| Se c'è qualcuno che ultimamente ha scritto Poesia-vertigine, è l'autore di questo libro. Anzi, a leggerlo, c'è quasi da dire che se lo sia inventato lui, il genere. Ci sono due possibilità: è irriverente e pazzo o è davvero un poeta. Non che le due cose non debbano coincidere, a volte, l'arte che va a cercarsi il sublime ovunque in genere non si cura dei sentimenti degli uomini e delle loro bizzarrie. Esiste. A prescindere. E, forse, anche, nonostante tutto.
Detto questo, in quasi ottanta pagine di ritmi spezzati e ricongiunti, formule magiche e visionarie presenze, racconti tra mito e psicosi di parole che suonano come musica, il pazzo o il poeta non fa che cercare disperatamente quel connubio con le armonie e le disarmonie del mondo e dell'universo che sole lo rendono un essere umano in grado di sentire, qualunque sentimento ci sia da sentire... nella pancia... fino a star male... fino a star bene. È poesia di nebbia e colore, di senza e di assenza, poesia di coraggio, come non se ne vede troppa in giro. Con un talento raro penetra la fascinosa forma delle parole e riesce così a penetrare davvero la vita, per apparenza e percezione. È un pugno nello stomaco, a volte nelle forme bugiarde dietro cui c'è altro che la sua cultura, a volte nelle sue più sincere e commoventi manifestazioni della realtà che racconta. Il mistero che nasconde e rivela è il doppio, uno specchio che non riflette l'immagine giusta, che la stravolge, come nelle case deformanti delle giostre per bambini. L'imperfezione che invoca, alla fine, è talmente intrisa di bellezza, da far pensare ad un nuovo gioco, dietro cui la perfezione fa finta di essere altro da sé. Oppure, la perfezione non è che l'ideale a cui ogni forma tende e, solo perché la desidera veramente, raggiunge la bellezza. La poesia di questo autore non è solo fisica del piacere, è forza senza comprensione per forza, senza logica in banale divenire, è sentire. Eppure, racconta tutto il mondo. Per questo può raccontare il dolore. Si recita a volte come un mantra, il dolore, questo mistero di tragedia antica, il momento più alto della conoscenza umana, l'impatto con il non-umano. Quando arriva a questo vertice, si capisce il suo martoriato pensiero, l'incontaminato sentiero interiore di uno che forse di letteratura ne ha masticata più di quanto voglia far sembrare e che, a dirla tutta, spesso se ne infischia. Il pazzo autore rielabora motivi letterari e personaggi, miti e sentimenti della propria convulsa vita perché ha sentito qualcosa di potente, senza dare un nome a questo sussulto; e questo può definirsi arte. L'ha sentita semplicemente esistere. La cultura che lo ammanta è solo un filtro, è l'occhio misterioso che toglie la patina di realtà dalla storia, come in un cannocchiale prospettico, in cui le immagini si confondono dal passato fino al presente, in un mirabolante gioco di vertigini. Così, finisce per fare l'unica cosa che dovrebbe fare un poeta, tirare fuori l'anima. Così solo si scrive per la bellezza; e queste poesie sono lì sulla carta per essere lette, rilette e per prendere piacere con esse. Solo per questo – se non per altro – vale la pena leggerle, leggerlo. Sarà forse un nuovo poeta che passa inosservato, ma che sta dicendo davvero qualcosa che tocca corde difficili dentro. A volte, vale la pena ascoltare un pazzo, soltanto perché ci fa vedere le vertigini.
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