| Eravamo liceali, e si discuteva seduti al tavolino del bar, quando i bar avevano i tavolini che adesso sono scomparsi in modo che la gente consumi in fretta e si tolga dalle scatole. Quella volta, si discuteva intorno ad uno scritto di antropologia culturale, che la curiosità onnivora di noi studentelli aveva ritenuto particolarmente interessante. Il documento rappresentava la procedura rituale di una tribù primitiva, forse aborigena ma non ne sono sicuro, nella quale i maschi della tribù praticavano un buco nella terra e successivamente, proni, si industriavano nel fecondarla. Eravamo giovani, e si può immaginare con quali amenità goliardiche si commentasse una pratica agricola tanto singolare. E però, era il tempo in cui il Wwf raccomandava il rispetto e la salvezza della natura identificata con i panda graziosi, le noiose zanzare morissero pure. Rispetto alla leziosità della nascente coscienza ecologica, pure ridacchiandone fra noi avevamo chiara una cosa: il primitivo, aborigeno o meno che fosse, era colui che realmente conferiva alla terra un’aura sacra, attribuendo ad essa la grandiosa bellezza del corpo femminile, addirittura materno
IL VENTRE DELLA TERRA. Le associazioni mentali inconsce hanno un fascino dirompente e, quasi sempre, veritiero. Leggo Elena Bugini (“Franciscanae variationes”) e associo al ricordo adolescenziale dei forse aborigeni che inondano di seme la terra. L’incipit (“Tu non arretrare”...) propone subito la comparazione terra/corpo femminile, solco/vagina, zolla infeconda / utero ricettivo ma disatteso. Associazione classica: Danae fecondata dalla pioggia d’oro. La differenza è che Danae si spalanca convinta alla fecondazione, mentre il canto della Bugini è una preghiera sciamanica, la pioggia è invocata perché assente. La sciamana (“Tra i veli dolcemente insinuandoti...”) diventa dionisiaca, si offre e poi si astiene all’astensione, scioglie morbida le forme, infine (bella d’insania) si concede spalancando alla pioggia il corpo femminile. Il problema è che la pioggia d’oro è favola mitologica, Zeus non esiste, esiste invece l’oggetto d’amore che corrisponde brevemente e poi “sempre parte”; “per sempre tornare”, è vero, ma insomma la consumazione d’amore è faccenda estemporanea e quasi ginnica, il ventre della terra riceve quanto basta per distrarsi brevemente, la magnifica donazione dell’aborigeno non è compiuta, la pioggia d’oro non trasforma la zolla di Danae in campo rigoglioso. Forse l’aborigeno e lo stesso Zeus non sono all’altezza della terra. Forse, è la terra ad essere troppo esigente. Nulla per l’uomo è tanto impegnativo quanto le aspettative mitiche che la terra e Danae ripongono. Tanto che la terra e Danae correggono il tiro (“Se solo il mio viso...”): è sufficiente una carezza, il viso raccolto fra le mani, un sorriso, perché il portento dell’amore esploda, “in coppe zafferano”. Agape amorosa, in assenza di penetrazione. L’aborigeno, e Zeus, si tranquillizzano.
L’INESISTENZA DI ALARICO. Fatto è che la zolla di Danae, in assenza di penetrazione, non è detto che possa ritenersi soddisfatta. Con stupefacente viraggio scenografico, la Bugini conduce l’analogia metaforica dal pianto mitico al pianto storico. Il discorso diventa diretto, colloquio dell’io (di Elena) con l’immaginifico barbaro (Alarico) incapace di violentarla. Alarico penetrò a Roma nel 410, saccheggiandola per tre giorni. Agostino, appresa la notizia da Ippona, ne fu tanto impressionato da segnare con tale evento, in anticipo sui tempi, la fine dell’impero di Roma. La Bugini colloquia (“Davvero non t’abbisognava...” doveroso anche se scontroso, “tu” confidenziale) con il suo “lungamente atteso/sposo barbaro” per scoprire che Alarico si rivela nella realtà sprovvisto di “fibule germaniche”, un compassato signore in “giacca e cravatta” [...]
(Estratto della recensione, a cura di Rossano Onano, Rubrica “Note e noterelle”, pubblicata su “Ilfilorosso”, semestrale di cultura, Luglio-Dicembre 2011)
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