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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Poesia
 
Notizie Presenti:
 -

Incontro con ERRI DE LUCA

di Rivista Orizzonti

Uno scrittore capace di far esprimere pienamente i suoi personaggi, di dar voce al loro mondo interiore, anche quando essi sono molto lontani dalla sua quotidianità, come nel libro “Montedidio”, che possiede più l’astrattezza di una favola che non la concretezza e la veridicità a cui De Luca ci aveva abituati negli altri romanzi.
Uno scrittore versatile, infine, che siamo contenti di ospitare in questa puntata di “Artisti Vari – Viaggio nella Nuova Letteratura Italiana”, per la carica emotiva che trasmette attraverso il linguaggio. Come gli anziani che, raccontando le loro esistenze, pur non volendo, trasmettono storia e conoscenza, così De Luca, attraverso i suoi libri, comunica il suo forte legame con la memoria e con la storia, che è poi l’asse portante di tutta la sua stessa vita. Se davvero c’è un elemento ricorrente nella tematica di ogni autore, quello rintracciabile negli scritti di De Luca è proprio questa ricerca affannosa di dare un senso all’esistenza, affinché non si abbia l’impressione di “aver sprecato il proprio tempo”.

Domanda – È da poco uscito il suo ultimo libro, “Montedidio”. Ce ne parla?

De Luca – Questa storia non mi riguarda tanto. Negli altri libri ho sempre scritto avvenimenti che mi riguardavano da vicino e che facevo capitare ai miei personaggi. Sono stato sempre portatore di notizie, redattore della vicenda narrata. Questa volta mi sono staccato da quella che era la mia terraferma – deve essere che quando uno arriva ai cinquant’anni sente il bisogno o d’impiantarvisi o di staccarsi – e infatti in questo libro ho scritto anche delle strofe. Non ci sono persone, ma dei personaggi, che non ho idea da dove siano spuntati. Non so da dove sia spuntato fuori questa specie di gobbetto, che proviene da un monastero tra la Polonia e la Russia. Lui, con gli occhi verdi e i capelli rossi, con questa gobba che rappresenta una zavorra di pena, a cui volevo dare un risarcimento per questa sofferenza. Più che un libro vero e proprio, è una favola, in cui ho tentato di rigirare una persona curva, per porla verso l’alto e farla decollare.

Domanda – C’è sempre, comunque, una motivazione che spinge a scrivere…

De Luca – Forse perché nei cantieri, quando non c’era nient’altro da fare perché tutto era stato ultimato, mi veniva richiesto il compito di raddrizzare i chiodi ricurvi. Credo che quindi dal raddrizzamento dei chiodi mi è venuta l’idea di “raddrizzare” Rafaniello. Poi c’è da dire che, quando si scrive una favola, si scova anche dai fatti raccontati da altri. E io ho fatto una sintesi di tutto quello che mi era stato raccontato da bambino, da ragazzo.

Domanda – Quali erano questi racconti?

De Luca – Non sono le favole di cappuccetto rosso, ma favole locali, spuntate sul suolo di Napoli. Oppure quelle di guerra, che mi venivano raccontate da mia madre. Quanti bombardamenti, fughe! Da bambino erano queste per me le favole, piene di spiritelli che io potevo veder incarnati in giro. C’erano queste favole di fantasmi, dispettosi o favorevoli che fossero; questi individui scomparsi che si aggiravano nei sogni, nelle strade, nel bancolotto (i bancolotto erano delle sedute spiritiche attraverso il medium che prendeva le ricevute del gioco). Perché una cittadina così piena di genere umano – Napoli allora era la città a più alta densità abitativa d’Europa – aveva bisogno di questo brulichio? Io mi sono dato come spiegazione il fatto che proprio quando si è messi alle corde, al massimo della compressione, si ricorre a tutte le forme possibili di emergenza; e quindi anche allo scomparso, all’antenato, che rappresentano il nostro diritto a essere al mondo. Noi ritorniamo a loro perché da lì proveniamo, ricorriamo a loro e ce li facciamo girare attorno perché abbiamo bisogno anche del loro aiuto. Poi quando si dirada la pressione, gli spiriti scompaiono. Non si sente più parlare di spiriti, di apparizioni: non c’è chi racconta più queste storie ai figli. “Si dovesse spaventare il bambino! – è il solo commento. E invece il bambino si deve spaventare, attraverso questo genere di favole, perché esse addestrano, vaccinano dagli spaventi colossali che il bambino si porta dentro prima ancora di nascere.

Domanda – Ci sono i personaggi, ma Montedidio non c’è, è di contorno, fa da sfondo…

De Luca – Perché il posto dove si svolge principalmente questa storia è una terrazza, che dovrebbe esser la più alta, dunque la più lontana dal suolo e dal luogo. Sulla terrazza un ragazzo tredicenne, che poi è l’io narrante, si allena a lanciare un boomerang, o meglio il “bumeràn”, che gli è stato regalato dal padre, ripetendo il gesto del lancio senza staccarlo dalla mano. Sempre sulla terrazza il ragazzo incontra Maria, una sua coetanea ben più vissuta - costretta a cedere alle voglie del vecchio padrone - che ora rivendica amore, pulizia, fierezza. L’altro luogo del libro è la bottega del falegname Mast’Errico, dove l’adolescente, terminate in ritardo le elementari, lavora da apprendista. C’è poi, sempre come ospite della bottega, questo don Rafaniello, il calzolaio gobbo dal cuore d’oro: un ebreo scampato all’Olocausto (Rav Daniel il suo vero nome), fermatosi a Napoli durante il viaggio verso Gerusalemme e lì rimasto perché tutti giravano scalzi, e c’era un gran bisogno di scarpe.

Domanda – È stato difficile vestire i panni di un tredicenne? Perché è così interessato al mondo dei ragazzi?

De Luca – Intanto mi interessano i momenti di passaggio. Poi da adulti si perde quell’intensità che invece è presente nell’infanzia che è agitatissima, è densa di dentro e di fuori. Infatti nel mondo adulto si verifica lentamente una riduzione dell’infinita pluralità per giungere ad un’identità soltanto, a rispondere di se stesso con un solo nome, una sola faccia. Si ha uno spopolamento nella persona di tutta la folla che eravamo. Così in questo spopolamento vanno via anche gli spiriti che si rivolgono a quelli della generazione successiva.

Domanda – Una piccola comunità, le cui vicende si trasformano alla fine in una favola piena di mistero…

De Luca – Sì. È la favola dell’amore pieno, carnale e puro per Maria; la favola del “bumeràn” che finalmente si perderà nel cielo lanciato da una forza inaudita, lasciandosi dietro una lunga traccia di fuoco; la favola delle ali che don Rafaniello custodisce nella gobba e che prima o poi gli consentiranno di volare verso Gerusalemme.

Domanda – Un finale in cui Montedidio si trasfigurerà pian piano fino ad assumere le sembianze del “monte di Dio” di un salmo di Davide, direttamente richiamato dalle parole di Don Rafaniello. Si tratta solo della vita di questo calzolaio o c’è qualcosa anche della sua?

De Luca – No, non c’è niente della mia vita, perché io non sono credente, dunque non prego. La preghiera è di chi dà del tu a Dio e si rivolge a questa presenza con la massima intimità. Come per esempio fa Davide: i suoi salmi passano per salmi di preghiera ma sono spesso salmi di insulto a Dio. Quest’intimità sfrenata, che sta dentro a una preghiera come a una bestemmia, non mi appartiene.

Domanda - È mai stato a Gerusalemme?

De Luca – Ci sono stato una volta, perché mi hanno invitato a un Festival del libro. Ho girato per quella città che mi ha fatto venire “u male e capa”. Gerusalemme m’ha stancato! Per molta parte del mondo è una città sacra, io mi guarderei bene dal togliere quest’aggettivo da quella città. È un aggettivo definitivo: Gerusalemme è una città sacra. Ha più di una confessione religiosa. I suoi abitanti, da quando hanno nella città tutte queste cose religiose, sono costretti a una persecuzione continua della storia.
Siccome è una città sacra, dovrebbe essere l’ombelico della terra: l’ombelico è un nodo, un nodo fatto al momento della separazione. Quella città è il punto in cui la terra si separa dal cielo.

Domanda - È palese il suo intento di accomunare Gerusalemme a Napoli. Quali sono i legami tra queste due città?

De Luca – Napoli è una città strana, con un culto eccessivo per il sangue. Quello di San Gennaro ne è l’esempio più famoso. Poi ci sono tanti altri santi ugualmente miracolosi che svolgono un’attività sanguigna, dallo stato solido a quello liquido. Il sangue è anche presente in tutte le bestemmie. In una parte delle Sacre Scritture si afferma che Gerusalemme sia la città dei sangui e Napoli, in questo senso, è un po’ parente di Gerusalemme. La seconda parentela è Montedidio, il vecchio quartiere di tufo, trattato in questo libro, dove anche io sono cresciuto. Montedidio è il nome che spetta alla geografia e alla storia di Gerusalemme: è un’altura ufficialmente assegnata a quella città e il Montedidio a Napoli è invece abusivo. Poi io trovo molte affinità tra i modi di fare e i pensieri dei napoletani e quelli della tradizione yiddish, degli ebrei dell’Europa orientale. In quel mondo ho trovato molto di napoletano: sono ciarlieri, muovono molto le mani, sono molto superstiziosi. Hanno anche alcune barzellette in comune.

Domanda – Come è nata la tua passione per lo studio della lingua ebraica antica?

De Luca – Ho iniziato circa venti anni fa, quando facevo il mestiere di operaio. Dopo le lotte davanti alla Fiat dell’autunno dell’80 contro i licenziamenti di migliaia di operai, mi sono ritrovato nei miei trent’anni con quel mestiere e una immensa solitudine intorno. Ho cominciato a interessarmi di antichità, forse per ostilità nei confronti di ciò che mi era contemporaneo, di quella che era in quel momento la mia realtà. Così mi sono imbattuto in quelle storie, che mi sono parse magnifiche, a tal punto da diventare un lettore assiduo, quotidiano (le ho lette anche stamattina).

Domanda - Cos’è che l’affascina di più di queste storie?

De Luca – Nella materia ebraica c’è un’asprezza, una crudezza e una materialità delle cose che rendono il sacro palpabile, e non etereo. Il sacro non è filosofico, ma è vita umana, carne sporca di polvere, di fango, di sudore. È una cosa che ha a che fare con la materia di cui siamo fatti. La Genesi dice che l’uomo è fatto di due elementi: la polvere e il fiato di eloim. Quando si dice: “Polvere ritornerai”, non ci vedo nulla di deprimente. Vuol dire che non regrediremo oltre, che non diventeremo un nulla. Noi, alla fine, consisteremo sempre in qualcosa, in questa specie di materia impalpabile – ma ancora materia – che ancora con acqua e soffio può ritornare vita. Quindi la polvere è un elemento positivo.

Domanda – Il punto di convergenza della versatilità della sua scrittura – che attraversa diversi generi letterari: dalla letteratura alle traduzioni bibliche, alla saggistica d’impegno politico – può essere trovato in un bisogno di recupero della memoria storica?

De Luca – Non so, viste dall’interno non mi sembra che queste esperienze abbiano molto in comune. La scrittura, per me, proviene da una memoria personale. La mia è stata continuamente avvolta dagli eventi storici. La storia, almeno quella recente, ha invaso le vite di molte persone, intervenendo in modo incisivo sulla vita personale: si è infilata dentro le famiglie, ha separato i padri dai figli, i mariti dalle mogli… La mia attività, la mia insubordinazione politica, la mia partecipazione agli eventi degli anni 70 e 80 ci sono state perché ero coetaneo di quegli eventi e di quelle situazioni. Non sono stato un promotore o un inventore: la rivolta me la sono trovata in mezzo alla strada. Ho, quindi, soltanto obbedito a quella chiamata e aderito a quel comportamento antagonista della gioventù di allora.

Domanda – Oggi c’è ancora una gioventù a cui andare dietro? C’è ancora questa chiamata?

De Luca – Oggi non ci sono tutti questi fischi forti che ti invitano a seguirli. I giovani di oggi si devono appellare esclusivamente a sé stessi: devono individuare loro che cosa abbia un senso e a quello rivolgersi. Bisogna cercare di realizzare quello che viene considerato un ideale. Anche se gran parte del nostro tempo non sarà utilizzata al meglio e verrà buttata via, resterà comunque un fondo. Come esempio, mi viene in mente il fondo della bottiglia: la posa vuol dire che il vino è buono e che vale la pena che invecchi. Spero che ognuno di noi lasci una posa. Mio padre ha lasciato in giro, nei ricordi degli altri, una posa di sorriso. Quando si pensa a lui o si parla di lui, alle persone che l’hanno conosciuto viene di sorridere. Ecco, questa posa di sorriso è la vera testimonianza di non aver sprecato il proprio tempo. Io spero che i giovani di oggi pensino a lasciare una posa.

Domanda – Per concludere, ci parla delle sue esperienze da lettore? Quali sono gli autori che hanno influenzato la sua scrittura?

De Luca – Mi sono dedicato a delle belle letture, ho avuto buoni incontri con le parole degli altri, ma non so dire se o in che modo questi incontri mi abbiano influenzato sul piano della scrittura. Non ho mai letto tutto di un autore. E non ho mai letto Proust: forse perché piaceva a mia madre e io avevo bisogno di marcare una differenza.


(Articolo pubblicato su Orizzonti n. 17 bis, dic-mar. 2002)


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