| Questo libro di Giuseppe Cappello è costituito da un gruppetto di poesie, 26 in tutto, e da una scelte antologica delle stesse tradotte in inglese. Un libro, insomma, a dir poco stringato, che presenta al lettore una serie di componimenti appartenenti tutti ad uno stesso ambito tematico ed espressivo: protagonisti assoluti ed esclusivi di queste poesie sono la scolaresca, l’insegnante (o gli insegnanti) e l’aula, con tutti i suoi elementi materiali e inorganici e di cui la foto di copertina (ben scelta e ben significativa) fornisce una rappresentazione iconografica che ne conferma il ruolo tutt’altro che secondario nella trasfigurazione letteraria dell’esperienza esistenziale. Per quanto scarna, la silloge di Cappello merita, a parer mio, d’essere segnalata perché offre al lettore uno sguardo non comune sul mondo scolastico. Siamo abituati a veder rappresentato il mondo della scuola sotto una luce che ne mette in rilievo la disincantata e burocratica postura degli insegnanti, la distratta e infingarda partecipazione degli studenti e la derelitta struttura edilizia che li accoglie, l’aula, appunto. Tutte cose ovviamente innegabili e sperimentate da tutti e ciascuno, ma la poesia, la letteratura posso anche mostrarne i lati meno sconfortanti e indurre speranza per approcci meno abbrutenti. Ed è quanto fa, sospendendo considerazioni sociali stringenti e puntuali, il poeta-insegnante Giuseppe Cappello. Si tratta, beninteso, di uno sguardo idealizzante e soggettivo, ma sorretto da un’elaborazione stilistica coerente e riconoscibile, che le conferisce plausibilità e condivisibilità, letteraria, se non altro.
Tra le tracce stilistiche più evidenti di queste poesie mi piace segnalare la commistione di termini di etimologia, stati d’uso e natura del tutto diversi, se non opposti, così possiamo trovare accostamenti tra “dio” e “iPod”, tra “essere” e “slang”, ecc.; le metaforizzazioni raffinate, sebbene talvolta un po’ ermetiche, che rendono rarefatta e preziosa l’espressione; le sovrapposizioni metaforiche o allegoriche tra situazioni comuni e quotidiane, il poker, il calcetto, il volley, e la proiezione mitiche che suggeriscono all’io lirico e che danno alla scolaresca una dimensione al contempo ideale e usuale, contingente e eterna. Le stesse parole, le stesse immagini, gli stessi procedimenti vengono ripetuti più volte in diverse poesie contribuendo a formare l’idea della poesia come stanza, aula, dentro cui risuonano, si richiamano, si ripercuotono, voci e pensieri, sensazioni ed emozioni, facendone un mondo chiuso, consapevolmente separato dal resto. Spesso il componimento non ha svolgimento sintattico o narrativo, e i singoli versi sono autosufficienti, collegati a quanto precede o a quanto segue in virtù del contesto, dell’aula reale che li suggerisce e di quella metaforica, la poesia, che li accoglie. Nell’ultimo componimento l’io lirico esce dall’aula e racconta il quotidiano viaggio dal centro alla periferia per raggiungere la sua scolaresca: il tono si fa più colloquiale, la trasfigurazione mitico-letteraria dell’esperienza esistenziale è modulata in forme più comuni. La clausola, però, dove il poeta incontra di nuovo la figlioletta, ripropone l’impennata improvvisa che va dal quotidiano al mitico senza passare per la storia e che val la pena di citare perché rappresentativa dei meriti e dei limiti dell’intero libro:
Ti vedo
(…) I lazzi ed i baci
Lancette d’infinito nel pendolo del dio.
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