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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Intervista ad ALDO BUSI: «Non bisogna mai aspettarsi nulla dagli altri. Bisogna dare, perché è nel nostro dovere di umanità».

di Rivista Orizzonti

Domanda - Professor Busi, ci parla un po’ della sua infanzia?

BUSI - Non parlerò della mia infanzia, perché non c’è niente di più scontato che avere avuto un’infanzia. C’è sempre un’infanzia dietro ciascuno di noi. E quando uno non ha niente, può sempre dire di aver avuto la sua infanzia.

Domanda - Com’è stato il rapporto con sua madre?

BUSI - Io amo mia madre in quanto persona, perché, intenta ad accudire tanti figli, e presa nei difficili ruoli di moglie e di madre, non ha avuto affatto il tempo di imparare il linguaggio dell’affettività. Fino a qualche anno fa si schermiva, e soltanto quando ha avuto settant’anni ho potuto agguantarla e darle un bacio in fronte. Da lì ho capito che l’amore si trasmette attraverso i fatti, non attraverso le parole, e non necessariamente attraverso la gestualità dell’amore. Ho impiegato altri dieci anni per poterla abbracciare. Sento di amarla come persona, perché ne ho capito la storia e la solitudine.

Domanda – Lei crede che per un artista, o più semplicemente per un uomo, sia possibile costruire volontariamente la propria personalità?

BUSI – Le dirò subito che non c’è affatto nulla di universale in noi. Ci creiamo dei miti e dei valori, ma in realtà siamo soltanto il frutto della contingenza. L’uomo ha tutto meno che natura, siamo solo esseri umani nervosi, soggetti alla nostra cultura o subcultura. Noi che ci proponiamo disperatamente di determinare, siamo sempre comunque determinati. Soltanto all’essere veramente umano spetta la facoltà di disintroiettare questa oggettivazione, quindi aspirare a diventare se stesso e sapere realmente chi è per rapporto al mondo e agli altri.

Domanda – Perché e per chi scrive Aldo Busi?

BUSI – Il mio destinatario non è mai programmato nella scrittura. Io non ho mai scritto per un target di lettori prestabilito. Assolutamente. Per questo c’è un plusvalore di libertà nei miei libri, perché non c’è un destinatario inserito da me, neppure subliminalmente. Io guardo solo me stesso, il magma del mio caos al quale devo dare una forma e quindi anche una trama, perché in un romanzo, come ad esempio “Suicidi dovuti”, gestire ben 58 personaggi richiede anche la costruzione di una buona trama. Adesso le dirò in maniera molto semplice e sincera: se scrivo, io lo faccio per me, per avere qualcosa di classico da leggere quando sarò vecchio, cioè da subito. La verità è che mi piace molto rileggermi, e di sicuro i miei libri avranno parecchie cose da trasmettere ai lettori del futuro.

Domanda – Come lavora?

BUSI – Nella scrittura sono di un rigore quasi maniacale. Scrivo fedelmente tutte le mattine dalle cinque a mezzogiorno e, soltanto per onorare gli acconti dei miei editori, mi concedo cinque o sei presentazioni all’anno. Ecco tutto. Per il resto rimango interamente consacrato al mio lavoro di ricerca, analisi e documentazione.

Domanda – I suoi romanzi sono caratterizzati da un forte impegno di reinvenzione della lingua… Quanto è importante, secondo lei, la qualità del linguaggio in uno scrittore?

BUSI - La lingua è fondamentale, anche perché, all’interno dei miei romanzi, ogni personaggio ha un suo preciso campo semantico, cioè parla in un modo che non è il mio e non è neppure del suo vicino di pagina. Quindi, dietro tutto questo c’è un immenso lavoro di ricerca, di curiosità, di studio dei registri espressivi. Attila in “Aloha” scrive lettere sgrammaticate e si dà il caso che sono proprio queste lettere a fare impazzire d’amore quello che gli risponde, che potrei anche essere io, ma non è detto che debba essere io. È molto significativo inoltre, che questi due nomi, Sigfried (quindi i Nibelunghi, Wagner, cavallo bianco) e Attila (quindi di forza, barbarie, orde), siano due nomi aulici, eroici, confluiti verso due uomini piccoli, due ometti da nulla, sempre a prometter l’amore che non danno.

Domanda – È difficile per lei scindere l’uomo dallo scrittore?

BUSI – È difficilissimo, perché io sono scrittore solo in questo preciso istante: non vado mica in giro con la fascetta “scrittore”. Ed è proprio questo il mio grande problema, perché, mentre nella realtà io ritorno realmente un uomo come tutti gli altri, per chi mi circonda sono sempre lo scrittore. Capito com’è difficile? Se come scrittore posso anche escludere l’uomo che è in me, come uomo non potrò mai fare viceversa.

Domanda – Lo è ancora di più per uno scrittore dichiaratamente omosessuale?

BUSI – Certamente. Ma la mia emarginazione deriva non soltanto dalla mia diversità, ma dalla provocazione continua che la mia opera incarna. Io non dico di avere problemi in quanto affermo di essere l’omosessuale che sono, ma in quanto sono lo scrittore che sono. Non è giusto definirmi uno scrittore omosessuale, ma uno scrittore tout court, dotato di una visione e quindi di una scrittura degli accadimenti umani… Per accadimenti umani intendo anche questo work in progress, questo lavoro in corso che è la sessualità umana, a sua volta legata alla storia, alle mode e all’economia.

Domanda – Alcuni anni addietro, lei si è trovato al centro di una polemica infuocata intorno al tema della pedofilia. Ci potrebbe riassumere il suo pensiero in proposito?

BUSI – Beh, questa storia della pedofilia è venuta fuori al Maurizio Costanzo Show di qualche anno fa. È una vicenda assurda, di cui non ho avuto nessuna colpa. Accusare Aldo Busi di essere un pedofilo equivale ad accusare Agata Christie di essere una serial killer…

Domanda – A cosa è dovuto questo?

BUSI – La cosa più grave e terribile è questa: l’identificare gli omosessuali con i pedofili. Io ho conosciuto centomila omosessuali, ma non ho mai incontrato un pedofilo, e mi auguro che sia stramaledetto. Certamente una parte della mia battaglia è anche rivolta a stabilire senza ipocrisie e retorica la linea di demarcazione tra bambino e minore ormai sessualmente e fisicamente sviluppato.

Domanda – Esiste l’amore per Aldo Busi?

BUSI – Più che all’amore, negli ultimi tempi, la nostra esperienza amorosa è ridotta all’amore negato, un amore che, come ho affermato in uno dei miei romanzi, cerca disperatamente di riempire la nostra solitudine senza farci compagnia.

Domanda – Non c’entra forse la paura di non essere ricambiati?

BUSI – Assolutamente no. Nella mia vita ho imparato che non bisogna mai aspettarsi nulla dagli altri. Bisogna dare, perché è nel nostro dovere di umanità, ma senza aspettarsi nulla, senza per questo costringere gli altri al dovere, perché quel dovere significa la fine della libertà altrui.

Domanda – Cosa pensa dei suoi critici?

BUSI – Le dirò che ultimamente ho l’impressione che molti dei miei critici stiano cercando di recuperare il treno perduto. Ma ormai non ci sto. Sono come quelli che mi invitano a mare e monti soltanto oggi. E quando facevo la fame sotto i ponti, quando dormivo sul ghiaccio delle panchine, loro dov’erano? Perché non mi hanno invitato allora? Quando mi si dice “Davvero belli i suoi romanzi”, io vedo qualcuno che probabilmente cerca di accorciare le distanze, e di sentirsi più simile a me.

Domanda – La solitudine la spaventa?

BUSI – La solitudine umana, la considero scontata. Non è quella la solitudine che mi fa paura. La solitudine vera è quella politica, quando un uomo retto fa qualcosa per difendere la libertà di parola e si ritrova solo con i giudici e con quindici querele. È quando sei un giudice, per esempio, e sei abbandonato dalla cittadinanza civile: allora è la vera solitudine. Che me ne può importare, al confronto, del fatto di essere amato fra quattro mura di casa? Ne posso fare a meno. E non voglio costringere nessuno ad amarmi, perché è anzitutto la libertà ciò che conta.




(Intervista di Luigi La Rosa, pubblicata su Orizzonti n. 18, apr. lugl.2002)


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