| “Non tutti i bastardi sono di Vienna” si è aggiudicato il Premio Campiello 2011
di Simone Visentini - www.mangialibri.com
Andrea è il vincitore del Premio Campiello 2011 con “Non tutti i bastardi sono di Vienna”, ma ha alle spalle una lunga e fortunata carriera come scrittore per ragazzi. È stato poeta e traduttore di opere poetiche (Walcott e Pound). Un traguardo importante che celebra il suo primo romanzo “adulto” e lo pone sotto le accecanti luci della ribalta in una posizione scomoda, quella del successore di una vera campionessa di vendite, Michela Murgia. L’aria che si respira ascoltando le parole dello scrittore è quella della Mitteleuropa, l’olezzo che si avverte nei corridori delle Accademie - è attualmente docente di letteratura a Padova - e nei salotti buoni, quelli senza televisione. Persona colta e smaniosa di sviscerare all’uditorio le sue ricerche da incallito bibliofilo, Molesini parla in maniera semplice e forbita, citando Vattelappesca come se si trovasse perennemente di fronte a una classe di matricole.
Cos’è un romanzo storico secondo Molesini? E cosa significa scriverlo?
«È un romanzo fatto di personaggi. La mia mente di scrittore è un po’ maniacale e ossessiva, tanto da avermi imposto di scrivere la “storia” di ogni singolo personaggio. Conoscere la loro quotidianità è stato molto utile, anche se mai avrebbero compiuto certe azioni nella realtà della narrazione – come per esempio preferire per la colazione pane e pressata o pane e marmellata. Per calarmi nei panni di chi per la prima volta imbraccia un’arma da fuoco, ho deciso di prendere il porto d’armi. È quanto capita al protagonista: un ragazzo, diciassettenne appena, con un forte punto di vista sugli eventi che racconto e che gli faccio narrare in prima persona. Il suo senso dell’orrore è intatto, ancora non conosce il sesso e le donne, è un innocente voglioso di tutto».
Quindi il romanzo storico è da intendersi come un’opera universale?
«Certamente. Questo mio libro è un dramma con il cuore pulsante di una commedia, genere che ho veicolato tramite l’uso del dialetto veneto e lo spirito salace di alcuni personaggi, come quello del nonno».
Sei anche autore di poesie. Si rimane poeti, pur scrivendo un romanzo?
«Sono due esperienze ben distinte, la poesia e la prosa. Quest’ultima è estremamente efficace per la realizzazione dei miei scopi letterari. Raccontare i personaggi, che siamo noi tutti. Mettere in risalto le differenze nette tra i ceti sociali, oggi ormai scomparsi. È questo anche lo scopo della pagina scritta, che grazie alla prosa può divertire, talvolta anche insegnare. Onora la vita, la pienezza del mondo e la sua forza vitale».
Colpisce la cura nel delineare i personaggi. Tutti, anche quelli secondari, hanno una forte caratterizzazione...
«Importantissimo è quella della cuoca, Teresa. La sua figura apre e chiude il romanzo, diventando così il centro di tutta la narrazione. È sempre lì, ferma e salda mentre attorno a lei cambia ogni cosa. Sulle spalle porta il peso di una sofferenza enorme e infine, proprio per questo motivo, sopravvive. Così anche il personaggio del custode è decisivo, poiché ho deciso di riservargli un argomento a cui sono molto legato: la resistenza italiana durante la Grande Guerra. Probabilmente non esistono in commercio testi che ne parlino, bisogna andarli a scovare per proprio conto. Non si tratta di una resistenza armata, ma di una fitta rete in gran parte volontaria di disturbo verso le azioni militari nemiche. Chi ne faceva parte era un perseguitato: per chi possedeva dei piccioni era prevista la pena capitale - almeno finché questi volatili furono considerati un pericoloso mezzo di comunicazione e non una necessaria fonte di sostentamento alimentare, cambio di prospettiva che purtroppo avvenne molto presto - e ancora era vietato stendere più di tre panni per volta, poiché venivano usati come segnaletica durante gli avvistamenti degli aerei da guerra austriaci».
Quanto peso ha avuto nella stesura di questo libro la sua esperienza di traduttore e scrittore per ragazzi?
«Poco o niente. Sono cose che non faccio più, soprattutto per mancanza di interesse. Il linguaggio del romanzo è diverso e fin da subito mi ha messo alla prova. È stato un limite che mi è servito da sprone, utilizzare un nuovo e unico linguaggio per raccontare la mia storia. Sono ben riconoscibili alcuni riferimenti letterari alti e precisi. Penso a Giose Rimanelli, Emilio Lussu o ancora Curzio Malaparte. Sicuramente Lussu è stato un autore a cui ho ammiccato. Ma attenzione, questo non è un romanzo di guerra!».
(Articolo pubblicato sulla rivista Orizzonti n. 40)
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