| Antonio Amendola e Tomaso Binga sono famosi per le loro performance.
La loro poesia attualizza alcuni aspetti dell’esperienza delle avanguardie artistiche dei primi anni del novecento (soprattutto il futurismo, il lettrismo e il dadaismo) dove è preponderante l’attenzione per gli aspetti acustici e visivi della comunicazione rispetto al testo scritto. Si tratta di una sperimentazione che si avvale della contaminazione con i linguaggi di altri ambiti espressivi, in un concerto polifonico degli stili.
Un tipo di poesia multimediale “povera”, senza lo sfoggio di effetti speciali o l’invadenza di sostegni tecnologici così essenziali oggi nel parallelo mondo dell’arte, tuttavia l’effetto di forte impatto emotivo è assicurato dall’espressione di una parola corposa che gravita fisicamente carica del proprio suono e sconfina in altri ambiti; una parola avanzante su fughe ritmiche impreviste e che si innesta su partiture musicali per strumento e voce.
In una sorta di trasparenza antropologica, i due artisti riescono a coinvolgere la piazza degli ascoltatori toccando le stesse corde degli antichi cantastorie o degli aedo greci, dei quali è stata raccolta l’eredità proprio in quell’essenza di comunicazione primaria che rende la poesia partecipativa e immediata, come ci ricorda lo stesso Amendola. In contrapposizione con un fare poetico tradizionale, destinato all’aristocratico isolamento del cenacolo, si cercano allora vie del comunicare che realizzino un rapporto più diretto con i fruitori.
A questo proposito le varie etichette che definiscono il genere (poesia sonora, poesia fonetica, poesia vocale, performativa…), tendono principalmente a sottolineare l’importanza dell’oralità del linguaggio, della sua drammatizzazione e del recupero della centralità della voce nell’ambito di un percorso sperimentale dove la parola viene anche desemantizzata e studiata come atomo sonoro.
Ma questa ricerca non rinuncia alle sue incursioni nel reale, con tutti quei miti tranquillizzanti del sociale che entrano e escono prepotentemente dal verso ad un ritmo ossessivo che li lima e che vuole ridurli all’osso; ecco allora la dissacrazione dei luoghi comuni, l’uso di filastrocche, l’ironia, la mimesi del seriale e del tecnologico ed anche l’impegno, ad esempio quello femminista, di Tomaso Binga:
penelope
un filo dritto
ed uno rovescio
un filo dritto
ed uno rovescio
lascio cadere un punto
ed accavallo
un filo dritto
ed uno rovescio
un filo dritto
ed uno rovescio
navigo dentro il tempo
ed accavallo
un filo dritto un filo dritto
ed uno rovescio
un filo dritto
ed uno rovescio
scivolo sui ricordi
ed accavallo…
(“penelope” da “sono stanca a più non posso”, 1987)
Nell’abito di questa fusione dei linguaggi, Binda e Amendola hanno presentato uno spartito recitativo a due voci in una simbiosi ben articolata di gestualità da una parte e dinamismo sonoro e musicale dall’altra.
L’accadimento in presenza della loro poesia, l’uso del gesto, dell’azione, del corpo, il mimare le topiche del palcoscenico, in cui si può leggere una certa ironia del modello che recita, riescono a sfuggire allora del tutto l’automatismo della comunicazione, creando una situazione di work in progress, là dove germina lo spazio anche per l’improvvisazione.
A conferma di questo approccio sinestetico basti, come ultimo esempio, la tranquillità quasi classicheggiante di questa poesia di Amendola:
OLFATTO
Devo resistere alla
parola gola decrepita
per lo sforzo labiale
poi l’olfatto accenna
la distesa degli occhi.
(Da “Vocalista / appunti di poesia vocale”, 1987)
NELLA FOTO
Da sinistra: Antonio Amendola e Tomaso Binga
Articolo di Letizia Leone, pubblicato su Orizzonti n. 13 (Giugno-Settembre 2000)
Il nuovo numero di Orizzonti, il 42, lo trovate qui:
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