| “Le voci di dentro” di Mario Antenucci – Recensione di professoressa Flaminia Giannetti
Chi si accinga alla lettura di una raccolta di versi conosce il privilegio comunicativo del linguaggio della poesia, sia sul piano estetico che su quello semantico, ed è perciò pronto ad affrontare i sentieri di un bosco narrativo ricco di emozioni, di evocazioni, di immagini.
È quello che accade al lettore della felice raccolta poetica di Mario Antenucci “Le voci di dentro”, che già nel titolo gli offre una buona chiave interpretativa e nella quale il processo di identificazione tra intuizione poetica e immagine costella tutto il percorso e si traduce ogni momento in fatto artistico.
ll lettore viene come avvolto e accompagnato dalla espressività della parola poetica e dalla delicatezza del messaggio, che si traducono nella delineazione di un paesaggio interiore fatto di amore per la vita (È bello svegliarsi al mattino/ e guardare una giornata / illuminata dal sole) e bisogno di solitudine e silenzio ( In quest'angolo dischiuso alla vita / pratico a volte la solitudine ), di un sotteso, appena percettibile senso di lacerazione interiore (un affanno che non mi lascia – il montaliano “male di vivere”) e al tempo stesso di una soffusa ansia di nuovi orizzonti, di nuove possibilità esplorative (l’ansia di altri lidi mi prende).
La delicatezza del verso è immagine di una biografia intima attraverso la quale si snoda il binomio tra un senso appena accennato di ribellione alla durezza delle leggi dell'esistenza (la tristezza mi prende - vagabondo mi perdo... nelle strade impervie) ed una superiore accettazione dei suoi limiti, in virtù di ragioni emotive ed estetiche che sempre nell'uomo dovrebbero prevalere sulla disperazione e sull'abbandono; e talora di ragioni ontologiche che placano l'animo “dell'uomo incantato” e pongono un
argine alla sua “intima miseria”, dandogli la forza di proseguire sulla strada non facile dell'umana avventura.
Ad accompagnare e sorreggere il poeta in questo dissidio è la complice dolcezza dei suoni e dei colori del paesaggio esteriore, che nei versi di Antenucci, unitamente all'inno insistito alla vita e all'amore (sempre dichiarato il primo, più velato ma non meno presente il secondo) si pone come elemento dominante, nella sua valenza sia oggettiva che simbolica.
Quello della mitezza dell'autunno (la stagione preferita, perché meglio si assimila alla “solitudine degli uomini soli”), della “luna tremula”, delle “colline della sera”, del “focolare... con le sue lingue di fuoco / che fan le capriole, della terra bruna”; quello del “vento frondoso”, dei “cumuli di nuvole”, delle “anse sabbiose”, del “manto nevoso” della sua collina, del “suono delle zampogne”, del “chiacchierio clamoroso dei gabbiani”, delle “vergini strade”, del “verde prato dell'infanzia”, delle “parole silenziose / che riallacciano / le distanze del tempo”. Immagini d'incanto che nella sintesi del linguaggio del poeta e talora nella brevità del frammento diventano un'ottima guida per il ritrovamento della dimensione intimamente custodita di una indefinibile quanto irrinunciabile certezza interiore.
Non si ravvedono nel percorso poetico di Antenucci note nostalgiche, ma tutto è proiettato verso la ricerca di nuove emozioni vitali che possano dar tregua alla sua dissonante vita, in una specie di edenico desiderio di ricongiungimento con la appagante e struggente armonia della Natura.
Dunque il linguaggio poetico come strumento per immèrgersi nel mondo circostante, un mondo di cose semplici ma straordinariamente essenziali alla vita ed affini alla sensibilità del poeta : Amore e Vita come forze ispiratrici della sua poesia.
(Flaminia Giannetti)
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