| Spesso nel rievocare “maestri” e “capiscuola” del nostro miglior cinema d’autore (felici anni perduti!) si trascura il nome di Alberto Lattuada a torto ritenuto regista di seconda linea. Questo un po’ per la effettiva discontinuità del nostro, avido di interessi diversi, che saccheggiando ora spunti letterari ora rilievi di cronaca, indulgendo talvolta a facili commedie e a qualche compiacimento plateale, dette impressione alla nostra migliore critica (un po’ severa e accademica) di autore senza una ferrea linea di condotta, ora raffinato e preciso, ora fatuo e corrivo. Tutto vero; ma da qui a mettere Lattuada nella folta schiera degli ottimi e magari geniali artigiani ce ne corre!
“Il Cappotto” del ’52 fu forse l’esempio più folgorante della sua capacità creativa nel concepire le sventure (tragiche e farsesche) di un mediocrissimo “travet”, vittima sconsiderata e angelica di mostruose prepotenze e soperchierie. Fu anche l’incontro di un certo Renato Rachel, allora coronato dai trionfi delle sue “riviste” con un mondo di sentimenti meno spettacolari, senza canzonette e ballerine di fila. Allora Rachel furoreggiava con la sua comicità, abbastanza originale nel panorama “casereccio” di quegli anni, che si volle definire “surreale”, titolo forse eccessivo per le modeste possibilità del nostro “Renatino”. Oggi chiameremmo meglio, senza scomodare Beckett o Ionesco, “demenziale” la comicità nei suoi dialoghetti. Ma rimettiamoci il “Cappotto”: Lattuada seppe usare con mano felicissima lo stile sconclusionato e disarmante di Rascel inventandogli addosso l’impiegatuccio de Carmine, l’inerme omino, evocazione perfetta dei piccolissimi eroi un po’ di Cecov un po’ di Gogol. Crudele il contrasto tra il paesaggio di un quotidiano squallido e banale e le immersioni nel magico e nel soprannaturale. Il cappotto nuovo, costato lacrime e sangue, di cui viene derubato è l’ultima sopraffazione: il povero de Carmine morirà delirando e riapparendo in vesti di fantasma, misero ed innocuo com’era in vita. Mai più si diedero la mano, in Lattuada e altrove, potrei dire in tutto il nostro cinema, angosce piccolo borghesi e feroci ironie, reale e surreale, critica spietata d’un mondo vuoto e idiota in un clima di vera poesia. Sì, perché si fa vera poesia non solo con tragiche epigrafi o malinconiche elegie: si fa anche tra le lacrime e i sogghigni che si accavallano nella buffa, assurda realtà che ci tiranneggia.
È da dire che Lattuada si fece validamente spalleggiare da una “falange” di scrittori di cui farò solo due nomi, due poeti: Zavattini e Sinisgalli. Rascel carpì un meritatissimo “Nastro” d’argento. Le anime nobilissime di Cecov e Gogol sorrisero compiaciute.
Per l’occasione è dovuto l’omaggio nel ricordare il quasi completamente dimenticato Giulio Stival (1902-1953), bravissimo attore veneziano che qui concepisce e realizza il monumento tronfio e imbecille del sindaco – dittatore, nonché il povero (dimenticatissimo!) Giulio Calì (1985-1967), eroico “generico” e “figurante” di cento particine che qui si permette il lusso da grande caratterista di disegnare il quasi mefistofelico sarto, complice ammirato e compiaciuto del suo cappotto!
Articolo di Luigi M. Bruno pubblicato sulla rivista Orizzonti.
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