| Quell'angolo del Messico tra l'istmo di Tehuantepec e il Guatemala forma lo Stato del Chiapas. Anche qui si estendeva l'affascinante mondo dei Maya, una civiltà che affonda le sue radici nel 2300 a.C.: architettura, astronomia, matematica, artisti ineguagliabili. Poi l'arrivo dei Conquistadores e cinque secoli di sfruttamento, di sterminio, durante i quali i Maya sono diventati selvaggi da assoggettare, schiavi da vendere e oggi un fastidioso insieme di etnie che voglio mantenere sistemi di vita comunitaria.
I Maya sono attualmente cinque milioni e sopravvivono oltre che nel Chiapas, nello Yucatàn, nel Campeche, in Guatemala, in Belize e in Honduras. Nella loro storia troviamo una lunga serie di tentativi per riconquistare la libertà negata. La prima insurrezione notevole avvenne nel 1524, quando i Maya huastecas del Rio Panuco si ribellarono a Hernan Cortés. Nel 1712 nel Chiapas numerose comunità Tzotzil e Tzeltal si riunirono a Cancuc e formarono un esercito di duemila guerrieri per scacciare gli Spagnoli dalle loro terre e solo l'anno successivo la rivolta fu domata. Mezzo secolo più tardi l'indio Jacinto Canek (Serpente Nero) guidò i Maya Yacatecas a una nuova guerra, ma gli Spagnoli riuscirono a catturare vivo Canek e lo fecero a pezzi a colpi di spada. Nel 1850 la popolazione indigena si era ridotta di un terzo a causa delle persecuzioni. Il genocidio continuò ancora più massiccio sotto la dittatura di Porfirio Dìaz, Presidente del Messico dal 1876 al 1911, emanatore di una serie di leggi che accrebbero i possedimenti territoriali dei latifondisti. Quando i rivoluzionari lo costrinsero a fuggire dal Paese, Panchio Villa ed Emiliano Zapata divennero il simbolo del riscatto e nel 1914 si aprì un breve periodo di pace che consentì a Zapata di mettere in pratica una riforma agraria. «Nel 1919 un tradimento mise fine alla sua vita... Gli sopravvisse la leggenda: il cavallo color cannella che galoppava da solo, verso sud, attraverso le montagne. Ma non solo la leggenda... » (Eduardo Galeano).
Le tante comunità etniche, nel tempo, sono andate sempre più chiudendosi in sé stesse per salvare la propria appartenenza culturale, costrette a vivere in condizioni impossibili. Le conseguenze di questo lento deteriorarsi si leggono nelle statistiche elaborate dall'Istituto de Estadistica e Informatica di Città del Messico nel 1990. I dati che fotografano il Chiapas alle soglie del duemila con la sua popolazione di circa tre milioni e mezzo di persone, distribuita su una superficie di 78.000 Kmq (un quinto dell'Italia), analizzano i motivi della crisi: quasi il 60% di chi lavora si occupa di agricoltura e, a livello nazionale lo stesso settore impiega solo il 22% di lavoratori. Fra i Chiapanechi occupati, più del 60% riceve meno del salario minimo, ovvero denaro indispensabile alla sopravvivenza quotidiana. Il 30% della popolazione con più di quindici anni è analfabeta e solo il 23% ha avuto un'istruzione post-elementare. Qui la concentrazione indigena è la più alta del Paese, tanto che il 27% degli abitanti conosce almeno una lingua india oltre allo spagnolo e il 33,5% parla una delle cinque lingue maya, senza conoscere la lingua ufficiale. La malaria ha avuto in Chiapas una incidenza dieci volte superiore al resto del Messico così come il colera. Tutto ciò porta ad una aspettativa di vita di 49 anni, contro i 52,4 del messicano di altri Stati. Perciò il 10 gennaio 1991 i Maya del Chiapas si sono presentati con un passamontagna in volto, si sono definiti zapatisti chiedendo ancora, ottanta anni dopo la prima rivoluzione del secolo, Terra e Libertà. Anziché nascondere, il passamontagna ha reso visibili quei "senza volto" e così il mondo intero ha scoperto che esistono ancora e vogliono continuare ad esistere con dignità.
Come ha spiegato più volte il sub-comandante Marcos, rappresentante insieme ai sette capi Maya dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (E.Z.L.N.), si preparavano alla rivolta da dieci anni, da quando cioè, da organizzazione clandestina urbana divenne nucleo rivoluzionario alla macchia. La scelta della data, 10 gennaio 1994, non fu casuale. Quel giorno entrava in vigore il Trattato di Libero Commercio (N.A.F.T.A.) fra Canada, Stati Uniti e Messico. L'accordo avrebbe spostato l'asse economico del Messico, fino ad allora Paese ad economia protetta, trasformandolo in nazione aperta agli scambi ed investimenti stranieri. Proprio questi ultimi preoccupavano l'E.Z.L.N.
Gli statunitensi erano pronti ad interventi pesanti in Chiapas, nel mirino erano i giacimenti petroliferi e di urani della Selva Lacandona, rilevati da esperti nord-americani nella prima metà degli anni novanta.
Cosa chiedevano - e chiedono tuttora - gli zapatisti? Nel proclama "Tierra y Libertad", lanciato con la dichiarazione di guerra, chiedono che la Costituzione messicana sancisca i diritti delle popolazioni indigene rivalutandone anche la cultura, attraverso l'insegnamento delle loro lingue nelle scuole.
Il tempo è passato e i diritti di questi popoli non sono ancora entrati a far parte di alcun articolo della Costituzione messicana.
La loro terra e la difesa della loro cultura, queste continuano ad essere le richieste delle numerose etnie maya.
Eduardo Galeano, scrittore uruguayano, in un racconto-parabola dice: «Siamo tutti figli dei giorni. Per i Maya siamo stati tutti fondati dal tempo, da quando il tempo creò gli dèi che a loro volta ci modellarono come carne di mais. Siamo fatti di mais, siamo terra incantata e siamo tempo, e sul filo del tempo ci muoviamo. Credere che il tempo, il padre, si può guadagnare, è così assurdo come credere che la terra, la madre, si può comprare».
(Articolo di Antonietta Rita Roscilli, pubblicato su Orizzonti n. 11, nov.gen. 2000)
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