| Leggo che (libri, dibattiti, sociologi ed economisti) l’ozio è quasi di moda. Dico «quasi» perché è impossibile, contronatura che questa nostra società libidinosamente dipendente dal suo frenetico attivismo e da un ansioso «horror vacui» temporale (aver da fare 24 ore su 24) possa in effetti accettare e godere il piacere (per altro raffinato e filosofico) di non far nulla. Ci si accorge (ah, questi santoni delle tavole rotonde! ah, questi eleganti psicologi in flanella!) che la pausa, l’intervallo, il vuoto apparente, pur fatto di delicato centellinare i minuti, gli istanti del nostro vivere, è la necessaria qualità che manca a tanto fare, fare, che si esaurisce poi nei bruschi collassi che non sono il necessario riposo della nostra anima ma il buio intervallo posto tra una cosa e l’altra da fare.
Rivendico, permettete? A me la «specializzazione» di ozioso patentato, frutto di lunghi anni (intrapresi fin dalla più tenera infanzia) di ricerca e di studi. Ma, badate, non ci si improvvisa oziosi: è un talento l’arte dolcissima del non far nulla. Viene dall’oriente, da lunghissime civiltà, il gusto per la sospensione temporale, la capacità di immedesimarsi nel tutto circostante vivendosi addosso senza «poi» e «perché», nel brivido sottile ed ineguagliabile d’essere vivo nel tessuto d’un mondo deliziosamente immanente. Fui ozioso da sempre, so quel che dico, a scuola, nel lavoro (il minimo indispensabile), nell’amore; quando mio padre mi rimproverava dandomi del «levantino» io sentivo quell’attributo con orgoglio, quasi una medaglia di civiltà.
Ma come può l’uomo occidentale, razionale, attivo e antiutopista apprezzare ed amare veramente l’ozio? Solo qualche filosofo, qualche poeta e molti napoletani possono capire di che si parli. L’ozio non è l’inspiegabile nulla, l’immotivato vuoto, il punto inerte tra centomila traiettorie che si incrociano; bisogna sapersi fermare, abbandonare la fretta, sedersi mentalmente come a teatro ed ammirare lo spettacolo incomparabile di questo mondo. Bersi la luce e i colori con la sottile cannuccia dei propri preziosissimi minuti. Il volgare ozio di cui spesso si parla è tutt’altra cosa: è il brutale e beota accasciarsi, l’ingombrante parassita che popola i sensi di colpa della nostra attiva e fattiva umanità. L’ozio che rivendico e rivendichiamo tutti (balsamo delle nostre esistenziali piaghe) è l’accorgersi e il piacere del nostro esistere, è crogiolarsi nel tepore di culla del nostro corpo, è il sentirsi dolcemente frutto di questo universo che ci nutre e scalda. Insomma, saper oziare significa sentire la vita e viverla degnamente, penetrarla fin nelle pieghe più riposte e segrete delle sue radici. Veniamo da genti antiche che sapevano combattere e faticare, ma sapevano anche oziare, senza ansie e sensi di colpa; abbiamo perduto questa carissima abitudine (soprattutto nelle valli tribolate delle nostre città) che sapeva medicarci dolori e mortificazioni. Bisogna tornare alla nostra cultura filosofica; bisogna riprendere misura del proprio spazio e respiro: fermatevi! Non domani o quando potrete, ma adesso!
Sedetevi dovunque siate (meglio sotto un albero, con grati suoni naturali) e lasciate scorrere in pace il vostro sangue. Mi fanno ridere i dottoroni e gli «esperti»: non si può programmare o codificare l’ozio, bisogna esserci dentro e viverlo sopra e sotto la pelle. L’ozio è profondo e creativo, è la musica delle sfere, è l’unica possibilità di goderci e amarci, l’ozio è l’unica felicità possibile.
Bertrand Russell disse: «L’ozio è essenziale per la civiltà». Oziate e moltiplicatevi; il resto verrà da sé!
(Articolo di Luigi M.Bruno, pubblicato sulla rivista Orizzonti n.18)
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