a un problema difficile, che l’umanità è tale se riesce a vedere la bellezza anche nei piccoli gesti della quotidianità».
Nelle raccolta c’è il poeta con il suo mondo di mura salate, di intenso mare, immenso, di pezzi di aria coltivati a secco come i muretti della campagna pugliese; di sangue misto di terra lavata dal mare tempestoso; di Otranto... recipiente di mare, vento e sole... di croci, di spade, di storie lontane dall’antica Bisanzio; ma anche di storie vicine, di tragedie presenti.
Oggi che l’oriente si mostra all’ccidente e quel mare tuo sembra piccolo piccolo...
È il paesaggio del sud, un sud che guarda ad Oriente, con una forte valenza connotativa e che si trasforma in metafora esistenziale. Un’esistenza in cui alla sensualità della vita che nasce e che si rinnova – T’ho amata /ieri sera al ritmo di una milonga; / riverbero di una luna diversa... cercando tanghi persi nelle ombre /di un erotico movimento./ Ho aggiunto acqua e sale/alle mie ferite,/ per gettare il burchello/ in mare aperto./... faremo fastose feste per l’uomo nuovo/ Cerchiamo nutrici - si accompagnano storie di viaggi e di distacchi - Ho raccolto i miei segni / in un fazzoletto di cotone rosso./ Ho licenziato gli amici , i nemici,/ farò quel che posso mi sono detto/ e sono partito...
Il paesaggio diventa condizione esistenziale del pellegrino, dell’esule che nel sud del mondo si riconcilia e si ricongiunge in una umanità ricca, molteplice e sofferente che si ricongiunge / negli angoli del mondo;/ dove esseri umani semplici/prestando fedi e confidando/ si sforzano di sopravvivere./ Non c’è differenza tra le lacrime/ che cercano Grazie. Il paesaggio si fa individuo gli individui diventano isole, Isole perse dentro il mare condannate ad una solitudine esistenziale, arse e che un’umanità cieca non riuscirà a capire.
Poesia, dunque, come consolazione di un’identità sofferente – dietro fiumi di inchiostro,/convinto come sono/ di soffrire meno se pugnalo questo foglio/ - ma anche come segno di appartenenza ad un mondo: il Sud rivolto ad Oriente che racconta con il sole, il mare, storie di umanità protese verso quel luogo dove si rischiara l’orizzonte e l’alba è dietro i monti.
Dicevamo poesia come cifra dell’esistenza di tutti. Eppure il linguaggio poetico ha in sé una potenza, perché la parola è presente non solo con il suo significato, ma per il suo intrinseco valore musicale, diventando per il poeta qualcosa di simile a ciò che per il pittore sono i segni e i colori, per il compositore i timbri dei diversi strumenti.
Con i versi di Luigi Bray tocchiamo quel confine inesistente - un ossìmoro significativo che esprime un confine inteso come punto di contatto – tra poesia e musica. La poesia nasce in musica, in metrica ed il
metro non è che il tentativo di sottolineare la potenza evocativa della parola poetica e di potenziarne il messaggio.
E non è un caso se questa riflessione sulla poesia contemporanea si chiuda con la musica di Pietro Verna, giovane artista classe ‘86, che si laurea nel 2009 presso la Facoltà di “Scienze dell’Educazione e della Formazione” dell’Università degli Studi di Bari, discutendo una tesi dal titolo “Le figure femminili nei testi di Fabrizio De Andrè”.
Artigiano della musica e delle parole come si definisce piuttosto che musicista o cantautore, fa della sua musica e dei testi delle sue canzoni uno strumento di lettura della realtà.
“Ritratti” il suo primo album è la descrizione di un viaggio nell’esistenza, come il viaggio che l’artista fa per presentare i suoi testi, allontanandosi per la prima volta a 26 anni dal suo paese. È un viaggio attraverso l’esistenza descritta nei frammenti di cui si compone ogni esistenza, nella diversità dei punti di vista, delle storie vissute, delle storie inventate che ogni canzone singolarmente ci presenta.
Eppure nella molteplicità dei “Ritratti” che frantumano e moltiplicano la realtà potenziandola, la parola poetica e la musica intervengono a ricomporre un’identità artistica ben definita.
Umanità, dunque, nella poesia di Luigi Bray, umanità dunque, nelle parole e musica di Pietro Verna: un’umanità colta da sensibilità giovani così lontane dall’indifferenza.
LUIGI BRAY
Pubblicazioni in Riviste letterarie: “Prospektiva”, “Il chiasso largo”, “Poeti e Poesia”.
Antologie: “In linea con la poesia”, “Antologie di Giulio Perrone Editore” Roma; Antologia dei finalisti del “Il Federiciano” 2011 - 2012 – 2013 - 2014 concorso di poeti Internazionale organizzato dal comune di Rocca Imperiale (città della poesia) e da Aletti Editore; Antologia per il concorso “Il Tiburtino” organizzato dal comune di Tivoli ed Aletti Editore.
Pubblicazioni individuali Albe, lune e barlumi d’umanità, Aletti Editore, Villanova di Guidonia (RM) 2013.
Contributi on line http://www.liberopensiero.eu/2014/03/15/luigi-bray-albe-lune-e-barlumi-dumanita/
http://www.icaffeculturali.com/comunita/tavolino/Bray%20Luigi/Luigi%20Bray.htm
Eventi Performance incontri poesia musica- Martignano (Le) 2013 con la cantautrice Francesca Romana Perrotta e lo scrittore Maurizio Nocera. Performance incontri poesia musica - Siena 2013 con la scrittrice Ivonne Boscaino e lo scrittore ed editore Fausto Tanzarella.
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