| Cibo e arte, ossia l’incoercibile, eterna pulsione del cibarsi proiettata nella dimensione dell’estetica è argomento vastissimo e troppo radicato nell’uomo per pescarne ovunque e comunque sempre a piene mani, quale che ne sia l’angolo visuale: cibo come sensualità, tragedia, farsa, grottesco, dalle vette del sublime alle tiepidità piccolo-borghesi, all’epica, alle devianze psicologiche, dalla favola classica alla metafora surreale, alle angosce espressionistiche.Il cibo è dovunque, su qualsiasi mensa, così come il sesso è in ogni alcova, anche la più striminzita. Cibo e cinema è ugualmente materia prosperosissima di citazioni sia «storiche» e antologiche, sia curiosamente neglette.Il cibo è parte integrante dell’uomo; certo non è solo la necessità inderogabile per conservarsi vivi: subisce deformazioni e arricchimenti che sono anche storia nostra essenziale, anima e cuore ne sono coinvolti oltre che gli organi addetti alla digestione; non a caso fior di poeti han fatto di odori e sapori dell’infanzia il mitologico scrigno a cui hanno attinto per tutta la vita.Nella storia del cinema, che è anche storia della nostra cultura da cent’anni in qua, la problematica del cibo si è riversata integralmente con abbondanza di riferimenti e di evocazioni che già erano patrimonio letterario, pittorico, musicale ecc. Così il Satyricon di Petronio Arbitro, fiore esaltante e lascivo della decadenza classica, ultimo lascito di una già antichissima eredità greca e preclassica dell’orgia rituale sessual-gastronomica, trova a distanza di molti secoli una straordinaria affinità nell’allucinazione lirica di Fellini (1969), intuito robustamente intriso di classica decadenza necessario per girovagare genialmente nella suburra maleodorante dei meandri tardo-ellenistici, prodromi di una fatiscenza che proietterà di lì a poco (o di qui a poco, per i profeti del nuovo Medioevo) la cultura mediterranea nella sfascio e nel tragico caos dei secoli «bui».Ma abbiamo un’altra eredità classica che dalla cultura greco-romana girovaga con ricco profitto per secoli fino a ritrovarsi codificata nel tardo Cinquecento, e poi nel Seicento, nelle toppe sgargianti della Commedia dell’Arte: la fame insaziabile, ereditata e trasmissibile, del cialtrone, del girovago, del «pulcinella», dell’eterno straccione in lotta per saziarla, lotta disperata e inutile perché è fame vecchia di centinaia di generazioni, fame che aguzza e affila, che fa furbi fino alla crudeltà i servi ruffiani dei ricchi stupidi e vanitosi.A Napoli si fermò e divenne proverbiale questa fame concreta eppur fantastica, e quale miglior Pulcinella del Totò di «Miseria e nobiltà» (1954?) legittimo erede di tanto ingegnoso penare, indimenticabile nel festino degli affamati, quando il cibo appare per incanto, nel divorare un pasto miracoloso che è gesto di sopraffazione della sopraffazione, rivolta disperata ad un chiuso ordine sociale, “deroga” momentanea ed ineffabile a una spietata, umiliante normalità. Totò che aggredisce il cibo difendendolo contro chiunque è l’immagine non solo farsesca ma anche tragica di una maschera eterna, di stenti e lotte, contro un ingrato Fato invincibile, Nume ostile al perenne morto di fame, in tunica classica o in italica canottiera che sia.
Articolo di Luigi M Bruno
ORIZZONTI 1997
Gennaio-Febbraio
La Cineteca Dimenticata 01
Pagina 45
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