| Non esagera Fulvio Panzeri, curatore dell’opera omnia di Tondelli pubblicata da Bompiani, quando afferma che egli va considerato una figura centrale della narrativa italiana degli ultimi vent’anni. Né esagera Giulio Ferroni, che, nella sua “Storia della Letteratura italiana”, lo definisce un “enfant prodige”. Tutto ciò non solo per i nuovi orizzonti che questo eclettico giornalista-scrittore ha saputo aprire dopo la crisi epocale delle avanguardie degli anni 60 e 70, ma anche per il valore intrinseco del suo notevole impegno di “organizzatore di cultura”. All’inizio degli anni 80, infatti, con l’editoria ormai divenuta industria editoriale, Tondelli dimostrò con i fatti, insieme a gente come Andrea De Carlo, Daniele Del Giudice, Claudio Piersanti, Enrico Calandri e Giovanni Pascutto, che la nostra Letteratura aveva ancora molto da dire. Lui, però, si distinse particolarmente, perché seppe estremizzare in chiave rinascimentale la figura dello scrittore, non solo decidendo di vivere appunto di scrittura, collaborando a “Linus” e “Rockstar”, ma anche prendendo sulle larghe spalle (era alto oltre un metro e novanta), la grande responsabilità di porsi a modello di riferimento per le nuove leve di giovani autori esordienti.
Tondelli esordì in modo piuttosto grintoso rappresentando un universo giovanile anarchico, disgregato e disomogeneo, ma anche patologicamente materialistico.
“Altri libertini”, opera che risentì certo delle esperienze lavorative come animatore estivo tra Correggio e Reggio Emilia, nonché dello studio di alcuni testi al Dams di Bologna, facoltà in cui si laureò, come la “Trilogia degli scarrozzanti” di Testori, si presenta abbastanza dura da digerire. È un romanzo ad episodi in cui si rispecchia l’esperienza della generazione dei giovani di fine anni 70: i loro viaggi tra Amsterdam e Londra, le lotte studentesche, la droga, la ricerca della propria identità e il desiderio di libertà, che può definirsi la summa dei miti e delle figure di riferimento di un particolare “immaginario giovanile”, successivamente ricreato dalle atmosfere del film “Radiofreccia” di Luciano Ligabue, non a caso anch’egli di Correggio.
L’opera prima di Tondelli, sulla quale aleggia una solitudine plumbea, mista a pesante depressione, da spleen adolescenziale («esser soli fa molto più male in mezzo alla gente, allora sì che è doloroso e pungono le ossa e il respiro è davvero brutto»), fu pubblicata da Feltrinelli grazie alla mediazione del critico letterario Aldo Tagliaferro, ma fu sequestrata dalle autorità giudiziarie per il reato di oscenità appena venti giorni dopo la sua uscita e costò all’autore un processo, che lo vide però assolto con formula piena.
Quella di Tondelli non fu però una denuncia, bensì la mera registrazione di paranoie, desideri, aspirazioni ed ossessioni che tratteggiano un ritratto generazionale, attraverso lo scorrazzare notturno dentro l’asfissia provinciale, in cerca di libertà e redenzione, perché il provincialismo genera disadattamento cronico, tra accenni pop e luci psichedeliche che fotografano la stagione post-sessantottina che sfuma: quel “tutto è politica” che diviene “tutto è singolo individuo”.
“Pao pao” è invece la cronaca delle esperienze vissute durante il servizio militare. E qui sta il limite di un’opera ripetitiva rispetto a quella d’esordio: l’autorappresentazione eccessiva dell’autore, quasi diaristica, dove diviene difficile distinguere tra realtà, fiction e mitobiografia, così come tra velleità letterarie ed impegno metaletterario. In lui, infatti, la riflessione autobiografica ricorre come in pochi altri, fino a diventare il fondamento della sua poetica, ben riflettendo il suo carattere («Quelli della Vergine sono così: malinconici, solitari, pessimi partner con una grande vita interiore che non necessita di mondanità per esprimersi. Nello stesso tempo sono fin troppo preda di umor nero, insomma di malinconia»).
Opera centrale della sua produzione è invece “Rimini”, che fu presentata da Roberto D’Agostino nel 1985. È la cronaca di un viaggio sulla riviera romagnola, con le sue pseudomitologie nazional-popolari: quella bolgia vacanziera fatta di spiagge e discoteche, dove l’autore sperimentò la commistione di diversi registri linguistici e differenti costruzioni narratologiche, immortalando la capitale delle vacanze italiane come un divertimentificio fine a se stesso, degna espressione del nulla degli anni 80.
Protagonisti del libro sono un giornalista al suo primo incarico importante, uno scrittore in crisi creativa, un’antiquaria tedesca sulle tracce della sorella sbandata, un sassofonista che vive un’avventura con una donna sposata e due giovani aspiranti registi in cerca di finanziamenti per i loro film; ma “Rimini” è soprattutto un grande affresco “balneare”, anzi, un vero e proprio schermo televisivo cartaceo, riempito dai soliti bagnini, da tette al sole, pedalò e chiappe abbronzate, che tanta fortuna hanno poi incontrato nella nostra cinematografia. L’universo descritto è inoltre quello delle laceranti contraddizioni e delle futili ossessioni: del mondo virtuale coevo, abitato da quei manichini di plastica colorata a luci intermittenti, che sono la metafora di un’umanità in piena crisi d’identità. Lo show surreale che ne consegue è la celebrazione di quell’artificiosità che ormai caratterizza una società schiava di immagini e formalismi dove nessuno è più libero d’essere se stesso, dato che il ruolo dei singoli è deciso da altri e i comportamenti sono eterodiretti e manipolati dal potere occulto dei mass-media. Questo libro può a ragione considerarsi la denuncia del rampantismo cinico e decisionista, col conseguente dilagare dell’individualismo di massa. Dal punto di vista stilistico, invece, Rimini si distinse per i costanti riferimenti al mondo musicale e la citazione indiretta, confrontando una serie di situazioni portate all’eccesso. Alcune pagine hanno il ritmo del giallo, altre della commedia sentimentale o dell’inchiesta sociologica. Il tutto con un ritmo da videoclip che sa di contaminazione dei generi e di multimedialità, dato che la musica fa da colonna sonora al testo (l’opera si chiude addirittura con la citazione dei brani ideali da ascoltare come sottofondo alla lettura). La consonanza tra linguaggio e musicalità è una delle peculiarità di Tondelli, dato che la musica interagisce con l’assetto linguistico, quasi coordinandolo e miscelando il sound con il linguaggio parlato. Questo legame tra parola e musica è una caratteristica che si riscontra anche nelle opere successive. Davvero singolare, in tal senso, il parallelo tra il racconto “Autobahn” e le nenie di “Materlineare” dei Csi, gruppo che ha ripreso il genere dei Cccp, lanciati appunto da Tondelli sulle colonne de “L’Espresso”.
Lo stile decisamente musicale, evocativo ed emozionale di Pier Vittorio Tondelli racconta e differenzia i singoli personaggi, quasi circoscrivendoli, poiché la loro indole è tale proprio in relazione a quello che ascoltano. Un elemento di novità, insomma, che certo influenzò anche scrittori che seguirono le sue orme, come Enrico Brizzi nel famoso “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”. Questo elemento si riscontra anche in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni 80, che raccoglie la sua composita produzione saggistica. Saggi, dunque, ma anche recensioni letterarie e teatrali, frammenti narrativi, cronache, appunti di viaggio e ricordi o solo ritratti di personaggi. Qui l’autore spazia molto, mescolando generi e stili. Un passo di quest’opera, inoltre, può considerarsi assolutamente paradigmatico del metodo di lavoro di Tondelli: quando Tommy chiede a Didi come procede la stesura del suo romanzo, ed egli risponde: «A rilento. Sto per ore e giorni e notti a inseguire una parola, quella sola parola. Non mi interessano le trame, i plot, quelle stronzatine lì: vado con l’orecchio. Cerco semplicemente di far sì che le parole mute della pagina diffondano il loro suono, la loro voce. Così che si crei un ronzio cerebrale, che è la musica della pagina, il suo ritmo. Io cerco il ritmo, la musica dei miei anni, cerco d’avere una frase che si possa cantare in testa: faccio musica con le mie parole».
Ed è presente anche in “Biglietti agli amici”, che fu inizialmente pubblicata dall’esordiente casa editrice bolognese Baskerville. Si tratta di un libro molto personale, artigianale ma ben curato, che, in origine, doveva essere un livre d’art di sole cinquanta copie, con tavole astrologiche ed angeliche disegnate da un artista. Nell’edizione che fu distribuita in libreria, invece, ai nomi degli amici cui sono dedicati i bigliettini sono sostituite le iniziali. Si tratta di un libro di ventiquattro pagine (una per ogni ora del giorno) che riunisce frammenti, trascrizioni di canzoni, piccoli testi, brevi racconti di viaggio.
I temi e i momenti di riflessione, già presenti in fieri in “Biglietti agli amici”, sono accentuati e inseriti in una struttura narrativa ben più ampia e complessa, quella del romanzo, in “Camere separate”, l’appassionante e luttuosa storia gay tra il trentaduenne Leo e il suo compagno Thomas, ma anche la narrazione di un percorso di solitudine, attraverso il tema della morte, del dolore, l’ansia d’assoluto, il rimpianto per l’impossibilità della maternità, che rimanda ad una complessa ricerca d’interiorità. Argomenti sviluppati attraverso una scrittura diversa rispetto alle precedenti, più controllata: qui Tondelli rimette in discussione se stesso e l’etichetta di scrittore giovanilista che gli derivava da “Altri libertini”, dando vita a quello che sembra un romanzo di formazione, cioè fondato sulla sua educazione sentimentale, seppure in chiave drammatica, dato che si tratta di rivivere il lutto facendo i conti con la morte ed il destino dell’uomo. Il trauma subìto getta Leo nelle braccia di una cupa solitudine (il romanzo è pressoché privo di dialoghi), nella quale il personaggio si smarrisce e non sa più chi sia.
A questo punto non resta che chiederci se Tondelli può essere considerato un «classico». Filippo La Porta sostiene che «si differenziò per una capacità espressiva esuberante; per l’originalità linguistico-lessicale (neologismi come: spolmonare, far l’amore sforacchiato, pensierare) ed un’estrema libertà sintattica; per una filosofia freak e vitalistica; per la suggestione del viaggio e della fuga ed il tono svagato, allegro e irriverente».
Piersandro Pallavicini si spinge oltre sostenendo che «da lui venne una rivitalizzazione della nuova narrativa. La sua lezione sulla necessità e l’urgenza della scrittura, in un’epoca, gli ultimi anni 70, dominata dalla ricerca e dallo sradicamento della parola, è stata impagabile, l’illuminazione circa la letterarietà della cultura bassa contemporanea, una vera folgorazione. Da lettore, pronuncerei un assenso altrettanto entusiasta: per la potenza, il grande respiro, il benedetto pugno nello stomaco, l’empatia, la facoltà di travolgere, commuovere, cambiare la vita, di cui brillano ancora, a dieci o vent’anni dall’uscita, i suoi romanzi o racconti. Tondelli è stato unico e prezioso».
Di diverso parere è Gian Paolo Serino affermando che «i romanzi dello scrittore emiliano furono certo dei capolavori per chi è cresciuto negli anni 80, ma totalmente insignificanti per i posteri». Circa la sua iperattività di talent-scout, inoltre, Serino chiede polemicamente: «È forse un merito averci fatto conoscer scrittori come Guido Conti o Silvia Ballestra? Più che un talent-scout, Tondelli è stato un talent-discount, colpevole di averci propinato la melassa più pretenziosa della nostra narrativa”.
Certamente ciò che distinse maggiormente questo autore fu proprio l’insolita capacità di interagire con altri scrittori e di dare una mano concreta a quanti si avvicinavano, tra mille difficoltà, a quella «mafia piccola piccola» che è il sistema editoriale italiano, secondo una significativa definizione di Daniele Brolli. La verità è che Tondelli fu uno scrittore vero, in qualche modo un predestinato («Ho sempre scritto, cominciando a sedici anni col solito romanzo sull’adolescente frustrato»), che si diede un gran da fare anche in ambito giornalistico, nonostante censure varie, tra cui resta celebre quella di Pippo Baudo, che rifiutò di presentare Rimini a Domenica In, e seppe inventarsi organizzatore di cultura: restano infatti storiche le tre antologie «under 25» da lui curate (“Giovani blues”, “Belli e perversi” e “Papergang”), grazie alle quali furono lanciati autori ancora sconosciuti come Giuseppe Culicchia e la già citata Silvia Balestra. Non sapremo mai cosa avrebbe potuto ancora scrivere, ma è lecito ritenere che, data la sua prematura scomparsa (che lo accomuna ad un altro notevole narratore del Novecento, Federigo Tozzi) ci avrebbe dato ancora molto. Certamente di Tondelli rimarrà l’uso del linguaggio parlato che si fa continuatore della ricca tradizione dei linguaggi anarchici emiliano-romangnoli.
Ma il suo vero «testamento poetico» ce lo ha dato egli stesso, in questa significativa riflessione: «Dopo due righe, il lettore dev’essere schiavizzato, incapace di liberarsi dalla pagina; deve sudare e prendere a cazzotti, e ridere, e guaire, e provare estremo godimento. La mia Letteratura esprime le intensità intime ed emozionali del linguaggio».
Nato a Correggio (Re) il 14 settembre 1955, Pier Vittorio Tondelli cominciò a frequentare la biblioteca comunale a soli 12 anni. Qui lesse romanzi d’avventura come “Le tigri di Mompracem” di Salgari. Frequentò poi il liceo classico e s’avvicinò all’associazionismo cattolico. Dopo la maturità, si iscrisse al Dams (Discipline Arte Musica e Spettacolo) dell’Università di Bologna, cominciando a frequentare cineclub e teatri, lavorando anche per radio private. Frequentò le lezioni di Umberto Eco, si spostò spesso a Milano, che vide come città «della fantasia, della libertà e del desiderio». Nel 1980, si laureò col professore Paolo Bagni, su un argomento che influenzerà talune sue scelte narrative: “Letteratura epistolare come problema di teoria del romanzo”. Partì poi per prestare il servizio di leva, prima ad Orvieto e poi a Roma. Dopo un viaggio in Tunisia, venne ricoverato in ospedale a Reggio Emilia. La diagnosi fu spietata: Aids.
Tondelli scelse di nascondere la sua malattia e continuò ad incontrare solo gli amici più intimi. Verso la fine della sua vita, si riavvicinò alla religione cattolica. Nel letto d’ospedale lesse ed appuntò la “Traduzione della prima lettera ai Corinti” di Giovanni Testori. Scrisse inoltre degli appunti circa un progetto letterario che non riuscì però a realizzare: “Sante messe”.
Morì poco prima di Natale, il 16 dicembre 1991. Venne sepolto a Canolo, frazione di Correggio.
(Articolo di Fernando Bassoli, pubblicato sulla rivista Orizzonti n.41)
La rivista si trova qui: http://www.rivistaorizzonti.net/puntivendita.htm
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