| Horror vacui. Paura del vuoto. Come gli ingenui artefici dell’età “oscura”, orafi pittori o scultori che fossero, infittivano fino alla tracimazione ossessiva i loro labirinti decorativi, forse come a tessere una ragnatela rassicurante e protettiva. Come i tenaci e oscuri maestri dell’età di mezzo oggi siamo ripiombati nel terrore dello spazio (apparentemente) vuoto, la pausa, l’intermezzo meditativo. Sennonché essi, scalpellini e miniaturisti dell’anno mille, avevano tutte le ragioni per riempire nicchie e spigoli vuoti dovendo vivere nell’angoscia e nell’incertezza di una Europa desolata e tetra, martirizzati dalle alluvioni barbariche, in mezzo a lande incolte e selvatiche. Così si aggrumavano a difesa nei borghi e nei castelli, tra vicoli spelonche e torrette accatastate e costrette, manco fossero una colonia di mitili a proteggersi dalla furia delle onde. Ma cos’è e che significa, oggi, dove gli spazi vuoti tra città e città e tra individuo e individuo sono risicatissimi, che significa questa collettiva nevrotica ossessione di colmare fino al rigurgito ogni minima possibilità di guardarsi intorno e respirare nei liberi spazi che madre natura un giorno ci concesse? Non che si debba essere necessariamente filosofi poeti o asceti per poter gustare dell’aria libera e silenziosa e di ampi intervalli tra una corsa un affare e una necessità. No; il desiderio di meditare in pace di sé, del proprio destino o semplicemente di nulla nel refrigerio di uno spazio adeguato è da sempre innato nel percorso dell’umana specie. Anche il cavernicolo o il carpentiere gotico, il guerriero della comunità tribale o il pellegrino di antiche migrazioni, chiunque fosse l’individuo sentiva di tanto in tanto l’insopprimibile necessità di allontanarsi dal gruppo, isolarsi, magari per pregare o bestemmiare o piangere, o soltanto per gustare il piacere di un pò di benefica solitudine. Ma sembra che nei tempi convulsi e ansiosi che viviamo questo antico primordiale piacere,volente o nolente, ce lo stiamo disumanamente negando. Viviamo in un marasma di occupazioni necessità e interessi continuo, insostenibile, probabilmente nel terrore (horror vacui!) di ritrovarci a mani vuote e spiazzati nel confrontarci impietosamente con noi stessi. Paura di guardarci allo specchi o e di non piacerci affatto? Paura di uscir dalla fitta rete in cui ci siamo intrappolati per non dover cadere in spazi e prospettive dove dovremmo fare i conti con il nostro inqualificabile essere? Sta di fatto che pur odiandoci e detestandoci l’un l’altro come i classici topolini ingabbiati in spazi angusti, non sappiamo più fare a meno della straripante congestione in cui implacabilmente ci ritroviamo ogni giorno, sognando pure viaggi e fughe puramente illusori. C’è chi organizza il suo tempo costipato di impegni e occupazioni tanto da non lasciarsi neanche un minuto per guardarsi in faccia, o chi è in perenne, concitata conversazione telefonica senza riuscire neanche più a tacere un istante, c’è chi corre di quà e di là inseguendo indemoniati ipotesi di “successo” e ingurgitando tempo e cibo senza gusto e senza tregua. Senza tregua. Infanti o decrepiti che siamo ognuno qui fugge da sé e dal proprio riconoscersi nascondendosi nella confusione delirante dei nostri nidi formicai e alveari. “E ora che faccio?” mi disse quasi atterrita la distinta signora che incautamente aveva lasciato “scoperto” un quarto d’ora della sua intensa giornata. “Provi a sedersi da qualche parte senza pensare a nulla, magari insegua le nuvole o ascolti a occhi chiusi lo stormire degli alberi!” le dissi. Ma la distinta signora, credendomi un povero mentecatto, si allontanò rapidamente rituffandosi beatamente a strangolarsi nel groviglio del suo eterno daffare. Qui o laggiù, da qualche parte, con qualcuno, basta non ritrovarsi da soli!
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