| Vi ricordate Carlino e il suo “giumbotto”? E Vito Catozzo e il suo “mondo cano”? Bene, dimenticatelo.
Perché se pure è con quei personaggi che Giorgio Faletti è nato, col suo modo di fare comicità col sorriso sulle labbra e il coltello tra i denti, di strada questo artista ne ha percorsa tanta e di strade ne ha percorse ancor di più, facendosi cantante, attore, scrittore.
Ma sempre con la stessa voglia di affrontare nuove sfide, con quella vitalità che gli permette di sentirsi sempre vicino al suo pubblico, senza nascondere gli occhi azzurri dietro spesse lenti scure d’occasione.
È arrivato da Messaggerie a Roma portando un clima da festa, si è tolto il cappellino giallo che aveva in testa e si è messo a disposizione di chi lo voleva anche solo salutare, anche solo urlargli “Bravo”, per la sua ennesima reinvenzione di se stesso, quello che lo ha fatto diventare un acclamato giallista.
E a torto o a ragione, i suoi libri hanno comunque suscitato un interesse, e hanno vinto la sfida di chi diceva che un autore italiano non poteva scrivere un noir alla maniera degli americani riuscendo a essere anche originale.
Faletti c’è riuscito, merito sicuramente della sua sensibilità d’artista, ma soprattutto del grande impegno che ha profuso nel cercare di comprendere quali siano i limiti del romanzo americano e cercando di oltrepassarli, studiando le caratteristiche del romanzo europeo e tentando di filtrare i suoi aspetti più significativi.
Domanda - Giorgio Fatti nasce come cabarettista al Derby di Milano, per poi passare all’esperienza televisiva di Drive In che in qualche modo gli darà la popolarità, anche se i suoi personaggi sono sempre venati da una sottile linea di amarezza, una sorta di metafora dell’uomo comune con le sue debolezze e le sue piccole speranze quotidiane. Ma lei abbandona presto il ruolo del comico puro per spaziare in altri ambiti, come ad esempio la musica: è negli anni ’90 che, dopo aver scritto canzoni per Mina e Fiordaliso collabora con Angelo Branduardi, il menestrello della musica italiana. Come è nato questo sodalizio artistico?
Faletti - Queste cosa non nascono mai per una precisa scelta o volontà, semplicemente accadono, in maniera spesso casuale.
Ero a Venezia per uno spettacolo di beneficenza, quando la moglie di Angelo mi si è avvicinata per complimentarsi per alcune cosa che avevo scritto che l’avevano molto colpita. Così ho conosciuto Branduardi e alla fine della serata mi ha chiesto se volevo scrivere qualcosa per lui.
Non è possibile descrivere l’insieme delle sensazioni che mi hanno pervaso a quella richiesta, che proveniva proprio da un autore che reputo uno degli autori più originali, un vero mito per me. Così ci ho pensato su meno di una frazione di secondo prima di accettare.
Ma devo dire che questa è stata sicuramente una esperienza altamente formativa, che è stata alla base di tanti progetti successivi, così come era stato anche con Jannacci e che mi ha fatto riflettere sulle possibilità espressive della musica ed è stata antesignana della partecipazione ai due Sanremo.
Domanda - Lei ha prestato la sua penna a molte voci, ma forse il culmine della sua attività di musicista è però probabilmente segnato dall’apparizione nel 1994 a Sanremo. Dal palco di quello che, a torto o a ragione viene considerato il tempio della musica leggera italiana, lei ha invece lanciato un’accusa pesante come un macigno con la canzone “Signor Tenente”, che è stata premiata dal pubblico e dalla critica e lo ha candidato come “voce contro” il perbenismo e il buonismo, una voce gentile ma decisa.
Faletti - Decisamente il ’94 per me è stato l’anno della svolta, totale e radicale.
Signor Tenente racconta la storia di uno dei ragazzi che facevano parte della scorta di Falcone, uno di quelli che sono morti nella strage di Capaci.
Il successo accreditatomi dal pubblico e dagli addetti ai lavori, il fatto di essermi classificato al secondo posto e di aver vinto il premio speciale della critica, mi ha fatto riflettere sulla possibilità concreta di ripensare lo spettacolo in termini di utilità sociale.
In altre parole ho capito come il successo debba essere utilizzato anche per proporre al pubblico dei temi di riflessione più intensi di quelli che normalmente vengono proposti. Io non credo che il pubblico televisivo desideri soltanto il divertimento fine a se stesso e il successo di questa canzone, come anche de “L’assurdo mestiere” uscito l’anno successivo, che è stato premiato con il prestigioso riconoscimento Rino Gaetano, per la parte letteraria delle canzoni,mi ha dato ragione.
Al di là del piacere che mi può aver dato l’attenzione che mi è stata riservata, comunque, indubitabilmente il ’94 è stato una anno cruciale per la mia vita, un anno che ha causato una deviazione irreversibile nel mio modo di comunicare.
Domanda - La comicità e la critica sociale sono due aspetti paralleli ma entrambi presenti nella sua produzione artistica. Come riesce a farli convivere?
Faletti - Io credo che quando una persona reputa di avere in mente qualcosa di importante da dire, il primo problema sia quello di farsi ascoltare e per fare questo è necessario riuscire ad attirare in qualche modo l’attenzione.
La comicità può essere un buon sistema per riuscire a farsi un’immagine pubblica e, contemporaneamente, costruirsi un “credito” per coloro che ti seguono: nel momento in cui si è conquistata una certa popolarità si può decidere se continuare a raccontare barzellette o tentare di parlar d’altro.
Io ho cercato di sterzare, in maniera anche un po’ brusca e non me ne pento, così come non mi pento assolutamente di tutto quello che ho fatto in precedenza, e che è stato poi quello che mi ha permesso di instaurare un canale privilegiato di comunicazione tra me e il mio pubblico.
Certamente, soprattutto all’inizio hanno cominciato a coesistere dei momenti di osservazione comica e umoristica e degli spazi di critica più impegnativi, delle canzoni più profonde o più mirate, in qualche modo, poi ho abbandonato quasi del tutto l’aspetto puramente ludico per dedicarmi alla forma di impegno che reputo al momento la più vicina a me e che, soprattutto, non è un aspetto diverso di me, ma semplicemente un modo di essere, presentarmi e comunicare più completa e più ampia, ma non per questo, meno autentica.
Domanda - Arriviamo alla scrittura. Giorgio Faletti si reinventa nuovamente e si propone al grande pubblico come scrittore con “Io Uccido”, un thriller teso e coinvolgente che diventa in breve tempo un best seller. Come si approccia alla scrittura?
Faletti - In realtà io scrivo da sempre. Ho cominciato come autore di testi comici, e mi sono occupato personalmente della parte letteraria delle mie canzoni.
Poi un giorno un mio amico giornalista ha letto i racconti che scrivevo e mi ha spronato a cercare un editore.
Per quanto strano possa apparire, pur essendo un personaggio pubblico non è stato per nulla semplice riuscire a trovare un editore disposto a darmi credito, anzi la mia popolarità mi ha parecchio ostacolato in quanto molti hanno cercato di dissuadermi dal mio proposito, suggerendomi invece di scrivere un libro meno impegnativo.
Sono stati molti che vedendo in me solo un comico non mi reputavano in grado di riuscire a scrivere testi che avessero una validità artistica: “Sei un comico, fai il comico” è stato il commento più diffuso.
Non mi sono arreso e sono approdato alla Baldini, Castaldi e Dalai. L’editore ha letto i miei racconti e gli sono piaciuti, ma mi ha consigliato di scrivere un romanzo anziché tentare di proporre dei racconti.
Gli ho dato ascolto e così è nato “Io Uccido”.
Domanda - Il successo di “Io uccido” viene riproposto in “Niente di vero tranne gli occhi.”, un giallo che unisce due culture, quella europea e quella americana, ma anche un ponte tra l’uomo e la donna, tra la musica e la scrittura. Come interpreta le differenze tra i due romanzi da “autore?”
Faletti - La struttura narrativa del primo romanzo era piuttosto lineare, raccontando, in modo piuttosto semplice le avventure di un assassino che compie efferati omicidi nel dorato mondo del jet-set monegasco.
In “Niente di vero tranne gli occhi” credo di essere riuscito a offrire una maggiore complessità e quindi, in sostanza, a scrivere un’opera più matura.
Il mio secondo romanzo è incentrato sulla ricerca di identità dei due protagonisti, Maureen Martini e Jordan Marsalis, un’italiana e un americano, due poliziotti.
Ho tentato di costruire una vicenda nella quale poter far confluire la vita di queste due persone, qualcosa che potesse giustificare la loro compresenza sulla scena di un crimine e questa operazione è stata piuttosto difficile maalquanto intrigante.
Inoltre, a differenza di “Io uccido”, in questo caso ho dato particolare rilevo alle figure delle vittime, cercando di approfondire la loro analisi introspettiva, offrendole al lettore non solo come cadaveri, ma soprattutto come persone vivi e vitali, nonostante le loro peculiarità.
Insomma se il primo ha molti toni grandguignoleschi, il secondo possiede una violenza espressiva, nel linguaggio e nelle crudezza delle situazioni di gran lunga superiore.
Domanda - Nella sua scrittura ha prediletto un taglio molto americano. Da cosa nasce questa scelta?
Quale crede sia la specificità di un romanzo italiano che segue la scuola di scrittura americana? Quali aspetti crede siano esportabili e quali invece (se ce ne sono) sono peculiari della narrativa italiana e europea?
Faletti - Sono cresciuto leggendo letteratura di matrice anglosassone, di conseguenza, quando mi sono messo a scrivere in prima persona, mi è sembrato naturale cercare di ripercorrere le strutture narrative della scuola americana.
Per quanto riguarda le ambientazioni, in particolare dell’ultimo romanzo, credo che un autore possa scegliere in maniera autonoma dove ambientare la vicenda che vuole narrare. E in fondo, se nessuno trova da ridire che Dan Brown ambienta i suoi romanzi a Parigi o a Roma, non trovo perché mi dovrei porre analoghi problemi.
Devo riconoscere che l’esterofilia è una caratteristica preponderante nella mia curiosità intellettuale, ma trovo anche che i romanzi anglosassoni siano molto ben strutturati, pur con tutti i loro limiti.
Un aspetto di questo tipo di narrativa che mi ha sempre lasciato perplesso, è la penuria dell’approfondimento introspettivo dei personaggi, che ripropongono in modo più o meno rigido, una serie di modelli canonici e un po’ stereotipati.
Al contrario, il romanzo europeo da questo punto di vista presenta una ricchezza e una imprevedibilità ineguagliabili, ma ha spesso una assoluta indifferenza per la storia che racconta, il che, probabilmente, tende ad allontanare il lettore.
Io credo che siano necessari entrambi questi aspetti per la costruzione di un buon romanzo, una storia intrigante, scorrevole, ben scritta, ma anche dei personaggi con uno spessore umano, delle figure che il lettore possa essere in grado di riconoscere e possa imparare a conoscere con l’andar del testo.
La letteratura anglosassone ha forse il difetto di costruire delle storie troppo “tagliate con l’accetta”, dai profili troppo precisi e puliti, quella europea spesso invece, abbandona completamente il livello dell’intreccio con il rischio di proporre un insieme più o meno omogeneo di frasi slegate tra loro.
Io ho cercato, nel mio piccolo di tentare di superare questi limiti, e tenendo ben a mente gli errori di entrambe le letterature, ho tentato di utilizzarne gli aspetti più interessanti, costruendo un romanzo all’americana ma con un forte accento europeo.
Domanda - Quali sono gli autori che l’hanno maggiormente influenzata? Quali sono stati i suoi modelli di riferimento al di là di quelli che ogni lettore può supporre leggendo i suoi romanzi?
Faletti - Non è certo difficile ricondurre molti dei miei spunti narrativi alla grande scuola americana degli ultimi vent’anni, nondimeno però il mio approccio alla lettura sono stati i romanzi di Mark Twain e Ernest Hemingway.
Inoltre ho un grosso debito di riconoscenza con tutta la narrativa poliziesca e la fantascienza, il cui capostipite assoluto reputo sia Isaac Asimov.
Per il resto amo molto Michael Connelly e tra gli italiani Piero degli Antoni: anche se non sempre quello che leggo confluisce in maniera evidente in ciò che scrivo, credo che l’influenza dei grandi autori sia un background difficilmente ignorabile.
Domanda - Il suo ultimo romanzo è ricco di simbolismi: il tatuaggio, i peanuts, i messaggi dell’assassino, il valore degli occhi e dello sguardo. Solo strumenti narrativi o metafore?
Faletti - L’idea di utilizzare dei simboli è stata un’intuizione del tutto istintiva.
In realtà non ho mai utilizzato queste immagini in maniera intenzionale, non ho mai cercato di attribuire un valore specifico a un oggetto, soprattutto perché mi sono reso conto che la scrittura ha un codice di riferimento che varia a seconda del lettore, il quale si rapporterà alla lettura inserendo l’esperienza del proprio vissuto personale e attribuendo a ogni simbolo un significato che è dato, in parte dai propri trascorsi, in parte sarà suggerita dal contesto narrativo.
Io mi sono spesso affidato all’istinto per la scelta degli elementi simbolici e devo dire che i suggerimenti che mi ha dato sono stati spesso efficaci, o meglio, in quei casi in cui mi sia lasciato guidare da un calcolo preordinato piuttosto che da un’intuizione momentanea, spesso ho sbagliato.
I simboli hanno comunque una funzione estremamente narrativa, nel senso che visualizzano collegamenti, immagini che il lettore può facilmente tenere a mente e ricordare.
La scelta dei Peanuts è invece più complessa.
Per prima cosa vuole essere un omaggio a un grande autore che attraverso i fumetti è riuscito a costruire un linguaggio accessibile a tutti e dalle molteplici sfumature, capace di parlare ai grandi con la lingua dei grandi e ai piccoli con quella dei piccoli, e questa è la prerogativa dei grandi comunicatori.
I Peanuts inoltre rappresentano l’innocenza americana: nelle loro storie infatti, non compare mai la figura dell’adulto, eppure sono un piccolo mondo perfetto che è entrato nei cuori dei lettori di tutto il mondo.
Inoltre e non da ultimo, i personaggi di Charlie Brown hanno una caratterizzazione iconografica ben precisa, che mi è stata assai utile nella visualizzazione degli omicidi: la postura fisica di uno Snoopy, sdraiato prono sul tetto o di Schroeder chinato come un piccolo Beethoven sul pianoforte è entrata ormai nell’immaginario collettivo.
Domanda - Maureen Martini ama Connor Slave e Connor Slave vive attraverso le sue canzoni. Jordan Marsalis accetta di amare una figura ambigua come Lisa Guerrero. Perché la scelta trattare in modo così tormentato la tematica amorosa?
Faletti - Perché l’amore è di per se stessa una tematica tormentata.
Se pensiamo alla tradizione, il rapporto amoroso ci è sempre stato veicolato come difficile e burrascoso, e questo è quello che intriga il lettore.
Pensiamo a Paolo e Francesca o a Romeo e Giulietta, solo per fare qualche nome: non è l’amore in sé a farci appassionare, ma questa forma di predestinazione del contrasto che fa palpitare l’animo.
L’amore privato delle sue componenti di incertezza rischia di diventare mera riproduttività. Ma per fortuna l’amore romanzato è diverso da quello reale e ci permette in qualche modo di sognare.
Domanda - Musicista, attore, romanziere. Chi è Giorgio Faletti per Giorgio Faletti?
Faletti - Sono un po’ tutto questo e un po’ nulla di questo.
Tutti questi aspetti della mia espressione artistica e sono compresenti e convivono con qualche altra cosa, di più sottile e indefinibile che è la mia essenza, che è però inconoscibile e estranea a me stesso.
In qualche modo l’unica definizione che trovo calzarmi è quello di autoincognita, di una scoperta continua per gli altri e per me.
(Articolo di Flavia Weisghizzi pubblicato sul numero 26, Maggio-Agosto 2005, della rivista Orizzonti)
Il nuovo numero di Orizzonti lo trovate qui:
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