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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Poesia
 
Notizie Presenti:
 -

Incontro con BIANCAMARIA FRABOTTA

di Rivista Orizzonti

Biancamaria Frabotta non è un personaggio semplice, ne di cui sia semplice parlare, in particolare per chi ha avuto la ventura di conoscerla sotto i suoi tanti aspetti, come poeta, come critico, come docente, come persona.
Forse per la figura slanciata, o forse per l’andatura talvolta titubante, cui si contrappone una gestualità sicura e delicata, sarà per quegli occhi azzurri, acuti e imperscrutabili o per il perfetto aplomb inglese, Biancamaria Frabotta appare spesso inafferrabile, una armoniosa mescolanza tra rigore e indisciplina.
Una delle pochissime ad aver raggiunto il grado di professore ordinario alla Facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza di Roma, è una docente inflessibile eppure coraggiosa, aperta ad ascoltare anche l’eterodossia purché sia basata su motivazioni coerenti, che, lontana da insegnamenti dogmatici, spinge gli allievi ad avvicinarsi alla poesia con umiltà e creatività.
Eppure non è raro che questa donna che può apparire monolitica sorrida, come ci ha sorriso quando siamo entrati, ancora una volta, nella sua casa abitata da libri e da faldoni che racchiudono ordinatamente lo spazio della sua ricerca, la sintesi delle sue due anime, quella di critico e quella di poeta.

Domanda - Qual è lo spazio della poesia nelle Università oggi?

Biancamaria Frabotta - Bisogna fare una premessa: la riforma che è in atto da qualche anno ha cambiato di molto il volto dell’Università, e, in particolare, è cambiato il tipo di studente che si iscrive a Lettere e Filosofia. La maggior parte degli studenti che frequentano i nostri corsi oggi, sono molto meno interessati alla letteratura e molto più orientati verso l’ambito dello spettacolo.
Per ovviare a tale disinteresse, i docenti delle discipline letterarie, hanno strutturato il piano degli studi in modo tale da rendere obbligatori alcuni esami di letteratura. L’immediata conseguenza di questa strategia è il fatto che, per la prima volta, non riesco a percepire quanto sia reale l’interesse degli studenti per ciò che insegno e quanto in realtà sia una forzatura. Sento che spesso non c’è una libera scelta e che molti degli iscritti al primo anno sono in realtà solo di transito. Anche se io continuo a fare quello che ho sempre fatto, certamente questo comporta una riorganizzazione dell’approccio didattico, che mi sono trovata costretta a semplificare: basti pensare che il programma di prima annualità si limita alla metà di un’antologia, che di per sé offre un orizzonte assai ristretto per ogni singolo autore.
Ma nonostante tutti i problemi, non mi rassegno, e quest’anno dedico una trentina di ore allo studio di una poesia difficilissima come quella di Amelia Rosselli: ovviamente mi rendo conto che passare da una conoscenza scarsissima della poesia a una poesia così difficile è una sfida, sul cui esito non posso ancora pronunciarmi, ma io non mi rassegno.
Delineare i tratti salienti della nuova Università mi risulta piuttosto arduo, in quanto non ho ancora accumulato esperienza necessaria, ma durante i vent’anni del mio insegnamento, ho sempre notato nei docenti una tendenza all’analisi della narrativa, piuttosto che della poesia.
La mia linea è quella di far conoscere i poeti italiani del novecento, i classici, se così si può dire, e poi spostarmi progressivamente con l’avvicinarsi della tesi di laurea, ai poeti contemporanei.
Io credo di non aver mai proposto ai miei alunni un rapporto facilitato con la poesia, ma ho sempre invitato alla lettura e allo studio: non ho mai creduto alle scorciatoie, e credo di aver ottenuto buoni risultati.
Alcuni dei miei studenti, pochissimi a dire il vero, sono diventati poeti, la maggior parte buoni lettori di poesia, che mi sembra un esito soddisfacente.

Domanda - Come poeta e come docente, come tenta di trasmettere la sua passione per la poesia?

Biancamaria Frabotta - Come molti altri poeti che insegnano poesia, sono un’eclettica: non seguo un metodo critico esterno alla poesia come ad esempio lo strutturalismo o la psicanalisi, ma cerco di far incontrare l’opera poetica con l’alterità del messaggio poetico, in quanto, pur facendo parte della comunicazione umana, il linguaggio poetico è altra cosa rispetto al linguaggio comunicativo.
Io vivo così la poesia ed è così che cerco di trasmetterla. Credo che poi qualsiasi passione si trasmetta quando è autentica, tanto più la poesia, che si può considerare una forma di monomania: io dico sempre che cerco di contagiare gli studenti alla lettura della poesia, ma nonostante questo, non ho un atteggiamento di incoraggiamento nei confronti della produzione poetica, soprattutto nei riguardi degli studenti dei primi anni.
Con l’aumentare della diffusione della cultura è abbastanza facile trovare studenti di lettere che scrivano poesie e tentino di sottopormele in lettura, ma io non leggo le poesie dei miei studenti. Ho sempre fatto questa scelta impopolare, che può apparire anche aristocratica e distanziante, ma credo giusta, per prima cosa per me, perché credo che leggere queste poesie sia un lavoro impegnativo e poi per gli studenti, in quanto credo che affinché questa lettura possa essere fattiva, sia necessario guidarli, consigliarli. E io non posso farlo come docente, lo posso fare come poeta. E questo è pericoloso in quanto crea una commistione dei due ruoli, che può creare nei ragazzi dipendenza o conflittualità e ostacolare i rapporti tra docente e discente dando adito insomma a delle implicazioni psicologiche che mi sembra opportuno evitare.
Inoltre non penso che la poesia vada incoraggiata, perché la poesia è una specie di destino, un destino che si impone sulla vita della persona che viene visitata da questo evento, per cui trovo inutile incoraggiare o scoraggiare alla poesia.
Il fatto che i docenti in qualche modo rappresentino l’istituzione inoltre, mi ha sempre frenato, quando ero giovane, dal presentare le mie poesie al mio maestro, Walter Binni, che pure amavo tantissimo.
La poesia viaggia in modo diverso, lontano dall’istituzione: magari facevo leggere le mie poesie ai miei coetanei, o cercavo i poeti. Essenzialmente la poesia è libertà, indisciplina e anche un po’ casualità.
Io penso che la frase un po’ mistica “molti sono i chiamati, pochi gli eletti”, abbia un fondo di verità, nel senso che la poesia attrae, sta dentro tutti, ma solo in pochi siamo veramente desiderosi di seguire questa strada come destino. C’è quindi una forma di selezione quasi naturale, e trovo assai poco utile spingere a perseguire questa strada. Inoltre non saprei come fare dal momento che oggi è assai probabile trovare dei giovani che scrivono poesie dignitose, che potrebbero anche essere l’inizio di qualcosa, ma potrebbero anche non esserlo. Perciò ho cercato di trasmettere altro, questa assoluta irregolarità della poesia, che deve prendere anche delle cantonate, ma non deve essere assolutamente istituzionalizzata.
Secondo me questa è l’unica strada percorribile.
Il verso di Emily Dickinson “Una cerva ferita salta più in alto” è la metafora che meglio riesce a descrivere lo stato d’animo della poesia e del sentire poetico.

Domanda - Quale le sembra essere la risposta dei giovani alla poesia?

Biancamaria Frabotta - In generale il rapporto con la poesia è un po’ difficile, la poesia non si offre così facilmente, in libreria ce n’è poca e i giovani non vanno molto in libreria. Inoltre le librerie sono diventate oggi una sorta di supermercato della cultura, in cui è difficile orientarsi.
Si dice che ci sia molta gente alla letture di Dante, o agli Slam poetry. Sono stata ad esempio a Medellin, in Colombia, dove c’erano tremila giovani che “inseguivano” i poeti, chiedendo l’autografo. Inutile dire che vedere che il poeta è amato fa piacere.
Trovo molto positivo anche il fatto che vadano a ruba i libri che sono venduti insieme a giornali.
Mi lascia invece perplessa la trasformazione del poeta in una sorta di rock-star,in quanto non c’è distinzione tra il buon poeta o il cattivo poeta. Quello che i giovani amavano a Medellin era la figura del poeta tout-court, e questo non aiuta di certo la diffusione della poesia.
Negli slam poetry, non è la poesia di per sé che attira i giovani, ma l’elemento spettacolare, che tipico della società fortemente spettacolarizzata nella quale viviamo. L’altro aspetto che mi lascia qualche dubbio è che queste gare poetiche partono dal principio che si va lì per dire le proprie poesie, dando così spazio al proliferare della scrittura e molti autori della mia generazione ritengono che questa sia la fine della poesia, perché se gli autori sono troppi, vi è il rischio che la poesia sfugga.
Ma dall’altra parte, bisogna anche pensare che in paesi come la Germania, che ha una lunga tradizione musicale, il rapporto tra il dilettante e la musica è diffusissimo: suonano tutti. Questa secondo me è una forma di civiltà, in quanto permette che poi nascano dei veri musicisti, quindi, il fenomeno degli slam poetry, se da un lato potrebbe essere la fine della poesia, nel caso in cui ci sia qualcuno che guidi, che orienti, potrebbe diventare una sorta di pulviscolare civiltà poetica.
Per questo è importante creare lettori.
Un altro mezzo di diffusione della poesia che non riesco bene a decodificare è internet.
Non solo non so ancora come rapportarmi, ma oltretutto mi dà un po’ le vertigini: non amo rendere disponibili le mie poesie su internet, mi sembra di gettarle nello spazio.
Se da una parte questo fenomeno mi può dare un senso di liberazione, d’altro canto mi sembra che internet, nasconda un atteggiamento nichilistico.
Quando penso che circolano una quantità di testi che non trovano lettori, come non trovano lettori i tanti testi che vengono stampati a proprie spese, l’unico pensiero che mi viene è che questa sia una forma di grande disperazione sociale. Fenomeni come questi vengono spesso associati a forme di narcisismo, alla necessità di esprimersi. Il problema è però che questa mi sembra una forma di narcisismo disperato che rivela la fine della comunicazione. Penso che queste siano questioni che debbano essere valutate non solo letterariamente, ma soprattutto socialmente.

Domanda - Con quale bagaglio culturale i giovani si avvicinano alla lettura della poesia?

Biancamaria Frabotta - I giovani che vengono dai nuovi licei e dalle nuove scuole professionali hanno una cultura di base che varia in maniera considerevole. Se le scuole professionali solitamente non forniscono alcuna preparazione letteraria, nei nuovi licei tutto è molto legato alla bravura e alla creatività degli insegnanti, per cui si possono anche trovare studenti molto motivati che hanno seguito un percorso di studio e di approfondimento individuale.
Per la maggior parte, gli studenti che frequentano i miei corsi, non leggono abitualmente la poesia, oppure si lasciano suggestionare da falsi miti. Nelle mie lezioni ho parlato per esempio di Alda Merini, che credo abbia scritto cose di grande intensità fino alla fine degli anni 80, ma ormai da diversi anni non è più un poeta, è diventata un’altra cosa, un personaggio, un’icona televisiva. Quello che scrive ora è retorico, enfatico, è “poetese”, ma è incredibile il livello di diffusione che ha raggiunto. Questo è indice del fatto che passa sempre la versione più semplificata. Ogni qual volta si abbia la quantità, la qualità rischia di soffrirne. Ma questo non è un destino, dipende dalla soggettività e dalla volontà di chi lavora.

Domanda - L’università può essere un luogo di confronto critico?

Biancamaria Frabotta - Sì, certamente. Proprio ragionando sulla necessità di un confronto diretto con gli autori e sul fatto che le tesi per come le conosciamo stanno finendo, sostituite da una tesina da scrivere in un mese, sono tre anni che assegno tesi solo su poeti viventi, cercando di stimolare un incontro tra questi poeti e gli studenti. In qualche caso ho incontrato una certa difficoltà, ma nella maggior parte dei casi vi è una grande disponibilità di questi autori e vengono studiati poeti che negli ultimi 30 anni, hanno sofferto della crisi della critica letteraria.
Tutto il fenomeno che abbiamo qui analizzato adesso ha portato alla scomparsa dell’autore. Tale crisi, accompagnata alla pluralità di voci, è il cardine sul quale si soffermando il pensiero critico.
Ma la mancanza di una richiesta di confronto critico, il fatto che i giovani si avvicinino ai poeti cercando in loro non gli autori, ma una sorta di esperti cui sottoporre le proprie letture ed eventualmente nel ruolo di guida che possa in qualche modo promuovere, porta noi autori a una grande malinconia.
Attraverso la possibilità offertami dall’Università, sto tentando di modificare questo rapporto.
Visto che devo assegnare delle tesine, chiedo che venga letto e analizzato un libro di poesia che reputo importante, si faccia una ricerca bibliografica, si incontri l’autore ed eventualmente lo si intervisti sui temi che sono nati dalla lettura e si crei così un rapporto che può morire, ma più spesso continua oltre l’Università.
Questo lo incoraggio, questo mi sembra una scelta corretta, un po’ spinta dall’urgenza della laurea, però devo dire che i risultati sono eccellenti.


(Articolo di Flavia Weisghizzi, pubblicato sul numero 24, della rivista Orizzonti, Agosto-Novembre 2004)

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