| Domanda – Come nasce l’idea del romanzo «Archeologia del presente»?
Vassalli – Nasce essenzialmente dall’aver conosciuto realmente i personaggi che ritraggo tra le pagine, dall’essergli vissuto accanto per decenni, dal fatto di aver avuto una comunanza di scelte esistenziali, di orientamenti politici, di chiavi di interpretazione della realtà e del vivere.
Domanda – A cosa hanno portato, realmente, i valori di cui parla?
Vassalli – Beh, i valori per cui moltissimi dei miei personaggi hanno lottato, hanno portato a un reale cambiamento del nostro Paese, sebbene il loro obiettivo fosse di natura decisamente più ampia, nonostante essi cercassero disperatamente di cambiare il mondo. Il mondo non si è fatto cambiare o, almeno, non del tutto. Semmai, il mondo ha incominciato a cambiare da solo, rigenerandosi nel tempo, progressivamente. Comunque, è innegabile quanto quei sacrifici e quell’impegno siano stati importanti nel rendere possibile la trasformazione della società in cui viviamo.
Domanda - «Archeologia del presente» è anche un libro sulla difficile coscienza del “dopo Sessantotto”, e in parte sulla consapevolezza amara del declino di un’epoca. Come vive lei, da intellettuale, la fine di quel periodo?
Vassalli – Io ho seguito gradualmente tutti i passaggi che sono avvenuti durante gli anni, e sono stato, insieme a parecchi altri, testimone di quanto è accaduto in Italia e all’estero. Da scrittore ho poi sentito l’esigenza di fare i conti col passato e la generazione alla quale appartengo, partendo dalla vita, dalle aspirazioni del mio tempo, dalle sue utopie. Ovviamente, essendo un narratore di storie, ho scelto di ripercorrere quell’epoca in maniera libera, fantasiosa, evocando vicende e situazioni esemplari.
Domanda – Qual è il personaggio più esemplare che ha cercato di ritrarre?
Vassalli – Sicuramente il borghese progressista in lotta di classe contro se stesso, l’uomo che ha cercato di cambiare il Paese in cui avrebbero vissuto i suoi figli, una figura che, se dal punto di vista sociale ha vinto la sua battaglia (non dimentichiamo, come ho già detto, i progressi, i miglioramenti, i passi avanti compiuti dall’Italia attraverso gli ultimi quarant’anni), dal punto di vista umano ha subito un doloroso fallimento, proprio per quella sua impassibile aspirazione a rinnovare del tutto il mondo e la realtà circostanti.
Domanda – Il libro anticipa in maniera impressionante e immaginaria il delitto di Erika*, l’evento che, in maniera così crudele e clamorosa, ha occupato le cronache degli ultimi mesi. Cosa manca agli adolescenti di oggi, secondo lei, da spingerli all’idea di uccidere il proprio genitore?
Vassalli – Guardi, è successa una cosa davvero strana. Quando i telegiornali hanno annunciato quell’orrendo delitto, il romanzo era già in stampa. Io avevo come anticipato – letterariamente – quegli strani accadimenti. Questo mi ha fatto riflettere moltissimo, arrivando a delle mie personali conclusioni.
Domanda – E quali sarebbero?
Vassalli – La consapevolezza di una differenza sostanziale. I giovani della mia generazione avvertivano un’esigenza di fondo che era quella di uccidere il padre in senso metaforico, attraverso il ribaltamento di modelli, valori, di tutti quei comportamenti dettati insomma da una società arretrata e ancora conformista. Se per i padri era importante vestire bene, avere un conto in banca, obbedire alle buone creanze, i ragazzi cercavano la moda dei jeans, della minigonna, andavano in giro senza un soldo, e dicevano le parolacce, proclamando la liberazione sessuale. Questo faceva sì che consumassero tutte le loro potenzialità omicide in una disputa che, fortunatamente, rimaneva solo intellettuale, etica, ideologica. Oggi, i ventenni non hanno più l’esigenza di uccidere simbolicamente il proprio padre, per cui, in qualche caso terribile, lo fanno davvero, in senso letterale.
Domanda – Come sintetizzerebbe le trasformazioni alle quali ha assistito nei trent’anni che hanno fatto seguito al Sessantotto?
Vassalli – Qui bisogna fare un’annotazione fondamentale. Si è sempre creduto che la cosiddetta Rivoluzione giungesse con il Sessantotto, dimenticando in realtà che le prime grandi trasformazioni cominciano già a partire dai primi anni Cinquanta. Bisogna andare indietro di almeno diciotto-venti anni, per avvertire i primi indizi di un reale cambiamento. È allora che nascono i fermenti che cambieranno profondamente la società italiana, il suo modo di rapportarsi alla cultura, di elaborare delle nuove linee di pensiero e di sviluppo.
Domanda – E nei confronti della letteratura, cosa succedeva di interessante?
Vassalli – Succedeva che nasceva il mestiere dello scrittore, un tempo inesistente. Al di là delle mode di ogni stagione – pensiamo per esempio a “Cuore” di De Amicis, che rappresentò un autentico trionfo editoriale ante litteram – prima degli anni Cinquanta scrivere non poteva in alcun modo essere un mestiere. Poteva permettersi di scrivere solo chi era ricco di famiglia, come Manzoni o Tomasi di Lampedusa, oppure chi era abile a ingegnarsi una parallela professione di giornalista, redattore in case editrici, cronista.
Domanda – Oggi, secondo lei, le cose sono cambiate?
Vassalli – Certo, anche se le statistiche ci ripetono che siamo sempre uno dei Paesi europei in cui si legge meno. È vero che il lettore comune si lascia spesso abbindolare dalle facile mode del momento, o dalle suggestioni dei media, tuttavia, in qualche modo, oggi si può anche vivere di scrittura. Cosa che non accadeva nemmeno lontanamente cinquant’anni addietro, ed abbiamo l’esempio di Calvino, il cui talento è evidente a tutti, ma la cui fortuna fu riconosciuta, in massima parte, soltanto dopo la morte.
Domanda – Lei ha vissuto una grande stagione intellettuale, insieme a tutti gli scrittori che ruotavano intorno alla redazione dell’Einaudi. Cosa ricorda di quel periodo e del fermento culturale della casa editrice?
Vassalli – Beh, non potrei certamente riassumerlo in poche righe. All’Einaudi ho avuto la fortuna di conoscere proprio tutti i maggiori scrittori italiani del mio tempo: da Calvino alla Ginsburg. L’unico che non feci in tempo a incontrare fu Cesare Pavese. L’Einaudi è stato un centro indiscusso di cultura e di pensiero alto, e credo che, nonostante un decennio di relativo appannamento tra gli anni Ottanta e Novanta, ancora oggi rimanga il primo, grande editore italiano di vera cultura.
Domanda – Ogni scrittore si porta appresso un romanzo del cuore. Tra tutti i suoi libri, ce n’è uno al quale si sente maggiormente legato?
Vassalli – Sì, “La notte della cometa”.
Domanda – Perché proprio questo?
Vassalli – Perché è il romanzo dentro il quale maturavo un radicale cambiamento del mio modo di essere scrittore. Era il libro con cui abbandonavo certe illusioni sulla neo-avanguardia, e ripercorrevo la difficile esistenza di Dino Campana, poeta visionario anch’egli passato attraverso le delusioni di un’avanguardia potente come il Futurismo. Campana, per primo, intuisce che nell’arte non può esserci progresso come nella scienza. L’arte non ha un prima, un dopo, un durante costruttivo: l’arte può solamente esistere o non esistere. Può semplicemente esserci o non esserci.
Domanda – Alcuni suoi libri, come «Archeologia del presente», hanno un carattere prettamente storico, di indagine dei fatti. Altri propendono, invece, verso una dimensione sognante e immaginaria… Quale tipo di scrittura è più difficile, secondo lei?
Vassalli – Sicuramente è più facile immaginare, che toccare fatti del proprio vissuto, della propria storia, di una memoria che diviene, per via di cose, memoria collettiva. Il mio ultimo romanzo parte proprio dalla vita, per cui la sua redazione si è rivelata complessa, disarmante, talvolta dolorosa. È un libro che ha suscitato delle reazioni, poiché ha messo in luce fatti ed esperienze di persone ancora vive, che vi si sono ritrovate. È uno dei libri più difficili che io abbia scritto. Ma è un libro che non avrei potuto non scrivere, il romanzo che mi ha fatto capire chi sono e da dove vengo.
Domanda . Perché un titolo che parla di sentimenti vissuti come riferendosi invece a elementi archeologici?
Vassalli – Perché, a un’attenta analisi, oggi stentiamo quasi a riconoscere non solo le motivazioni effettive del Sessantotto, ma addirittura le ragioni prime di quegli atteggiamenti, il sostrato psicologico e ideologico che ha fatto da base all’azione, alle risoluzioni, alle battaglie di allora. Probabilmente, non siamo più in grado di far nostra quella voglia sagace che avevamo di cambiare il mondo.
Domanda – Esiste un tempo preferito nel suo modo di raccontare storie?
Vassalli – Sì, tutti i miei romanzi parlano sempre del presente. Il presente dei nostri giorni filtra attraverso canali mediatici differenti da quello che una volta poteva essere la letteratura: oggi abbiamo i giornali, la televisione, la pubblicità. Sarebbe molto più facile raccontare il presente proiettandolo in epoche lontane, differenti, leggendarie. È certamente più difficile, invece, parlare di un presente ancora attuale, che lascia tracce, pensieri, ricordi. E questo è ciò che ho scelto di fare con «Archeologia del presente».
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* Il delitto di Novi Ligure
(Articolo di Luigi La Rosa, pubblicato su Orizzonti n.18, apr-lugl. 2002)
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