| In un’intervista Olga parla di se stessa.
Dice che l’aggettivo che la descrive meglio è “curiosa”, perché si definisce sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.
Dice di subire il fascino dell’arte, della fotografia, e di tutto ciò che c’è dietro la nascita delle cose. Per questo motivo dipinge, ricama, fotografa, cucina, ma ciò che le viene più naturale è scrivere.
Ciò che farebbe di più nella vita è viaggiare.
“Scrivere... di viaggi” diventa un connubio fondamentale nella vita di Olga Izzo, una tappa necessaria per registrare sulla carta emozioni fuggevoli, per dare ordine e coerenza ai
ricordi appuntati frettolosamente nella mente, ma desiderosi di venire allo scoperto.
La scrittura spesso nasce dall’”urgenza”. Dall’urgenza di dire qualcosa che è dentro di noi e che non si può più tacere, dall’urgenza di lasciare una traccia, di colmare un vuoto, di
aggiungere un tassello alla propria esistenza.
Così Olga comincia “ad appuntare negli anni resoconti di viaggi, sensazioni e percezioni” (prefazione pag. 9), ma il suo obiettivo non è quello di dar vita a un “diario di
viaggio”; la scrittura prende improvvisamente un’altra direzione e dalla penna di Olga nasce Amelia, suo alter ego, da un certo punto di vista, ma non lei. Con un gioco di parole potremmo dire “un po’ lei, un po’ diversa da lei”, un io che prende vita dall’anima della scrittrice per poi acquisirne una propria, desiderosa di vita autonoma e di certezze alle quali approdare.
Amelia prende subito corpo tra le pagine del romanzo con i suoi sforzi, le sue scelte di vita, il desiderio di affermarsi. Si delinea senza pudore, step by step, con i suoi amori e
con le sue regole, che cambiano così in fretta nel corso della narrazione da regalarle sguardi sempre nuovi.
In questo modo la geografia, materia che Amelia preferisce fin da bambina, perché asseconda i suoi sogni e le fa immaginare viaggi avventurosi e pieni di mistero, smette di
avere per oggetto la rappresentazione della terra con le sue superfici e i suoi fenomeni, per dedicarsi allo studio in ogni direzione dell’“atto del guardare”, del modo di guardare,
che esprime stati d’animo sempre nuovi e diversi. Nasce la “geografia degli sguardi”, di sguardi che diventano specchi, riflettori di affettività ed emotività.
Sguardi che esprimono le ambivalenze delle emozioni: amore e odio, desideri e paure, voglia di restare e voglia di fuggire, desiderio di contatto e nello stesso tempo di rifiuto.
Sguardi che intrappolano Amelia in quel “conflitto degli opposti” tanto caro a Jung, diventando intermediari non tanto tra Amelia e il prossimo, quanto tra Amelia e se stessa.
“Sguardo” è sicuramente la parola chiave del romanzo, alternata a specchio e a occhi.
Lo sguardo occhi negli occhi imbarazza il padre di Amelia. (p.13)
Amelia ammicca un sorriso nello sguardo mentre balla (p. 16)
o delinea di fronte ad uno specchio con lo sguardo le linee del suo corpo che cambia (p.17).
Dopo il liceo ad Amelia resta il ricordo degli sguardi che ha evitato (p.18),
dopo qualche anno ancora costantemente Amelia si chiede se mai incrocerà lo sguardo di qualcuno che le confesserà di sentirsi felice. (p.21)
Lo sguardo è legato ovviamente anche alla fotografia, grande passione di Amelia, che cerca di diventare abile nel catturare lo scorrere del movimento.
Ma lo sguardo fatale è quello che Amelia incontra a Berlino.
A Berlino “nell’attesa di coprire un buco di 15 minuti prima della mostra di Dalì è proprio l’incrocio di uno sguardo a cambiare la sua vita. Basta un semplice sguardo, ricambiato da un sorriso automatico, a tempestarle la giornata di strani accadimenti. Amelia perde un guanto e il copri obiettivo della reflex, scivola su uno scalino della metro, che passa senza che lei ci salga. Si arriva a un punto della narrazione in cui Amelia non è più la bambina rinchiusa nel mondo della danza, né la liceale, ma è donna a tutti gli effetti e coinvolge il lettore nelle sue vicende in modo assoluto.
Il lettore viene letteralmente preso, catturato, dall’energia di questa donna, dalle sue pulsioni, dai suoi brividi; percorre le stesse strade di Amelia, vede le sue stesse cose,
prova le sue emozioni. Ritorna la geografia vera e propria, quella dei luoghi, unita alla geografia dei sentimenti; prevale la narrazione che fa scorrere davanti agli occhi le
immagini di una Berlino fredda, ma mondana e mutevole. “Una Berlino che s’impara a conoscere guardandola attraverso i vetri della metro” e nella quale improvvisamente
irrompe un uomo, “esplosione di ironia e mascolinità”. Amelia impara dall’amore ad amare, ma impara anche a soffrire. Il ritmo del romanzo subisce un’accelerazione. L’io
narrante ha ora molto da raccontare e dà sfogo alla memoria intrecciando una serie di ricordi, che forse proprio perché personalissimi, riescono a parlare a tutti. Il racconto
diventa centrifugo, proiettato su scenari ampi e cangianti, nei quali poco a poco vengono introdotti altri temi, altri personaggi, altri luoghi. Gli stati d’animo si susseguono. Da
estremamente felice, Amelia appare triste e delusa; la notte ha freddo, vuole evitare di ricordare il vuoto, il silenzio la incupisce, ma nel giro di mezzo secondo in lei si riaccende il
fuoco sopito della curiosità.
E allora… trolley viola, zaino nero, Amelia parte alla scoperta di un nuovo sogno. E simultaneamente il lettore riparte con Amelia verso il suo stesso sogno.
E si ritrova con Amelia a Los Angeles, a San Francisco, vede con gli occhi di Amelia il tramonto della Down Town di San Josè, le lucine sul Golden Gate, rabbrividisce davanti ad
Alcatraz, luogo presidio di dolore, si ferma con doveroso rispetto davanti alla casa di Steve Jobs e sente il profumo delle ciambelle che Amelia ha comprato dietro l’Angel Island, davanti a un tramonto viola.
Questo è in fondo il potere della lettura, questa è la magia dei libri e del libro di Olga Izzo, aprire cioè infinite strade, dispiegare un mondo da far percorrere al lettore, predisponendogli sorprese e sviluppi sempre nuovi, in un viaggio nello spazio e nel tempo che solleciti l’immaginazione, ma anche la riflessione.
Amelia infatti, intanto, incantata da questi scenari, fotografa, scrive, comunica, ma soprattutto capisce che alcune dinamiche di vita investono prima o poi tutti, capisce che possono anche essere più frequenti le delusioni che le gioie, ma che a distanza di tempo tutto può trovare requie.
Così, più serena, leggera, svuotata, Amelia ritorna a Berlino, riparte ancora per una vacanza in Egitto, e di nuovo si ritrova in una Berlino, raddolcita dai colori dell’estate.
Il catenaccio sul cuore le si è aperto e piano piano si sono allentati i ganci della catena uno ad uno...
A questo punto sembra concludersi il romanzo, che possiamo senz’altro definire di formazione. Amelia è cresciuta, è maturata; attraverso esperienze ed incontri ha superato le difficoltà e sembra che abbia completato la geografia di tutti gli sguardi che l’hanno attraversata.
Prepara le sue cose, può tornare a casa, in Italia, ma mentre sta per chiamare un taxi che l’avrebbe condotta in aereoporto, si accorge che la cassetta della posta è piena, la apre e insieme a tante altre cose trova una busta senza mittente con dentro una decina di fogli scritti fitti e in prima pagina una splendida poesia di Leonard Cohen, cantautore, poeta e scrittore canadese.
Ancora una volta il lettore ed Amelia insieme, direi quasi per mano, leggono tutto d’un fiato la poesia, che rappresenta il congedo, si spera solo momentaneo di Amelia e della sua storia. Sì perché il lettore, a questo punto, ha ancora voglia di sapere, di scoprire gli sviluppi della vita di Amelia. Gli restano in mente mille domande alle quali vorrebbe risposte. Ma per fortuna ricorda le parole della Prefazione e il momento preciso in cui l’Autrice dice che mentre scrive, Amelia continua a crescere e che sarebbe stato impossibile ingabbiare tutto di lei in questo primo lavoro.
E allora al lettore non resta che attendere il seguito della storia.
Margherita Salvatore
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