| La Gazzetta del Mezzogiorno parla della raccolta poetica “Vaghe lettere di amore e di rabbia” (Aletti Editore) di Sandro Marano, nell’edizione di Sabato 20 Luglio 2013. Articolo di Leonardo Petrocelli.
Un amore infranto dal veleno della ragione spalanca le porte alla rabbia e restituisce alla coscienza una missione perduta: riannodare il filo spezzato fra uomo e Natura, lasciando che tramonti l’idea, tutta moderna, dell’orizzonte come terra di conquista per la civiltà della tecnica.
È un grido irato da «esule in patria» quello lanciato da Sandro Marano, poeta ed ecologista barese, da anni attivamente impegnato in battaglie a salvaguardia dell’ambiente, nella sua ultima raccolta di poesie «Vaghe lettere di amore e di rabbia» (Aletti, euro 12, pp.58). Una cascata di versi contro il proprio tempo – divisa in due sezioni distinte («Per fare più verde» e «Camminando») ed epilogata dal canto conclusivo «Danza di febbraio» in cui l’autore abilmente si appropria dello stilema che fu di Ezra Pound: raccontare la modernità feroce della speculazione, dell’industrialismo, della finanza, delle banche, ma anche dell’onnipotenza scientifica e tecnocratica, attraverso la delicatezza elegante del verso.
Dondolando «sul mare come sparsi fogli», le liriche di Marano spezzano via i fumi mortiferi di Fukushima, rievocano la tragedia meridionale di Pontelandolfo, si interrogano «sulla vuota retorica che celebrò stragi fraterne» e puntano il dito intonando la più tragica delle accuse: «E voi siete felici?». L’interrogativo è rivolto a tutti coloro che hanno gettato legna nelle caldaie della modernità. I signori della borsa, i mercanti, i politici di destra e di sinistra «mai sazi di grandi opere inutili», gli animatori inesausti del mito-dogma della crescita, ma anche «gli scienziati alacri / chiusi nei loro simulacri / servi della pubblicità». Tutti coloro, insomma, che non ricordano più una verità ormai inconfessabile: non era nostro destino fare «del mondo un grande supermercato» né lasciare che «l’età della plastica» soppiantasse l’età dell’oro.
Eppure questo è esattamente ciò che è avvenuto. Le rotte della storia sono state smarrite, «della Terra nessun più si cura», ogni passo nel mondo alimenta i fuochi di un incontrollato delirio prometeico. E il rifugio del poeta in rivolta non è, e non può essere, solo una sera di maggio ove «non oscura le stelle / l’ingorgo d’auto», ma un luogo così lontano da riuscire a sfiorare l’anima. Perché non ci sono vie di fuga per un uomo nietzschianamente sospeso fra Dio e il nulla, ma solo un ritorno verso se stesso «sulle vette lontane, laddove siedono in esilio gli dèi.»
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