| È uscito di recente “Diario di un gatto con gli stivali” (Einaudi, pp. 169, Euro 14,50), l’ultima prova narrativa di Roberto Vecchioni, che in questo suo quarto libro riscrive le fiabe più celebri della tradizione europea modificandone però la trama, compiendo cioè un’operazione che consiste nel sopprimere in alcuni casi il lieto fine, nel trasformare i personaggi tradizionalmente buoni in cattivi e viceversa, nel far diventare principi e principesse delle persone normali, magari in preda alla noia e all’insoddisfazione, e così via.
Per chiarire le idee al lettore diamo come esempio la fiaba di Cappuccetto Rosso: ora il lupo non è il malvagio della situazione anzi è buono e per giunta ricchissimo, mentre Cappuccetto, che è una ragazza “indisponente e viziosa, così piena di sé, così premurosa ed esibizionista che si vestiva sempre di rosso per farsi notare da tutti”, organizza col cacciatore un complotto per impossessarsi dei soldi del lupo e liberarsi della nonna – che verrà fatta finire nella pancia del lupo, svenuto dopo le botte dategli dal cacciatore e poi ucciso. Il progetto ha buon esito e Cappuccetto e il suo complice vanno dal commissario reale e gli raccontano una loro versione dei fatti inventata da cui prende spunto la fiaba che noi tutti conosciamo, che non è altro quindi che la versione falsa data dai due complici.
Nelle intenzioni dell’autore questo libro dovrebbe far vibrare di energia nuova i temi di sempre, immettendo in essi novità inconsuete e affascinanti, sicuramente anticonvenzionali. Però se andiamo a scorrere tutte le storie notiamo che Vecchioni, nella volontà di sconvolgere l’ordine tradizionale delle cose, non fa che sostituirlo con un nuovo ordine, una nuova formula, riassumibile nella frase che gli è più cara: «niente è come appare», cioè mai fidarsi di un’unica versione dei fatti; e tutto il libro non è che la realizzazione di questo proposito di vedere i fatti da punti di vista inusuali e “laterali”. Ma l’autore non dà voce a un autentico spirito dissacratorio, e nemmeno ad una vena burlesca che gustosamente si compiace di scombinare le carte; piuttosto traspare come tutta questa operazione sia il frutto di un atteggiamento studiato, di uno spirito che con antiironico, serioso e preciso raziocinio ha pensato – e calcolato – modi per sovvertire la trama delle storie.
Ad esempio Pollicino che non si riconosce più e decide di morire: in sé questo sembra un tema interessante, e potrebbe magari essere l’occasione per indagare un disagio esistenziale, uno di quei malesseri tipici della nostra società moderna e assolutamente assenti invece nella fiaba, che incarna uno spirito semplice e popolare, essendo essa il frutto della civiltà contadina che l’ha creata e tramandata per via orale, prima che venisse poi fermata sulla carta dagli scrittori. Insomma, questo Pollicino che va in crisi poteva essere l’occasione per far collimare una antica tradizione popolare con i malesseri prodotti dal nostro tempo.
Ma, nella storia che Vecchioni ci racconta, Pollicino a un certo punto viene assalito “da una noia invincibile” e dalla voglia di fuoriuscire dalla sua favola, dal suo ruolo, e così, in maniera quasi immotivata si dà alla morte uscendo di casa e andando incontro a una folla inferocita che vuole linciarlo, senza motivo. In questo come in altri racconti gli snodi fondamentali non vengono rappresentati ma solo enunciati.
Infine lo stile: Vecchioni si adegua in parte al canone espressivo tipico della fiaba, usa cioè una prosa chiara e discorsiva, a tratti preziosa e sempre referenziale, cioè informativa – anche se non sempre essa risulta limpidamente scorrevole. In aggiunte poi ci sono qua e là molti inserti di linguaggio popolare.
A volte tuttavia, questi due registi espressivi – quello classico e quello “basso” – vengono dall’autore accostati per giustapposizione, cioè non vi è una fusione tra essi e la loro compresenza non crea una “tensione” espressiva, e nemmeno una piacevolezza dovuta al loro contrasto, per cui lo stile anziché farsi più “ricco” si impoverisce: il “registro basso” sembra essere stato inserito forse per desacralizzare una tradizione che da sempre è portatrice di incanto e che qui, in quasi tutti i racconti, viene svuotata della propria carica emozionale a favore di una nuova “energia” (non dissacratoria, né parodica, né giocosa, né drammatica e via dicendo) che contempla lo svuotamento fine a se stesso, dal sapore borghese.
Il libro è stato presentato a Orvieto, in un teatro Mancinelli gremito di gente. Sentiamo ciò che l’autore ha detto.
Domanda – Lei è soprannominato “Il professore”, avendo da sempre diviso la sua vita professionale tra la musica e l’insegnamento, ma da alcuni anni si dedica anche alla narrativa. Da dove nasce questo suo amore per la scrittura e cosa rappresenta per lei scrivere?
Vecchioni – L’amore per la parola prima di tutto. L’amore tanto per la parola e tanto per la comunicazione della parola. Il primo ricordo che ho della mia vita risale a quando avevo due o tre anni, avevo un cavalluccio a dondolo in legno e per caso un giorno feci pipì per terra, arrivò mia madre e volendo sgridarmi mi disse: “la pipì per terra non si fa”, e io dissi a mia madre: “avallo pipì terra”, cioè è stato il cavallo a fare la pipì per terra: allora capii che le parole hanno una magia, e da allora mi resi conto che la comunicazione già a due o tre anni è la cosa più bella, non è solo comunicazione a gesti, a grugniti o a versi, ma proprio quella miracolosa cosa che è il fonema, cioè una cosa che significa qualcos’altro, una cosa che è un oggetto, un sentimento, un senso. Da allora la parola mi ha catturato la vita, sin da bambino prediligevo i libri, i classici, i libri di favole, i libri che comunque mi comunicassero delle cose, e leggendole le sentivo vive. Il segreto è che la parola è un oggetto sensibile, una specie di qualche cosa che puoi toccare, ha una sua fisicità, fortissima, straordinaria. È anche una cosa che ha il suo movimento nel tempo, nella storia che è arrivata fino a te. La parola ci fa capire non soltanto un tratto, un racconto, una narrativa, un momento; essa ci fa capire una società, un modo di vivere e un modo di pensare, una cultura. Adesso che sono più grande ne conosco molte di più, e ne ho lette tante, in altre lingue soprattutto quelle antiche. Soltanto per esempio, per farvi capire la differenza spaventosa di civiltà, il modo di pensare che esiste tra i greci e i romani. I greci, la “verità” la chiamamno “aleteia”, che è l’unione di due parole, “a” e “leten”, che significa “non nascosto”, cioè per i greci tutto ciò che loro scoprivano, tutto ciò che non era nascosto era la verità. Così si riassume in questa parola un loro senso di scoprire, un gusto di andare alla ricerca delle cose, una razionalità individuale particolarissima, una capacità di passare dal mito alla ragione che è tipicamente loro. Quindi in una sola parola si scopre cosa pensa un popolo. Per i romani invece la “verità” è la parola “veritas”, che deriva da “uer” che significa “azzurro, cielo” è la radice del cielo. Perché la verità era sintomaticamente superstiziosa, non aveva la forza razionale dei greci. Ora, soltanto da questo capiamo che la parola, anche una parola sola, è la magia della cultura di un popolo. Ed è per questo che io ho un grande amore per la linguistica e soprattutto per la comunicazione della parola, per la poesia.
Domanda – Nel suo libro “Diario di un gatto con gli stivali” lei cerca di sovvertire lo schema tradizionale della fiaba. Cos’è che l’ha spinta a compiere questa operazione, dalla quale appare chiaro un suo atteggiamento polemico verso la tradizione favolistica, verso cioè la purezza di cui essa è portatrice, il suo spirito ingenuo, fanciullesco e incorrotto?
Vecchioni – I bambini non hanno una visione ipocrita e politica della vita e nelle favole vedono ingenuamente il bel fine, l’abbattimento del male, io sono molto felice che i bambini la pensino così, ma in realtà le favole altro non sono che i mass media del ‘500 e del ‘600, cioè la rassicurazione che le cose vanno a finire sempre bene. Ma è una rassicurazione tipicamente borghese. Io sono borghese quindi non ho niente contro i borghesi. Intendo “borghese” tra virgolette, cioè mediale, un po’ qualunquista se vogliamo. Quali sono i valori della favola? Le favole che valori propugnano? La cultura, l’impegno, la fantasia, il piacere di stare con gli altri, il sacrificio, l’amore? No, le favole propugnano un unico fondamentale valore, cioè che la felicità nella vita significa successo, avanzamento di classe sociale e potere. Le favole si concludono sempre con qualche sfigato di contadino, o figlio di mugnaio, che riesce attraverso una serie di situazioni a diventare principe o a sposarsi una principessa, che è il massimo delle aspirazioni possibili. Per i bambini va benissimo, per i grandi non va più bene, perché oltretutto la favola propugna una falsità clamorosa e continua, e cioè che la vita è sempre rassicurante, che comunque il finale è sempre buono, che quelli che meritano vincono sempre e che quelli che non meritano sono sempre gli stregoni, le orchesse, gli orchi, e perdono sempre. Questo nella vita non avviene mai.
Domanda – E così lei ha raccontato storie in cui vengono invertiti i ruoli dei buoni e dei cattivi, nelle quali non si hanno certezze assolute. Ha cercato di andare alla ricerca dell’altra verità che si nasconde in ogni fiaba?
Vecchioni – Mi piaceva portare avanti un discorso di questo tipo, cioè ad esempio noi abbiamo una unica soluzione di una storia, ma non esiste che la soluzione di una storia sia solo quella. Nelle favole abbiamo una unica visione della storia, ed è quella raccontata o dal narratore che patteggia sempre per i buoni, o da un buono. Me se noi sentissimo raccontare la favola da chi ha perso, da quello che abbiamo considerato sempre il peggiore? Ad esempio Grimilde di Biancaneve. Perché Grimilde è trattata così male, che ha tutte le ragioni invece per essere incazzata di diventare brutta? Perché a cinquant’anni, dopo essere stata una stragnocca per tutta la vita, aver scopato col marito tutta la vita, improvvisamente si trova abbandonata, e questo specchio riflette le sue rughe, i suoi difetti, le sue malinconie, le sue tristezze? Perché non vedere Biancaneve dal punto di vista di Grimilde? E l’ho fatto, l’ho scritto. Non è falsare una favola, è rimettere la favola su un sentiero umano. Non voglio eliminare la favola, ma ne do una versione diversa, da un altro punto di vista. E tutte le favole possono essere viste da un altro punto di vista. Nelle favole c’è una fantasia che porta al buonismo, alla rassicurazione, e io mi son detto, con lo spirito del contrario che ho, vediamo se, viste da un altro punto di vista, le favole cambiano.
E cambiano eccome! Un aneddoto piccolissimo: un giorno Picasso fece un ritratto a un nobile e, quando finì, il nobile guardò il dipinto, e poi rivolto a Picasso gli disse: “non m’assomiglia per niente”, e Picasso gli rispose con una frase straordinaria: “ma le rassomiglierà”. È una frase che si spiega da sola. Io credo che Dio e la natura ci abbiano dato una sola visibile apparente esistenza nel vivere, ma che in realtà ce ne sono tantissime altre possibili, e sono giustificabili e amabili come tutte le altre. Il fatto è che non abbiamo il tempo e così ne viviamo una sola. Qui sono molto vicino a Borges. E io ho preso le favole come esempio, come divertimento, perché le favole le conosciamo tutti, sono eterne, immutabili, cristallizzate.
Domanda – Il libro nasce da un disco “Il cantastorie”, che contiene un piccolo libretto di fiabe all’interno. Qual è il legame che unisce il suo essere cantautore e scrittore?
Vecchioni – Credo di essere simile come cantastorie, musicista e come narratore, non un fenomeno ma uno che è abbastanza coerente, che quando fa una cosa in musica la fa anche in narrativa. La sfida è che io odio personalmente lo stereotipo, non mi va il luogo comune, non riesco a sopportare qualsiasi cosa – scritta, raccontata o cantata – che sia luogo comune. Sono d’accordissimo con Oscar Wilde quando, riferendosi ad uno scrittore che non ama, dice che fa passare per intelligenti cose stupide in modo che gli stupidi si sentano intelligenti. Io penso che sia il principio dilagante oggi in Italia, perché abbiamo l’impressione che tutto quello che pensiamo sia simile a noi – letto, cantato, eccetera – sia un capolavoro. Ma non è vero, le cose belle sono le cose originali, non le cose dette, ridette, strafritte, straraccontate. Oggi viviamo in un mondo in cui l’ottanta per cento delle canzoni è stato già scritto, l’ottanta per cento dei libri già scritto, perfettamente uguali ad altri. Però purtroppo le cose dette sono quelle nelle quali tutti si buttano, e arriviamo allo scorretto concetto che tutto quello che è popolare sia venduto, sia più accettato dalla gente.
Non è così, è sbagliato questo concetto di popolare, perché noi finché terremo la gente, il popolo, nella certezza che tutte le cose banali, semplici siano popolari, faremo il male della cultura. Le cose, la letteratura, la poesia, la pittura devono far scattare il pensiero per una sfida ogni volta, il cuore, l’anima, il cervello a pensare: “mannaggia, sono davanti a una cosa nuova”; non fermarsi al già detto.
Il popolare vero deve ancora venire, cioè tutto quello che noi oggi riteniamo essere popolare è falsamente popolare, è commerciale.
Quando daremo al popolo, cioè alla gente che non ha studiato tanto, i mezzi per entrare nella magia della cultura, allora saremo sicuramente una nazione avanti, e avremo sicuramente degli autori che meritano e che vendono, e non degli autori che non meritano e che vendono.
(Articolo di Gabriele Bartolocci, pubblicato su Orizzonti .29, ago-nov 2006)
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