| Per le Edizioni Nottetempo è appena uscito un piccolo, esemplare volume di 128 brevi racconti, talvolta costituiti da una sola frase, e in un caso da cinque parole. La particolarità di queste fulminanti composizioni è che si immaginano dettate in prima persona da uomini e donne defunti, in una sorta di “Antologia di Spoon River” in prosa.
L’autore di questa singolare opera è Franco Arminio, che ha pubblicato poesia e narrativa, distinguendosi per una visione amara e risentita, e tuttavia assolutamente ispirata e commossa, del destino di tragico abbandono e desolazione della sua terra, l’Irpinia.
E così, anche in questo libro, l’orizzonte pare essere solo quello angosciante, definitivo, della morte come fine di tutto: solitudine, dimenticanza, disperazione o indifferenza. Comunque fine senza riscatto. Nella nota conclusiva, Arminio, evidentemente da poco provato da «una morte appena trascorsa» (probabilmente quella del padre a cui è rivolta la
splendida dedica in apertura), afferma: «Allora puoi scrivere intorno a questa cosa che forse regge tutto, intorno a questo niente che sorregge e corrode ogni cosa». E in effetti, la presenza della fine incombe quasi terrorizzante in tutte queste
«cartoline» scritte da un cimitero che si immagina paesano e campano: terrorizzante perché spesso inaspettata e improvvisa (“Stavamo parlando della ringhiera. Come si fa a credere in dio quando uno muore mentre sta parlando di una ringhiera?”).
Si muore senza poterlo prevedere: a scuola, in macchina, davanti alla tv, sul balcone, mangiando un mandarino, durante le analisi in ospedale. Si muore uccisi o suicidi, per una malattia non diagnosticata, e per un tumore covato a lungo. Si muore bambini o centenari, in paese o all’estero, soli o durante una processione religiosa, falliti o vincenti. Alcuni nell’indifferenza totale dei familiari (“All’inizio chi ci ama vorrebbe riaverci, poi si abitua al fatto che siamo morti, poi per tutti stiamo bene dove stiamo”), altre volte nella disperazione di chi è vicino (“Mi dispiace per te, ho detto a mia moglie che mi stringeva le mani. Nessuno quando stiamo bene ci stringe le mani in questo modo, nessuno”).
In alcune persone sopravviene una ribellione finale, velleitaria e inutile: smettono di nutrirsi, o di parlare, o di alzarsi dal letto; in altre appare una rassegnata accettazione. O un umorismo sprezzante (“Sono sempre stato un tipo sfortunato. Il
giorno del mio funerale si parlava del funerale della figlia del farmacista, morta il giorno prima”).
Talvolta quello che rimane al momento del trapasso è tuttavia un’immagine di dolcezza, di nostalgico lascito della vita: una rosa o un geranio appena innaffiato, una luce sul comodino, un maglione verde stretto tra le mani, il profumo del caffè. Altrettanto spesso, tuttavia, si impongono visioni di macabro disfacimento (“Una mosca si è posata sulla mia faccia
sudata: io stavo morendo e lei si godeva il mio cattivo odore”, “Una vicina di casa mi ha messo una mano sulla fronte. Aveva un odore di mele marce”). E in generale, a vincere è una rappresentazione desolata della totale insignificanza della vita e della morte: “Prima di me erano già morte ottanta miliardi di persone”, “Non c’è neanche il niente, almeno così mi pare”.
Un libro che è un piccolo trattato filosofico, disperante. Perché (è l’ultima frase dell’autore): “I morti non ti pensano, non ti mandano nessuna cartolina”.
Franco Arminio, Cartoline dai morti, Nottetempo, pp.137 Euro 8
Recensione di Alida Airaghi, pubblicata sulla rivista Orizzonti n.42
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La rivista la trovate qui:
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