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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Incontro con MARIO LUZI

di Rivista Orizzonti

Mario Luzi ci parla del suo lungo rapporto epistolare con Giorgio Caproni. A pochi giorni dalla morte del grande poeta, le parole che ci ha detto rimangono come una sorta di testamento spirituale.
Dar credito ai giovani che scrivono e di non essere mai paghi della ricerca poetica sono i consigli che Luzi ha dato nel suo incontro.

Mario Luzi è morto. Quando muore un poeta così pieno di vita, con una scrittura che, come ha detto Maurizio Cucchi, è ancora viva e vitale nonostante l’età, lascia tutti un po’ orfani e in un mondo come questo, così pieno di voci che urlano e così privo di eroi, forse il bisbiglio sussurrato della sua voce ormai indebolita dagli anni, manca a noi tutti un po’ di più.
Perché è vero che un poeta continua a vivere nei suoi versi, sulle pagine dei suoi libri, ma è ancor più vero che, quando muore, è l’uomo che viene a mancare, la sua fisicità, quella strana abitudine che hanno i poeti di mangiare, dormire, fare l’amore, ed è quella che le generazioni che conosceranno Luzi solo dai suoi libri non potranno mai conoscere, i più sensibili, forse potranno intuirle.
Il mio rapporto con Luzi non è un’amicizia di vecchia data, ma è stato un incontro di un solo giorno, eppure, nondimeno, oggi mi sento una fortunata, perché ho potuto scrutare nei suoi occhi azzurri un po’ spenti, gli ho potuto stringere la mano rugosa, perché l’ho sentito parlare con quell’accento tipicamente fiorentino che anni di vagabondaggi letterari non gli hanno mai sottratto.
Quando mi sono presentata con la mia bella faccia tosta e il mio libricino di poesie sotto il braccio, qualcuno ha tentato di allontanarmi, ma lui ha fatto un gesto con la mano e mi ha invitato ad accostarmi.
“È così giovane – ha detto – bisogna sempre dar ascolto ai giovani: loro capiscono il mondo meglio di noi.”
Abbiamo parlato di tante cose, un po’ di poesia, un po’ di vita, gli ho raccontato di essere stata l’ultima allieva di Mario Petrucciani e lui ha sorriso.
“Ne abbiamo fatte tante di scorribande insieme, quando eravamo giovani, a Roma”.
Ci sono cose nella vita di un poeta che vengono seppellite con lui, altre invece, che, in qualche modo, riescono a sconfiggere la falce del tempo.
Eravamo a Roma anche quel giorno, non più di un paio di mesi fa, quando è stato presentato l’epistolario che la Scheiwiller ha pubblicato tra Luzi e Caproni, e attraverso il racconto segreto nascosto tra queste pagine, si svela il carattere dei due scrittori, le loro frustrazioni, il loro rapporto, la loro quotidianità che prende vita a ogni pagina.


Roma, 9 giugno 1987
Carissimo Mario,
non ti ho ancora detto grazie del tuo splendido HISTRIO. Perdonami. Sto attraversando un periodo molto travagliato (per la salute e per altro), funestato per giunta dall’improvvisa morte – a Palermo – di mia sorella Marcella, minore di me di 10 anni, e alla quale volevo molto bene.
Il tuo grande cuore di poeta mi comprenderà, ne sono certo.
Ho 75 anni e ½,e mi vergogno di questa mia prolungata esistenza. Tutti i miei cari (compreso mio fratello) sono morti prima dei 70.

Ti abbraccio tuo
Giorgio.

24 giugno 87
Carissimo Giorgio,
mi rincresce davvero che ti sia toccato quest’altro lutto. Ti sono vicino e ti comprendo, credo, intimamente. Anch’io vivo con il fiato sospeso per la vita di mia sorella, colpita da un grave infarto il giorno 14 di questo mese.
Il tempo che ci viene elargito è prodigo a sua volta di questi amarissimi doni.

Ti abbraccio, il tuo
Mario.

Il rapporto tra i due poeti ha radici profonde e lontane nel tempo, se è vero che, ancor prima di Bo, fu Caproni stesso il primo critico di Luzi.

«Gli mandai la mia prima raccolta di poesie, “La Barca”, pubblicata nel 1935. Eravamo entrambi ventenni, e non ci eravamo mai conosciuti. Io vivevo nella mia Firenze, lui era insegnante elementare a Genova.
Caproni recensiva libri su un giornale e io gli chiesi di scrivere qualcosa su di me.
Fu così che nacque la nostra amicizia, come un rapporto dapprima epistolare, poi sempre più vivo.
Lo cercavo quando veniva a Roma, e succedeva spesso, ci frequentavamo come compagni di scuola durante l’oscuramento della guerra.
Giorgio era un ragazzo chiuso, come la petrosa Genova dalla quale proveniva, ma aveva un buon carattere, non aveva alcuna arroganza, nessuna presunzione.
Al contrario Caproni era spesso dubbioso della sua poesia, e aveva il bisogno di mettersi a fuoco attraverso il confronto. E anche di questo era fatto il nostro rapporto, di un continuo incessante dialogo, qualche volta dal vivo, altre volte per lettera».

E proprio leggendo queste lettere, queste pagine piene di “parole così forti e necessarie che si consumano nel dire la verità delle cose”, si entra nel mondo di Giorgio Caproni e Mario Luzi, un mondo fatto di pubblicazioni e concorsi, di frustrazioni e attese editoriali, ma anche della ricerca poetica e del confronto con i grandi, dell’emozione di un pari merito con Saba, dei retroscena dei premi letterari.
Ma è anche un mondo costellato dei numerosi Vittorio (Sereni), Oreste (Macrì), Maria Luisa (Spaziani), Romano (Bilenchi), Sandro (Alessandro Parrochi) e Carlo (Bo), che scendono dall’austerità cattedratica per diventare amici, compagni di sbronze.
Leggendo “Carissimo Giorgio, Carissimo Mario”, viene fuori il ritratto di un’epoca, che è finita per mancanza di interpreti, una ragnatela di rapporti vivacissimi intessuti nell’unico grande comune denominatore della poesia, ma anche un’era di difficile collocazione, perché troppo lontana nel tempo per essere vissuta come contemporanea ma troppo vicina per essere passata attraverso i libri dei non addetti ai lavori, che la Grande Mietitrice, portando con sé Luzi, ha in qualche modo chiuso e consegnato alla storia.
Riportiamo di seguito “Chiaroscuro”, il brano di apertura di questo epistolario, un ritratto sentito e commovente che Mario Luzi ha scritto per l’amico Caproni e che a rileggerlo oggi, assume un altro valore: anche a noi mancano entrambi, ma siamo certi che da qualche parte, si stanno facendo buona compagnia.

Giorgio Caproni, riservato, arguto, cordiale compagno di deambulazioni notturne nella Roma dell’oscuramento. Si vagava un po’ alla cieca, un gruppo sparuto di amici assistiti per lo più da Libero Bigiaretti, marchigiano, romanizzato più di ogni altro advena, romano anzi con pienissima e capitale cognizione del luogo che l’aveva assimilato e che non cessava di meravigliarlo. Si sfociava di quando in quando in aperti spazi illuminati dalla luna. L’oscuro numen di Roma ci soverchiava, il pensiero costante della guerra in corso faceva il resto. C’era bisogno di qualche uscita esilarante che puntualmente si apriva con uno scoppio di risa.
Giorgio, discreto e appartato anche nella brigata, taceva e ruminava. Sembrava a tratti inghiottito dalle tenebre e poteva essere dimenticato fino a che riemergeva nel pieno lucore lunare con il suo profilo di rame e la sua corta e forte capigliatura.
I versi e le prose del suo intero repertorio di autori prediletti venivano a galla in frantumi, in schegge, acutamente analizzati nei loro particolari fonici, nelle rime o assonanze, nelle singolarità lessicali.
C’erano preliminarmente ragioni in quelle scelte, ma a Giorgio di esse non piaceva parlarne. Si fermava volentieri e con ostinazione con i suoi rilievi e scoperte di tipo tecnico. Anche le sue poesie allora mettevano in bella vista i rotismi che le facevano scorrere e funzionare; ne facevano un motivo di grazia sapiente e naïve.
Il capo delle traduzioni (dal francese) era il vero agone: lì l’acume e il puntiglio del meticoloso “filologo” si univano all’estro e alla passione dell’ ”artiere” per la sua materia.
L’idea del poeta-artiste si associò a lungo nella mia mente con l’identità poetica di Caproni, fino a quando l’artiste, o meglio l’artiere fu tale e quale ingoiato dal filosofo e teologo ma ne determinò, credo, non poche mosse e attitudini.
La concentrazione sul mètiere fu costante in lui e precisa: un autentica passione, non una ruse: prima sprizzando freschezza e brio pur nell’elegia giovanile, poi per dare nitore e politezza di gemma agli oggetti della sua incipiente postumità, nel “Muro della terra”: infine nelle “cacce” metafisiche deserte e acuminate dell’ultimo periodo.
Artista concreto, catturato dal particolare, sicuro della riserva di significato e di potere simbolico che ha ogni dettaglio del testo a leggerlo bene e anche scriverlo bene e che ha, certo, anche l’esperienza a consumarla attentamente, Giorgio era un interlocutore piacevolissimo di non molte parole, incline spesso al mugugno, ma tutt’altro che chiuso alla meraviglia.
E quell’amico, quell’interlocutore, ci manca molto.

(Articolo di Flavia Weisghizzi pubblicato sul numero 26 di Orizzonti, Maggio-Agosto 2005)

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