| Come caratterizzare il divino che si palesa? Con quali parole dire il Dio che si fa uomo, con quali immagini descriverlo? Come tentare di figurarlo? Come narrare lo scempio della croce, e, insieme, il pathos, desiderante e luttuoso, degli astanti? E (soprattutto) cosa accadrebbe se Dio, inopinato, improvviso, non voluto, alla fine, apparisse… adesso, oggi?
Immaginate allora un amante divino invisibile e possessivo che si dà e si nega, che ghermisce e, insieme, accarezza, che appesta e risana; immaginate una giovane donna sconvolta e confusa per un’intrusione che invece di recare dolcezza e di sanare ogni affanno provoca dolore e sconcerto. Figuratevela con gli occhi spalancati, le membra soggette ora a una misteriosa paresi ora ad un improvviso scioglimento dei muscoli mentre finisce per accogliere ciò che non si può accogliere, si offre a colui che arde e brucia, cinge con le sue braccia di donna l’Impossibile del Dio - Uomo, dello Sposo Divino…
L’iconografia pittorica ci ha restituito tre tipi di mistiche: giovani donne in abito claustrale, riverse al suolo, in penitenza davanti ad un’immagine sacra (o davanti a nessuna immagine, come Giuseppe Desa da Copertino) o (al contrario) leggere e volteggianti nell’al di là del cielo azzurro, sorrette dalla coorte angelica. Infine (ed è la terza ipotesi), è possibile che siano investite da un’effusione di sangue, come durante un sacrificio cruento (così Caterina da Siena): La bocca sua non diceva se non Gesù e Caterina. E mentr’egli così parlava, ricevetti il capo nelle mani mia, fermando l’occhio nella divina bontà, e dicendo - Io voglio! - Risposto che fu, l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue, che io non potevo sostenere l’idea di levarmi il sangue, che mi era venuto addosso, di lui.
Nonostante questa misteriosa vicinanza, neppure loro, le spose, sono in grado di parlare, di “dire” Dio con termini esatti e rigorosi. Per farlo, il mistico è costretto a ricorrere ad un linguaggio paradossale che adotta le formule negative dell’iperbole (“Altissimo, non puoi essere raggiunto”) e dell’ossimoro (“raggio di tenebra”, “vampa fredda”) o quelle teologiche dell’allegoria. È possibile allora figurarsi il percorso di avvicinamento dell’anima a Dio, della sposa allo sposo come un tragitto attraverso una serie di gradi (i “quattro gradi dell’ardente carità” di Riccardo di San Vittore, orazione sulla forza del desiderio che annichilisce), di notti (le “notti oscure” di San Giovanni della Croce che abbuiano i sensi, l’intelletto e lo spirito fino all’esperienza di Dio), o ancora attraverso l’immagine architettonica del castello - anima, con le sue sale e il suo centro (il “castello interiore” di Teresa d’Avila).
Analogamente anche la nostra giovane si serve di un’allegoria: all’anima sarà data la forma di una nave, al percorso l’itinerario di una traversata, di una crociera (che è anche viaggio nuziale). Le parole di lei avranno l’asprezza della dolente e la dolcezza dell’innamorata, i suoi gesti la temperanza della comunicanda e la follia dell’invasata, i suoi ricordi includeranno lo stupro e l’estasi, la preghiera e l’invettiva.
Ma alla fine non ci s’incontra, non si “finisce” con Dio: ci si ritrova, semmai, chiusi in una celletta disadorna, o perduti in una foresta di rami secchi. Ma, nonostante questo interdetto fatale, ella, la giovane, non smette di desiderarLo-rinnegarLo, come si desidera e si odia un amante lontano di cui si è innamorati perdutamente, come si ritorna ad un’immagine che, ostinata, non si riesce a estirpare dalla memoria e dal fondo del cuore.
Il monologo è andato in scena la prima volta a Bologna al Teatro degli Alemanni. Regia di Viviana Piccolo. Interprete: Silvia Giacomin. Musiche di scena: Marco Magnelli. Scene: Alessandro Saturno Martinelli, Mina Cusati.
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Immaginate un amante divino invisibile e possessivo che si dà e si nega, che ghermisce e, insieme, accarezza, che appesta e risana; immaginate una giovane donna sconvolta e confusa per un’intrusione che invece di recare dolcezza e di sanare ogni affanno provoca dolore e sconcerto. Figuratevela con gli occhi spalancati, le membra soggette ora ad una misteriosa paralisi ora ad un improvviso scioglimento dei muscoli mentre finisce per accogliere ciò che non si può accogliere, si offre a colui che arde e brucia, cinge con le sue braccia di donna l’Impossibile dello Sposo divino…
Immaginate che tutto questo avvenga… Oggi. Adesso. Ora.
La Ferita Risanata è il racconto di questo incontro. Incontro che assumerà la forma di un viaggio (viaggio nuziale, percorso rituale) e, nello stesso tempo, di una segregazione (in una piccola celletta monastica troppo simile alla stanza di una casa di cura per malattie mentali). Il viaggio, naturalmente, non finisce, non si conclude. Se non con un’ultima, estrema, richiesta di amore. Perché, se anche possiedo tutta la fede, sì da trasportare le montagne, se non ho l’amore, non sono niente.
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Giovanni Festa nasce a Napoli nel 1981. Si laurea a Bologna prima in Dams cinema e poi in Storia dell’Arte. È dottorando in Studi Umanistici presso l’Università della Calabria.
Ha collaborato o collabora con numerose riviste (Artico, Fellini Amarcord, Filmcritica).
È co-autore del catalogo della mostra “Il Seicento Sacro”.
Fra i suoi testi di prossima pubblicazione, il libro di iconologia Il Cavaliere e la Donzella. Itinerari labirintici di un archetipo figurativo (Aracne ed.) e il romanzo Hostage City (Eracle ed.).
La Ferita Risanata è il suo primo monologo per il teatro.
Collana "Gli Emersi - Poesia"
pp.52
ISBN 978-88-591-0071-3
Il libro è disponibile in versione e-book a €8,00
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